Partito e organizzazione: una base di discussione per i comunisti in Italia
- di Rete dei Comunisti
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Pubblichiamo questo documento della RdC di qualche anno fa. Tale documento informò, nel 2010, un Forum di discussione al quale parteciparono forze politiche comuniste, intellettuali e vari militanti provenienti dall’Italia e da altri paesi.
L’opuscolo contenente questo documento è andato esaurito. Lo riproponiamo oggi all’attenzione dei compagni e degli attivisti politici e sociali con cui intratteniamo relazioni politiche e con cui conduciamo mobilitazioni nei movimenti di lotta ed oltre.
Ricordiamo, altresì, che nelle varie città in cui la Rete dei Comunisti è radicata continua il tesseramento alla nostra Organizzazione che costituisce un passaggio importante per concretizzare una scelta di impegno politico militante a tutto campo.
Redazione Rete dei Comunisti - Febbraio 2016
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Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto storico come l’attuale e in uno dei poli imperialisti di questo nuovo secolo come quello dell’Unione Europea è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti nel nostro paese non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito che non possano dare per scontati presupposti che a noi ora non sembrano più tali.
In questi anni ci siamo trovati di fronte a due tipi di possibilità. La prima è stata quella della riproposizione tout court del partito comunista di massa nato nel dopoguerra, in un contesto storico e internazionale del tutto diverso nel quale svolse certamente una funzione fondamentale fino a modificare in quei decenni i rapporti di forza tra le classi nel nostro paese.
Oggi una ipotesi del genere che non tenga conto nel dovuto modo delle radicali modifiche avute sul piano della produzione, della composizione di classe, della identità delle classi subalterne non ci sembra adeguata perché prescinde da una dinamica, perfino violenta nei confronti dei comunisti, come è stata quella che si è manifestata dai primi anni ’90. Questa impostazione da “partito di massa” non riguarda però solo i partiti che hanno una dimensione prevalentemente elettorale ma anche quelle organizzazioni che comunque si concepiscono come struttura di massa in cui il dato centrale è quello della semplice adesione sui principi.
L’altra opzione, peraltro maggioritaria in questi ultimi due decenni, è stata quella della mutazione “latente” in cui non si diceva chiaramente che essere partito comunista significava essere fuori dalla storia ma, nei fatti, la questione di quale partito era necessario ai comunisti veniva rimossa buttando così il bambino con l’acqua sporca. Semplicemente non veniva affrontata la necessità di fare i conti in modo pubblico, trasparente ed onesto con una storia che ha segnato profondamente tutto il XX secolo anche con i limiti strategici e gli errori che una trasformazione sociale di quella portata comporta inevitabilmente.
Riproporre oggi in Europa ed in Italia la necessità dell’organizzazione dei comunisti significa ricostruire un percorso analitico e teorico che tenga conto dei profondi mutamenti avuti e primo tra tutti quello relativo alla classe operaia intesa come avanguardia nel conflitto con il capitale. Infatti nel momento in cui si invera la dimensione internazionale della classe lavoratrice, a seguito della mondializzazione della produzione, si segna paradossalmente anche la crisi di chi aveva, con l’internazionalismo, anticipato teoricamente e politicamente questa prospettiva.
Se volgiamo lo sguardo al nostro continente vediamo una molteplicità di modi di organizzazione dei comunisti che da una parte rispecchiano evidentemente le diverse condizioni specifiche di esistenza, ma dall’altra mostrano una mancanza di unitarietà nella lettura della realtà ed una frammentazione forse inevitabile ma sintomatica dei limiti anche teorici del movimento comunista.
Abbiamo, infatti, ancora solidi partiti di massa come in Grecia e Portogallo che sono il riflesso di una condizione di classe vicina a quella che è stata la nostra esperienza storica. Poi ci sono partiti che stentano a mantenere una dimensione di massa e istituzionale, come in Francia, in Spagna ed in Italia, fino ad esperienze dove i comunisti hanno scelto di essere solo una componente interna di uno schieramento politico di sinistra. Infine ci sono le esperienze nate negli anni ’70 e non riassorbite dentro la componente storica dei partiti che sono stati legati all’Unione Sovietica ed alla terza internazionale.
Per quanto ci riguarda sappiamo benissimo che una tematica come quella del partito è complessa, che non può essere affrontata a tavolino ma nel vivo dello scontro di classe in atto nel nostro paese ed a livello internazionale, ma di fronte ad una molteplicità di esperienze pensiamo che vada fatto uno sforzo teorico per individuare una prospettiva, sapendo che dobbiamo prenderci la responsabilità di dare indicazioni sul come organizzare i comunisti, coscienti dei nostri limiti e delle possibili verifiche negative.
In questo senso diciamo subito qual è il nostro pensiero per rendere chiara la nostra tesi e per rendere più diretto il confronto che intendiamo proporre. Di fronte ai profondi mutamenti strutturali avuti nel nostro paese, perché e di questo che stiamo parlando e delle condizioni che questo ci pone, pensiamo che, per recuperare una funzione effettiva dei comunisti, attestarsi su una concezione di partito di massa classicamente inteso impedisca di svolgere quella funzione strategica che i comunisti possono avere anche oggi nei paesi a capitalismo avanzato.
Non un partito di massa, ma un partito di quadri che metta al primo posto il dato qualitativo della funzione da svolgere, che è di visione strategica e storica delle dinamiche generali, ma anche organicamente interna al conflitto di classe politico e sociale organizzato reso ora possibile nelle condizioni determinatesi nel nostro paese.
