Brasile, pedina di una strategia della tensione su base continentale
- di Giovanni di Fronzo
- Categoria: Internazionale
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Continua la ventata reazionaria in America Latina: oggetto dell’offensiva più intensa e foriera di possibili conseguenze immediate, da parte dell’imperialismo, è il “pesce più grosso” del subcontinente, ovvero il Brasile, il quale è solo l’ultimo paese oggetto di un attacco coordinato che ha già ottenuto sostanziali risultati in Argentina e Venezuela, dove gli USA hanno conquistato, attraverso forze politiche a loro subalterne, rispettivamente, la presidenza e la maggioranza parlamentare.
Si tratta di una strategia di attacco che l’imperialismo riesce a giocare su più piani: da quello della violenza esplicita, volta a scalzare i governi nemici o non abbastanza collaborativi, con manifestazioni guidate da gruppi armati, aventi per lo più lo scopo di creare caos e instabilità (si ricordino le guarimbas venezuelane, composte essenzialmente da criminali dediti a devastazioni, vandalismi e uccisioni), a quello della lotta interna agli apparati statali, consistente nel muovere le proprie pedine nei parlamenti, nei sistemi giudiziari, nei governi locali al fine di operare dei golpe istituzionali o boicottare i governi centrali, fino a quello della guerra economica, sfruttando l’eccessiva dipendenza delle economie latino-americane dal settore dell’estrazione di materie prime.
Nel caso del Brasile, le turbolenze si protraggono oramai da due anni, più o meno da quando questo paese “emergente” ha cessato di crescere economicamente, aprendo la strada al periodo di recessione che coinvolge anche tutti gli altri BRICS, a parte la Cina, la quale vive problemi di dimensioni molto minori e continua comunque a crescere (seppur in misura minore rispetto al passato). Nella precedente congiuntura economica positiva, durata dall’ascesa al potere del Partito dei Lavoratori (PT) risalente al 2002, fino al 2010, il governo progressista aveva potuto giocare su due tavoli: da una parte un’ampia redistribuzione diretta alle sterminate masse di indigenti brasiliani, dall’altro una continua tendenza a cercare compromessi e conciliazioni con l’imperialismo USA, anche nel settore energetico, che è quello principale. Tuttavia, in tutti questi anni la discontinuità rispetto ai precedenti governi, completamente subalterni al Washington consensuns, è stata comunque evidente, tant’è che il Brasile ha assunto la funzione di partner economico e politico fondamentale anche per lo sviluppo di esperienze di governo progressista più avanzate, come quelle dei paesi dell’ALBA, che subiscono un crescente attacco, ad eccezione di Cuba, dove il governo americano sembra aver mutato tattica. Il governo Lula, infatti, ha dapprima collaborato con quelli di Nestor Kirchner e di Hugo Chavez all’affossamento del progetto di integrazione di tipo turbo-capitalista dell’ALCA, poi ha partecipato a progetti di integrazione di segno diverso e contrari agli interessi dell’imperialismo, come Unasur, Celac, Petrocaribe, ecc.
Una volta sopraggiunta la crisi anche in Brasile, i margini di redistribuzione si sono esauriti e molti nodi sono venuti al pettine: i servizi pubblici si sono rivelati più scadenti e meno inclusivi rispetto alle aspettative degli strati sociali in ascesa grazie alle politiche sociali precedenti, la disoccupazione è ricominciata a salire, il rapporto privilegiato del governo con larga parte della borghesia ha cominciato a mostrare i propri effetti negativi nei confronti delle classi popolari, tant’è che si sono implementate consistenti misure di austerità.
Così, a partire dal periodo che ha preceduto i mondiali del 2014, il Brasile è stato teatro di una lunga serie di mobilitazione partite da movimenti di sinistra e popolari ma presto egemonizzate da forze di segno contrario, utilizzate come terreno di legittimazione da parte delle élite che coltivano i legami più stretti con l’imperialismo con l’obiettivo di aprire la strada alla defenestrazione del governo sgradito per sostituirlo con uno subalterno alle oligarchie tradizionali oltre che agli interessi di Washington.
Così, dopo un lungo periodo vissuto all’insegna dell’alternarsi di periodi di relativa calma a periodi di proteste, per lo più dirette genericamente “contro la corruzione”, ma comunque fomentate dalle oligarchie, la lotta politica si è riversata sul piano giudiziario e l’obiettivo dell’opposizione politica, in verità di per sé abbastanza debole ed evanescente, ma rafforzata dal sostegno dell’imperialismo, è diventato la destituzione della Presidente Dilma Russeff per via giudiziaria.
Da un paio di anni, infatti, sono in corso una serie di processi intentati contro i dirigenti del Partito dei Lavoratori, aventi come oggetto dei casi di corruzione e tangenti specialmente legati al settore estrattivo e alla gestione di Petrobras, la potente società petrolifera di stato.
In particolare, si è scatenata una battaglia politica e giudiziaria fra governo e opposizione da quando la Corte dei Conti federale ha bocciato il bilancio del 2014, in quanto sarebbe stato truccato per coprire il crescente deficit; allora, l’opposizione ne approfittò per chiedere l’impeachment nei confronti di Dilma Russeff, che avrebbe comportato la decadenza dalle sue funzioni. Questa disputa è ancora in corso.