Questa nostra posizione nasce dalla maturazione di un punto di vista sulla situazione generale e sulle sue dinamiche a partire dagli anni ’90. Cercando di rispettare la necessità della sintesi, tenteremo di essere sufficientemente chiari nell’ esporre il nostro pensiero.
Dopo la fine dell’URSS e la sconfitta del movimento operaio del ‘900 ci è sembrato che si producesse un effetto generale a noi storicamente sconosciuto. Questo effetto è stata la obiettiva separazione dei fronti strategici del conflitto di classe così come si è configurato nel secolo passato e come era stato concepito anche dai fondatori del marxismo. Il primo era quello rivoluzionario della trasformazione sociale che vedeva come protagonisti i comunisti e la loro organizzazione. Il secondo era quello della politica verso i lavoratori, i settori popolari ed il blocco sociale storicamente dato. Infine c’era quello del conflitto di classe materiale, sindacale e sociale. Questa modifica ci è sembrato che rimettesse in discussione le modalità della sintesi politica unitaria come noi l’abbiamo conosciuta e vissuta e che fu quella del partito comunista di massa, concezione, questa, del PCI, ma anche dei gruppi della sinistra rivoluzionaria degli anni ’70.
Questo “scompaginamento” strutturale ci sembrava che richiedesse un processo di ricostruzione non ordinario, pur mantenendo saldi i principi di fondo, che costruisse attorno a quei tre punti di scontro adeguate modalità d’organizzazione diversificate, certamente orientate verso un processo di ricomposizione, ma che non poteva non tenere conto del nuovo contesto complessivo e dei tempi necessari, evitando con cura forzature “politiche” dannose ai fini della prospettiva. Questa estremamente sintetica enunciazione naturalmente andrebbe spiegata in modo più approfondito, cosa qui non possibile ma che abbiamo cercato di fare negli anni passati con analisi ed elaborazioni anche pubbliche e testi scritti.
Per essere più concreti e, riteniamo, a conferma di quello che affermiamo, se facciamo una ricognizione obiettiva della situazione possiamo indubbiamente dire che nel nostro paese il conflitto di classe materiale è più avanzato del conflitto politico, ormai rinchiuso nella gabbia del bipolarismo. Come possiamo affermare con tranquillità che le ipotesi di trasformazione sociale oggi vivono dentro la dimensione internazionale del conflitto, cioè dentro la dimensione reale della produzione capitalista nella fase della piena mondializzazione. Non sappiamo se la nostra analisi è corretta, ma ci sembra evidente la disarticolazione del conflitto di classe a noi storicamente noto e la necessità di ritrovare una sintesi che, però, non può prescindere dalla materialità della situazione in cui siamo tutti immersi. E’ questa visione delle cose che ci ha spinto a lavorare in modo articolato sui tre diversi “fronti” facendo, dal nostro punto di vista, verifiche molto concrete.
Infatti, mentre la necessità della trasformazione sociale ha ripreso quota dentro le contraddizioni internazionali, ricreando anche da noi le condizioni per un nuovo ruolo dei comunisti, assieme al conflitto di classe reso più forte dalla crisi economica, il terreno su cui le verifiche sono state per tutti negative è stato quello della rappresentanza politica, ed ora anche di quella istituzionale, dei settori sociali, ambito dove le difficoltà sono ormai a tutti evidenti.
Una questione di metodo
Per cominciare ad entrare nel merito vogliamo definire un approccio adeguato che ci metta in condizione sia di aprire una riflessione di ampio respiro, ma anche di capire come cominciare a muoverci dentro il nuovo “ambiente” che si è determinato nel mondo politico del nostro paese. Sulla questione della soggettività organizzata, e dunque del partito, è chiaro che abbiamo un piano teorico e di dibattito nel movimento comunista che dovremo affrontare, ma c’è anche un piano storico che non è assolutamente secondario in quanto l’evoluzione delle vicende ci dà elementi dinamici su cui ragionare e confrontare gli assunti teorici.
L’obiettivo della nostra elaborazione è quello di cogliere quelle tendenze che si sono affermate e che hanno ancora un carattere di validità e capire, invece, quegli elementi che sono stati superati ed ai quali è inutile rimanere aggrappati. Infine gli elementi che riteniamo validi vanno collegati al nuovo contesto in cui ci muoviamo. Naturalmente da queste riflessioni non possiamo pensare di trovare una “formula”, che peraltro non esiste, però possiamo utilizzarle per capire la direzione in cui muoverci e quali debbano essere i passi da fare per adeguare le attuali forme d’organizzazione alle necessità e soprattutto alle possibilità che vengono dalla realtà.
Si capisce bene che non stiamo parlando di scrivere semplicemente un documento sul Partito, ma di aprire una fase di riflessione che in via di principio prescinde dalla concretezza organizzativa ed apre ragionamenti di più vasta portata. Vogliamo pianificare un lavoro di ricerca e di confronto pubblico come abbiamo fatto fino ad oggi su tutte le questioni che si ponevano su un livello alto di riflessione, anche se parevano lontanissime dal fare politica quotidiano.
Non possiamo nasconderci le difficoltà di una simile operazione e sappiamo altrettanto bene che il risultato non è affatto scontato, ma se non ci incamminiamo su questa strada il rischio è quello della approssimazione organizzativa, della risposta contingente, della possibilità di bruciare opportunità che possono apparire a portata di mano, ma verso le quali non abbiamo nessun “pensiero forte” da utilizzare.
Un’ ipotesi di schema
La questione del partito è stato oggetto di un confronto teorico e politico continuo dentro il movimento comunista legato alle situazioni specifiche ed alle varie fasi storiche. Addentrarci in questo dibattito cercando di schierarci su questa o quella posizione, che pure possiamo ritenere giusta, rischia di complicare una questione di per se già molto complessa. Non solo questo approccio probabilmente non è “oggettivamente” utile ma vogliamo tenere conto anche della nostra inadeguatezza teorica e delle difficoltà di verifica nella “prassi” di un tale livello di elaborazione per noi che, appunto, non abbiamo a disposizione un partito che è lo strumento della verifica.
L’alternativa rispetto a tale posizione, che viene generalmente assunta dai comunisti sempre eccessivamente gelosi della propria opinione ed identità, è quella di sviluppare una analisi per fasi storiche, economiche, sociali da mettere in collegamento con i diversi modelli di organizzazione politica e di riuscire a trarre poi gli elementi che permangono e che possono avere anche nel contesto attuale una funzione da tradurre nella concretezza dell’ azione. Ovviamente il primo passaggio da fare è quello di avere una analisi credibile e da affinare nel tempo, quello che va elaborato ora è perciò uno schema ragionato e più organico possibile per iniziare la discussione.
I piani di analisi potrebbero essere questi, con le eventuali modifiche e verifiche da fare:
1 – fasi storiche del Modo di Produzione Capitalista e l’egemonia
2 – trasformazioni strutturali e le condizioni della classe
3 – trasformazioni della composizione di classe e coscienza
4 – Classe e partito, forme dell’organizzazione
FASI STORICHE DEL MPC E L’EGEMONIA
E’ la dimensione che rappresenta lo “scenario” su cui il soggetto di classe si è mosso ed ha trovato le sue possibilità di sviluppo. Modo di Produzione Capitalista e non capitalismo perché se analizziamo le sue tendenze di fondo, e non solo le sue forme concrete e storiche, riusciamo a comprendere meglio la dinamica degli eventi passati e che agisce tuttora. L’antagonismo di classe e le possibilità di una società alternativa sono state e sono strettamente collegate al rapporto tra sviluppo delle Forze Produttive e Rapporti di Produzione, che è la vera contraddizione del capitalismo e della quale il conflitto capitale lavoro ne rappresenta l’essenza. Lo scenario storico su cui si sono mossi i partiti operai è stato caratterizzato da questa dinamica e per capire la loro nascita, sviluppo, crisi e possibilità di ripresa è a questa che dobbiamo fare riferimento.
A - Sicuramente l’800 è stato il secolo dove la corrispondenzatra forze produttive e rapporti di produzione fu completa, un periodo nel quale la crescita del capitalismo rispondeva ad una bisogno generale di emancipazione dalla miseria e dall’ignoranza. Se la prima parte si è avuto in assenza della lotta di classe organizzata, anche se ne erano presenti tutti i prodromi sociali e politici, la seconda parte del secolo ha segnato finalmente la nascita dei grandi partiti operai, a cominciare da quello della Germania, sorti sulla scia del potente pensiero marxista. Evoluzione che manifesta i primi sintomi della crisi di egemonia verso la quale si muove il capitalismo.
B – A cavallo del secolo c’è stato il passaggio dal capitalismo concorrenziale al monopolio ed all’ imperialismo, analizzati da Lenin, che ha segnato la fine di una lunghissima fase di crescita, la fine della corrispondenza tra forze produttive e rapporti di produzione e conseguentemente della sua capacità egemonica in modo palese. La manifestazione concreta di questa fase contraddittoria è stato il periodo bellico andato dal 1914 al 1945 con il corredo di crisi economiche, finanziarie, sociali, politiche segnate nella storia dei paesi a capitalismo avanzato in Europa ed in America. E’ stata anche l’epoca dove le rotture rivoluzionarie, vittoriose o meno, si sono moltiplicate e dove il campo imperialista si è diviso drammaticamente facendo emergere la necessità e la possibilità di una società alternativa.
Va ricordato, però, che la capacità di egemonia borghese, per quanto rimessa in discussione, ha comunque tenuto nei punti alti dello sviluppo capitalista manifestando i punti più acuti della propria crisi nella periferia a cominciare dalla rivoluzione del 1917. Nei paesi imperialisti, infatti, di fronte al pericolo delle rotture rivoluzionarie si è messa in moto la lotta di classe “dall’alto” prima sul piano produttivo e sociale minando la potenziale unità tra operai e contadini e poi, nel 1914, spaccando il movimento operaio europeo di fronte all’esplodere della guerra imperialista.
C - La fine della seconda guerra mondiale vede uno scenario completamente diverso e potenzialità di crescita sia per il campo socialista, che si era allargato ad ovest ma soprattutto ad est con la Cina, sia per il campo imperialista anche se meno evidenti data la modifica internazionale dei rapporti di forza politici e militari. Comunque la distruzione bellica restituisce al capitalismo, unificato sotto il comando “imperiale” statunitense, la possibilità di crescita ed il superamento della contraddizione generata dallo sviluppo delle forze produttive. Contraddizione che si ripresenta con la crisi di sovrapproduzione degli anni ’70 che segna una nuova tappa che non sbocca, per motivi strategici legati ai rapporti di forza tra le classi interni ed internazionali, in una nuova guerra ma in un salto scientifico e tecnologico e di riorganizzazione produttiva e finanziaria che recupera nuovamente le potenzialità di crescita, riversando le contraddizioni nel campo avverso dei paesi socialisti.