E’ di queste settimane, invece, il coinvolgimento diretto in un processo per tangenti, sempre legato a Petrobras, dell’ex-Presidente Lula, che è stato posto in stato di fermo e interrogato proprio nei giorni successivi all’annuncio di volersi ricandidare alla guida del paese alle prossime elezioni presidenziali. A seguito di tale provvedimento, lo stesso Lula è stato nominato Capo di Gabinetto dalla Presidente, carica che implica la sospensione dei processi a suo carico; clamorosamente, subito dopo il giuramento, un media dell’opposizione, commettendo un atto assolutamente illegale, ha pubblicato un’intercettazione telefonica tra Dilma e Lula in cui la prima faceva riferimento al documento di investitura alla nuova carica dell’ex-presidente, dicendo che avrebbe dovuto essere utilizzato solo “se necessario”. Alcuni giudici vicini alle elite oligarchiche hanno colto la palla al balzo per annullare la nomina di Lula con la motivazione che essa sarebbe strumentale perché volta a sottrarlo dai processi; il tira e molla giudiziario sulla questione è ancora in corso e durerà a lungo.
In questi giorni si susseguono da una parte le manifestazioni delle opposizioni, mosse e sponsorizzate dalla borghesia filo-imperialista, con la parola d’ordine del cambio di governo e l’esplicito appello ai militari ad intervenire per riportare ‘ordine e pulizia’; dall’altra scendono in piazza anche i settori della sinistra brasiliana vicini al governo, o anche critici verso di esso, ma consapevoli che se la caduta dell’esecutivo dovesse andare in porto per mano di queste azioni giudiziarie, si sarebbe in presenza di un golpe istituzionale reazionario che spianerebbe la strada al ritorno in sella di tendenze politiche nostalgiche del vecchio regime militare.
E’ significativa la presa di posizione del movimento dei braccianti agricoli denominato “Sem Terra”, il quale costituisce la spina dorsale della galassia dei movimenti sociali brasiliani e scende anche in piazza, tenendo però un profilo politico prudente e, soprattutto, autonomo dalle oligarchie, sin dall’inizio delle manifestazioni nel 2013-2014. “ Il paese”, si afferma nel documento-appello diffuso dal movimento, “è scosso da una grave crisi economica, sociale, politica e ambientale che colpisce tutta la società e che è anche il risultato della crisi mondiale del capitalismo, della situazione di dipendenza del paese, oltre che di una politica economica sbagliata del governo e all’avidità dei capitalisti. I settori della borghesia, che dominano l’economia e sono allineati con il capitale straniero, vogliono il ritorno del neoliberismo. Tuttavia, non possono dire esplicitamente al popolo che vogliono privatizzare la Petrobras e diminuire le risorse pubbliche (…) un pezzo della società, la cosiddetta piccola borghesia è andata in strada, a gridare il suo odio per spingere la popolazione a manifestare contro il governo predicando chiaramente il golpe. Travolgere Dilma è una loro necessità per riprendere il controllo dell’esecutivo, delle leggi”. In seguito, si lancia l’allarme anche su una possibile escalation che potrebbe portare ad una guerra civile se le proteste finanziate dall’oligarchia dovessero continuare.
Ci sembra, questa, la posizione più corretta. Al di là della veridicità o meno del coinvolgimento dei dirigenti del PT nei casi di corruzione oggetto dei processi (c’è da dire che la corruzione riguarda anche i dirigenti delle opposizioni che ora si ergono a paladine della moralità contro Dilma, per cui si tratta di un pretesto del tutto strumentale, volto a coprire la subalternità nei confronti dei capitali stranieri, che non può essere ammessa esplicitamente) e della politica generale di conciliazione con l’imperialismo tenuta da questo partito, che costituisce un dato di fatto, non si può non vedere come sia in atto un’offensiva organica e coordinata, da parte degli USA per riprendersi “il cortile di casa” sudamericano, anche per rifarsi dalla perdita di influenza subita su altri scenari, come quello siriano, dove gli americani salvano la faccia solo grazie alla disponibilità al compromesso da parte del competitore russo.
Particolarmente efficace si è rivelata l’offensiva portata all’interno degli apparati degli stati, che ha già portato al decadimento del Presidente del Paraguay Fernando Lugo nel 2012, ha messo in difficoltà in maniera probabilmente decisiva l’ ex-Presidente dell’Argentina Cristina Fernandez de Kirchner nella disputa relativa ai cosiddetti “fondi avvoltoio” e che ora sta agendo nella questione dell’impeachment di Dilma e in Venezuela, dove la nuova maggioranza parlamentare reazionaria che progetta di sovvertire il governo espressione della Rivoluzione Bolivariana in maniera totalmente incostituzionale.
Pertanto, in questo come in altri scenari è necessario identificare la contraddizione principale come quella fra l’imperialismo e chi vi si oppone (anche se costretto dalle circostanze) e sostenere tutte le forze e le componenti politiche che si annoverano fra questi ultimi. Nel caso del Brasile, seppure i motivi per manifestare contro il governo non mancano, le proteste che si susseguono non possono essere che considerate la manifestazione di un movimento reazionario, guidato da forze sociali reazionarie e filo-imperialiste, le quali hanno l’intento di creare una situazione simile a quella dell’Ucraina nel periodo dell’occupazione di Piazza Maidan, per poter dare la spallata decisiva al PT anche attraverso la violenza dei gruppi di estrema destra.
Giovanni Di Fronzo