D - Questo “doppio passo” del capitalismo nella seconda metà del ‘900 è stato speculare alle capacità di tenuta dei paesi socialisti ma, più significativamente, dell’intero movimento operaio ed antimperialista a livello mondiale che segna l’ arretramento a noi tutti noto nei modi e nelle forme. L’egemonia persa nel 1917 e non recuperata fino agli anni ’70 va di nuovo ad appannaggio del campo imperialista per la ritrovata sintonia tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione che sembra ridare fiato ad una fase di sviluppo di lungo periodo grazie anche alla scomparsa dell’URSS, del campo socialista nei paesi dell’EST Europa ed alla apertura ai mercati della Cina e dell’India.
E - Nel modo di produzione capitalista la crescita quantitativa ha però il risultato di dilazionare nel tempo, anche se in tempi non necessariamente brevi come ben sappiamo, il manifestarsi della contraddizione e dunque quello che sembrava ormai acquisito negli anni ’90 oggi viene rimesso in discussione non direttamente dal conflitto di classe, apparentemente l’egemonia del capitale non è stata mai cosi forte ed estesa, ma dalla dinamica sua propria. La crisi finanziaria, quella energetica, quella ambientale, le tendenze alla guerra e la crisi sociale mondiale costituiscono un nuovo passaggio storico che va interpretato perché una ripresa della soggettività antagonista e di classe è con questi elementi di fondo che dovrà fare i conti se vuole ipotizzare , in tempi e modi oggi non prevedibili, un nuovo progetto di trasformazione sociale.
TRASFORMAZIONI STRUTTURALI E LE CONDIZIONI DELLA CLASSE
L’analisi delle trasformazioni strutturali della produzione capitalista sia nella fase concorrenziale che in quella monopolista è stata oggetto, anche se con punti di vista diversi, di una ampia letteratura che ha descritto i passaggi fatti fino ai nostri giorni. Anche il lavoro che abbiamo sviluppato in questi ultimi 10/15 anni ha più volte descritto i passaggi di quella evoluzione produttiva in funzione dell’analisi di classe che ci ha visto impegnati.
Dalla produzione manifatturiera alla grande industria meccanizzata dei primi del XX secolo, dalla prima produzione fordista negli USA alla produzione di massa nelle catene di montaggio diffusa in tutti paesi capitalisti avanzati, si è manifestata la tendenza al rivoluzionamento continuo delle forme della produzione che ha fatto da supporto materiale allo scenario storico che abbiamo descritto nel precedente punto e che ha sostenuto la capacità egemonica, dentro un processo fortemente contraddittorio, della borghesia internazionale.
Anche la fase attuale, detta genericamente post-fordista o della produzione flessibile, segna un ultimo rivoluzionamento delle forme del produrre capitalista avvalendosi della, appunto, rivoluzione tecnico-scientifica che però ha forti segni di discontinuità rispetto alle fasi precedenti. Inoltre ha per la prima volta una dimensione pienamente mondializzata della produzione e della circolazione delle merci che, invece, segna una continuità con la tendenza al superamento delle basi nazionali della produzione.
Classe operaia e sviluppo tecnologico - Su questo ci limitiamo a segnare alcuni elementi che caratterizzano la fase attuale cioè quella della discontinuità generata dallo sviluppo tecnico e scientifico che prima citavamo. La prima, fondamentale, è quella che riguarda la classe operaia di fabbrica classicamente intesa; la discontinuità odierna è legata al fatto che fino alla fase precedente l’aumento della produzione della grande fabbrica, cioè del cuore del capitalismo, procedeva di pari passo all’aumento ed alla concentrazione della classe operaia, cioè del soggetto di classe direttamente antagonista al capitale. Questo ha caratterizzato il periodo post bellico dove parallelamente alla crescita quantitativa nei paesi sviluppati della classe operaia aumentava il loro potere contrattuale e politico e la mediazione sociale dello Stato con la nascita del Welfare.
L’avvio della produzione flessibile e dunque dell’uso intensivo della scienza e della tecnica nella produzione fa saltare questa accoppiata e separa le sorti dell’operaio di fabbrica dal punto più avanzato del processo produttivo. La nascita delle filiere produttive dislocate sulla dimensione internazionale permette di ripristinare lo sfruttamento e l’estrazione del plusvalore in un punto lontano dai centri strategici, produttivi e finanziari, del capitale. Questa non è solo una constatazione “tecnica” ma modifica la condizione materiale della classe operaia, riduce il suo potere contrattuale e, separandola strategicamente dai punti alti della produzione, la riduce a soggetto sociale al pari degli altri che compongono il proletariato; viene meno, così, quella “particolarità” storica di essere stata avanguardia politica della classe fin dall’inizio della grande impresa capitalista.
Naturalmente nei paesi imperialisti rimangono ancora nuclei consistenti di classe operaia legati alle produzioni avanzate, vedi ad esempio quelle militari o tecnologiche, ma questi non rappresentano più la tendenza generale del proletariato in quei paesi come avveniva nel ‘900 quando si moltiplicava e concentrava attorno alle grandi fabbriche da Torino a Detroit e nel resto del mondo “avanzato”.
L’ incremento quantitativo della classe - Un altro effetto di questi processi produttivi è che assieme alla perdita di potere contrattuale e della qualificazione professionale l’operaio di fabbrica non diminuisce affatto in termini quantitativi, anzi si può dire che tende ad aumentare in un modo mai visto precedentemente. L’Asia in particolare, ma anche l’Europa dell’est, ampie parti della America Latina a cominciare dal Messico, parti dell’Africa del sud e di quella mediterranea vedono riprodurre la figura dell’operaio in modo esponenziale e nelle peggiori condizioni di lavoro possibili equiparabili a quelle che si vivevano da noi nella prima parte del ‘900.
L’ internazionalizzazione della classe - Infine le modalità della produzione flessibile producono un’altra importante modifica ai fini dell’organizzazione politica; si è, infatti, materializzata concretamente quella internazionalizzazione della classe che il movimento comunista vedeva ideologicamente come prospettiva ed obiettivo rivoluzionario. Le modalità della produzione e di circolazione dei prodotti non hanno più una unica base di produzione localizzata ma le diverse funzioni, progettuale, esecutiva, commerciale sono dislocate su una dimensione mondiale. Produzione delocalizzata, internazionalizzata e comando finanziario e progettuale centralizzato nei poli imperialisti ci consegnano una classe localizzata per figure professionali e per funzioni produttive che è tutta da capire nella sua dimensione politica, culturale ed identitaria
COMPOSIZIONE DI CLASSE E COSCIENZA
Il dato della composizione di/della classe è il prodotto dei processi che abbiamo descritto ed è il passaggio verso la questione della politica e del soggetto organizzato. Come nelle trasformazioni strutturali abbiamo una cambiamento non della dinamica del modo di produzione ma dei modi del produrre, anche per quanto riguarda la classe subalterna, il proletariato, quello che si trasforma nelle varie fasi storiche non è la relazione di classe e la sua collocazione sociale ma le forme della classe, fatto che non è per niente “formale” ma sostanziale rispetto alle possibilità della progettualità politica ed organizzativa.
La grande fabbrica - Seguendo parzialmente la scansione delle fasi delineata in precedenza e non considerando le forme della classe lavoratrice del primo capitalismo questa assurge agli “onori” della storia con lo sviluppo del conflitto di classe nella seconda metà dell’800, quando la nuova grande industria meccanizzata ha bisogno di sostituire gli operai generici con operai professionali. Quel livello di sviluppo delle forze produttive aveva bisogno di questi operai e della loro professionalità ma doveva concentrarli in dimensioni sempre più consistenti.
Tutto ciò produceva due effetti importanti per l’acquisizione della coscienza di classe. Il primo è il rapporto diretto tra operaio e prodotto; non essendo stato ancora parcellizzato il processo lavorativo l’alienazione del prodotto avveniva a posteriori e mostrava il padrone come forza estranea e perfino superflua per la produzione. L’altro è quello che la concentrazione sempre più grande di masse operaie in una condizione di miseria e povertà faceva da detonatore per i conflitti che avevano anche una forte carica di spontaneità. I conflitti erano anche da coagulo per una protesta sociale più ampia che allora come oggi, ma in modo molto più brutale, veniva prodotta da una condizione sociale piegata alle sole necessità produttive del capitale.
Le conseguenze politiche di una tale evoluzione, che non era arginabile con la semplice repressione per quanto dura fosse, sono segnate nella storia con la crescita dell’organizzazione politica e sociale degli operai che portò alla modifica degli assetti sociali dell’epoca con il recepimento parziale delle richieste del movimento operaio con forme di stato sociale, sviluppo dell’istruzione e riconoscimento delle organizzazioni sindacali che si affermavano in tutti i paesi europei.
Gli effetti sono stati anche politici; innanzitutto con la nascita dei partiti operai in tutti i paesi a capitalismo avanzato in Europa, ma non solo, e con l’affermazione elettorale di questi partiti fino al punto di poter pensare di fare la rivoluzione per via elettorale, vista la crescita quantitativa della popolazione operaia e della sua capacità di esercitare egemonia nei confronti degli altri settori sociali a cominciare dai contadini.
Questo peso del movimento operaio e delle sue organizzazione crebbe al punto tale che le borghesie nazionali capirono che si doveva cambiare tattica politica; si è cosi passati dalla repressione del movimento operaio alla cooptazione dei gruppi dirigenti dei partiti socialisti, utilizzando i superprofitti che venivano dal nascente imperialismo, per promuovere politiche di divisione del movimento operaio con la formazione di una sua “aristocrazia”. Lenin descrive molto bene, e per noi in modo molto utile ancora oggi ma purtroppo sottovalutato, il nesso tra la fase imperialista e la divisione del movimento operaio che sarà poi uno dei presupposti per lo scoppio della prima guerra mondiale.
La produzione di linea - La crisi storica che si apre nel 1914 pone il problema di come rilanciare i processi di valorizzazione del capitale in una condizione economicamente, socialmente e politicamente drammatica per le borghesie nazionali; crisi aggravata dalla nascita del primo stato socialista, che poneva concretamente la possibilità di una alternativa sociale, e da una sua divisione interna tra una ipotesi fascista ed una democratica.
Ponendoci ancora una volta dal punto di vista della composizione di classe il superamento dei quella crisi, avvenuto dopo la seconda guerra mondiale con la ricostruzione postbellica, parte dal cuore della produzione di fabbrica con il superamento della grande impresa meccanizzata di inizio secolo e avviando, con la produzione di linea Taylorista/fordista, la parcellizzazione delle mansioni produttive. E’ un processo che inizia con il ‘900 a partire dagli USA ma che si afferma con lo sviluppo delle vicende storiche successive e cambia i connotati della produzione capitalista ricomponendo, ma solo dopo il 1945, i livelli di profitto e modificando nuovamente la composizione di/della classe.
Il lavoro operaio professionale precedente viene parcellizzato e viene meno il rapporto diretto con il prodotto del lavoro, l’ accentuata divisione del lavoro toglie identità al lavoratore e produce una nuova classe operaia dequalificata che viene dalle compagne, da altri ambiti sociali o è immigrata. Grazie alla dequalificazione prodotta diminuisce il potere contrattuale dei lavoratori che possono essere così facilmente sostituiti alla catena a differenza degli operai professionali, insomma vengono meno una serie di condizioni materiali che erano state alla base del conflitto e della coscienza di classe degli operai della prima parte del secolo.
La nuova produzione Taylorista/Fordista ricostituisce i livelli di profitto e l’egemonia borghese, seriamente messa in crisi da un trentennio di instabilità, contiene e fa arretrare politicamente il movimento operaio nei paesi a capitalismo avanzato ed apre una fase di crescita che si protrae fino agli anni ’60/’70 salvaguardando in modo strategico i centri imperialisti. Questo recupero però non riporta alla situazione precedente al 1914 in quanto la rivoluzione del ‘17 inserisce sul piano internazionale una nuova condizione sfavorevole.
Se la rivoluzione non aveva travolto i paesi imperialisti si era però affermata nei paesi del terzo mondo a partire dagli anni ’50 che, soprattutto con la Cina, avevano spostato l’equilibrio mondiale. Anche la presenza dei paesi socialisti nell’Europa orientale dimostrava che, almeno sul piano dei diritti sociali, i lavoratori potevano vivere una condizione migliore ed evidenziava i limiti del capitalismo, sebbene questo fosse in piena ripresa sul piano economico. Inoltre la presenza dei partiti operai, comunisti e di forti movimenti sindacali nell’ Europa occidentale teneva alto un conflitto che, se anche non aveva finalità rivoluzionarie dirette, rappresentava un elemento con il quale fare politicamente i conti.
L’affermarsi di questa sempre più ingombrante variabile politica internazionale indipendente spinge nei paesi a capitalismo avanzato a dare risposte sociali e politiche di mediazione; queste, infatti, erano rese materialmente possibili dalla ripresa dei livelli di produttività del nuovo modo di produrre e dalla ricostruzione del mercato nella fase postbellica. Sostanzialmente viene attuato, per salvaguardare il sistema capitalista nei suoi punti forti, quel compromesso sociale che è stato il Welfare State. Avviene un fenomeno apparentemente anomalo in quanto, pur essendo in presenza di una minore coesione ed aumentata divisione strutturale della classe operaia nei processi produttivi, non si afferma un arretramento politico ma addirittura una ripresa del conflitto di classe dovuto a cause “sovrastrutturali”.
Naturalmente anche altri elementi contribuivano a spostare i rapporti di forza a favore degli operai ed erano dovuti al fatto che la crescita del mercato, di carattere sempre più internazionale, ed il conseguente aumento della produzione portavano nelle fabbriche e nelle città a concentrazioni di classe operaia sempre più consistenti.
Nella seconda metà del ‘900 inoltre cominciano a crescere, a fianco alla classe operaia, settori di ceto medio che seppure sono lavoro dipendente vivono e si percepiscono in una condizione diversa; queste sono le figure impiegatizie delle imprese private, del terziario e dei servizi, i lavoratori prodotti dalla crescita del ruolo dello Stato e del Welfare; comunque vengono facilitate tutte quelle figure sociali che in qualche modo erano fuori dalla egemonia operaia resa già più problematica dal consumismo e dal fascino che questo esercitava anche sui settori proletari in genere. In altre parole si cominciava a delineare nei paesi a capitalismo avanzato una composizione di classe e sociale molto più complessa di quella che si era vista in precedenza.
Il periodo che potremmo definire di “equilibrio instabile” del conflitto di classe internazionale si conclude quando il sopraggiungere di una nuova crisi di sovrapproduzione, la crescita del ruolo politico delle organizzazioni operaie e sindacali in occidente, lo sviluppo del movimento rivoluzionario nelle ex colonie, il ruolo dell’URSS sul piano strategico internazionale, la fine delle possibilità di sviluppo interno dei mercati capitalisticamente avanzati, che produce forti movimenti di opposizione politica anche tra i ceti medi, cominciano a trasformarsi in un nodo scorsoio con il quale il capitale internazionale e gli Stati Uniti, che ne erano la forza egemone, devono fare i conti a partire dagli anni ’70.
La produzione flessibile - I passaggi fatti sulle due fasi storiche precedenti forniscono una chiave di lettura della dinamica che si è sviluppata nella modifica della composizione di classe e che continua ad agire. La “rivoluzione” reazionaria avviata negli anni ’80, l’uso della Scienza e della Tecnologia nella produzione per ricostituire i margini di profitto, la finanziarizzazione dell’economia, la fine dell’URSS, l’estensione mondiale del mercato, le conseguenti modifiche della composizione di classe a livello internazionale sono stati i punti di partenza per le analisi da noi fatte in questi anni e sulle quali abbiamo prodotto diverso materiale e testi stampati. Vanno colti, perciò, gli effetti di fondo che si manifestano e rapportarli dinamicamente alle precedenti evoluzioni della classe.
1) Lascomposizioneproduttivaesociale- Un elemento di continuità con la fase precedente è quello della tendenza alla scomposizione delle mansioni lavorative nella produzione. Nella catena di montaggio l’identità operaia è stata minata dalla parcellizzazione ma non ha prodotto forti effetti politici in quanto la concentrazione della popolazione operaia creava le condizioni per la continuità del conflitto.
Nel momento in cui è stato tecnicamente possibile anche il decentramento produttivo la tendenza alla parcellizzazione non ha più riguardato solo le mansioni ma anche la localizzazione della produzione. Sono evidenti le forme della disgregazione e la complessità sociale manifestata in epoca fordista si sta sviluppando al massimo indebolendo e frenando la capacità di risposta antagonista.
All’indebolimento strutturale si è aggiunto quello politico con la crisi delle organizzazioni storiche del movimento operaio e dei lavoratori, generando modifiche giuridiche che hanno smantellato le tutele sociali e del lavoro prodotte dai cicli di lotte precedenti. Qui ogni descrizione è superflua data l’evidenza della realtà. Paradossalmente abbiamo in negativo una riconferma della importanza della soggettività organizzata in quanto il livello delle risposte spontanee che si genera dalle contraddizioni non è assolutamente in grado di sostenere l’offensiva del capitale a livello locale ed internazionale.
2) Crisidelconsumismoedimpoverimento- Se l’egemonia è stata recuperata con il consumismo che ha modificato la stessa percezione politica dei settori di classe la situazione attuale sta cambiato decisamente direzione. Gli elementi di crisi generale che citavamo prima, ormai oggetto della cronaca dei giornali, e l’incapacità della classe di reagire all’offensiva dell’avversario fanno intravedere scenari di impoverimento strutturali non solo nei paesi della periferia produttiva ma anche nei paesi imperialisti, anche se in tempi ed in modi da capire.
3) Unnostroproblemapoliticoesociale- C’è un altro effetto che va interpretato con attenzione e che ha una conseguenza direttamente politica. Lo sviluppo capitalista fin dall’inizio ha tenuto assieme due elementi, il primo è quello di far divenire la fabbrica il punto più avanzato della produzione e dello sviluppo tecnologico e scientifico, l’altro è quello di far crescere assieme a questa la classe operaia classicamente intesa. La cosiddetta produzione flessibile ha scisso questi elementi mantenendo i punti strategici dello sviluppo nei paesi imperialisti e localizzando la classe operaia di fabbrica nelle periferie produttive.
Il nodo di fondo che si pone rispetto a questa scissione non riguarda il ruolo politico della classe operaia, che diventa in questo nostra nuova condizione soggetto di classe assieme ad altri soggetti, ma chi intende fare politica al centro di uno dei poli imperialisti. Ovvero se qui è rimasto il punto più avanzato dello sviluppo può esistere una parte del mondo del lavoro subordinato che, avendo la possibilità di ricostruire a proprio vantaggio rapporti di forza nella produzione, possa rappresentare una nuova avanguardia? E comunque se così non fosse come si deve impostare il rapporto, sociale e politico, con quei settori non operai ma obiettivamente proletarizzati che hanno una percezione di se stessi non corrispondente alla loro reale condizione? È evidente che non agendo politicamente nelle periferie produttive, dove le tendenze rivoluzionarie o conflittuali sono concretamente percettibili, questo è il vero nodo gordiano, troppo spesso ignorato e rimosso, che devono affrontare i comunisti ma anche la sinistra più in generale in questo paese.
CLASSE E PARTITO, FORME DELL’ORGANIZZAZIONE
Definito il quadro obiettivo e le tendenze emerse a queste vanno relazionate le trasformazioni e le evoluzioni avute dai partiti e dalla stessa idea di funzione del partito nei diversi periodi. Ovviamente, come già detto, è molto complicato entrare nel merito delle questioni teoriche e politiche che si sono poste nella evoluzione degli eventi, però è possibile fare un’opera di astrazione e di sintesi per metterci in condizione di riprendere una riflessione del tutto abbandonata politicamente, teoricamente e culturalmente dai partiti comunisti in Italia.
Riportiamo qui un lavoro fatto nel ’99 con il secondo quaderno di “Partito e Teoria”; è utile riprendere quel testo, e più precisamente lo scritto di Giorgio Gattei, dove questa analisi è stata impostata. Quello scritto può essere quantomeno un buon punto di partenza ed una organica base di discussione. Perciò riportiamo alcune parti utili nello schema qui proposto.
In presenza di classe: da Marx/Engels a Rosa Luxemburg. - ……È a partire da questa precisa struttura economica e sociale (quella dello sviluppo delle prime grandi fabbriche e dell’operaio di mestiere) Che Marx ed Engels elaborano la loro proposta di una diversa forma-partito che superi ogni limite della precedente (quella cospirativa di Blanqui) e soprattutto che sia la prima ad essere propriamente “di classe” e non “in nome della classe”. E allora è evidente che il partito non può rimanere organizzazione di pochi; tutto al contrario esso deve crescere mirando a raggruppare la totalità dei lavoratori e quindi diventare espressione dell’intera classe. Naturalmente è impensabile che esso possa nascere come tale, ma lo diventerà comunque secondo una precisa logica di necessità: infatti se la classe , quale risultato del decorso storico dell’accumulazione capitalistica, esiste ormai compattamente “in se” come aggregato inconsapevole di lavoratori, la scoperta della medesima condizione d’esistenza dentro la fabbrica, ossia sul luogo di produzione,non può che imporre loro di riconoscere progressivamente il proprio interesse comune e quindi il vantaggio di unirsi consapevolmente (è il passaggio alla “classe per se”).
Cosi, se il partito si presenta necessariamente all’inizio come organizzazione di minoranza perché composto solo dall’avanguardia degli operai più responsabili e risoluti (i “comunisti” del Manifesto del 1848, che sono poi sola la parte della classe “che sempre spinge in avanti”),esso non può che allargarsi progressivamente,a mano a mano che il proletariato nella sua lotta contro la borghesia “si costituisce necessariamente in classe”.
…….E siccome il proletariato è la classe tendenzialmente destinata a diventare la più numerosa,confluendovi tutti gli altri ceti progressivamente “proletarizzati” dalla logica inesorabile dell’accumulazione capitalistica, anche la semplice crescita numerica degli iscritti al partito e del suo seguito elettorale può portare, se non proprio alla vittoria finale, almeno sulla soglia di quella ”rivoluzione della maggioranza” esplicitamente considerata dall’ultimo Engels come conseguenza positiva della possibilità offerta al partito “di classe” di rivolgersi all’elettorato in competizione pacifica con tutti gli altri partiti: questo aumento elettorale”si compie in modo spontaneo, costante, irresistibile, e in pari tempo tranquillo, come un processo naturale…..”
Mantenere ininterrotto il ritmo di questo aumento,sino a che esso sopraffaccia da se il sistema dominante di governo, non consumare in combattimenti d’avanguardia questo gruppo d’assalto che si rafforza di giorno in giorno,ma conservarlo intatto fino al giorno decisivo,tale è il nostro compito fondamentale”. Cosi questa forma–partito “marxista” o socialdemocratica (perché si afferma compiutamente alla fine del secolo scorso presso le socialdemocrazie europee) presenta ancora il partito come avanguardia, ma ora come il partito della avanguardia della classe,con ciò bruciando ogni rapporto con il precedente modello “blanquista”.
Dietro questa nuova forma partito stanno almeno tre caratteristiche che meritano di essere segnalate. La prima è che lo sviluppo dell’interesse collettivo di classe possa essere considerato come un processo tutto sommato spontaneo e necessario, imposto dalla condizione stessa d’esistenza collettiva dentro la fabbrica:come frutto che deve soltanto maturare, la classe “naturalmente”si solleva fino alla coscienza di se, aderendo progressivamente alla propria organizzazione politica “di parte”.
La seconda è la natura di questa classe, che non può che essere formata da operai “di mestiere”,gli unici che, proprio per il tipo di lavoro che eseguono, sono in grado di percepire quella identità collettiva di “veri produttori” che li contrappone ai capitalisti. La terza infine è che la tendenza storica dell’accumulazione capitalista porti alla generalizzazione di questa condizione di esistenza salariata. Solo cosi, infatti,l’estensione alla gran massa della popolazione della condizione operaia,accompagnandosi alla progressiva presa di coscienza dell’interesse collettivo, può portare alla graduale crescita del partito fino all’inevitabile successo elettorale capace di predisporre la condizione oggettiva per la conquista del potere politico da parte della classe “di maggioranza”.
Se vien meno la coscienza: da Lenin a Lukacs - ….Altrettanto la composizione di classe viene a mutare,sostituendo alla dominanza del precedente operaio “di mestiere” il prevalere di un lavoratore al quale non viene più richiesta una prestazione di qualità ne la comprensione dell’intero processo di produzione (che erano le condizioni perché, sul luogo di lavoro, egli potesse progressivamente acquisire consapevolezza della propria padronanza del processo produttivo e quindi esigerne la proprietà ed il controllo “operaio”), bensì soltanto l’esecuzione ripetitiva di una qualche operazione parcellizzata, al limite di un solo gesto lavorativo.
L’ operaio “alla catena” si trova cosi a perdere la comprensione sia dell’insieme che del significato del produrre, scoprendo un’alienazione che, oltre a dipendere dalla mancanza della proprietà del prodotto, coinvolge adesso pure le finalità del lavoro svolto. È a seguito di questo straordinario mutamento delle mansioni lavorative che il pensiero di sinistra prende ad interrogarsi sulla validità della precedente forma-partito quale progressiva espressione politica della classe, scoprendo che questi nuovi operai dequalificati si rilevano incapaci di conseguire spontaneamente sul luogo della produzione la coscienza collettiva adeguata a quella forma di rappresentanza,identificando nella fabbrica il luogo della propria alienazione piuttosto che3 del proprio riscatto.
Così essi riducono il campo delle proprie aspirazioni dall’abolizione della proprietà privata e dell’ “autogoverno dei produttori” a rivendicazioni puramente economiche, redistributive (del tipo:più soldi, meno lavoro), intese quale unico risarcimento possibile dell’estraniazione subita sul luogo di lavoro.
……L’intuizione trova comunque perfezione nella proposta di forma partito esposta da Vladimir Lenin nel CHE FARE? (1902), questo vero “atto di nascita del bolscevismo”. La sua proposta intende riorganizzare radicalmente il partito trasformandolo in una avanguardia disciplinata di “rivoluzionari di professione” che dirigono il movimento dei lavoratori apportandogli la coscienza politica di classe “solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica,dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni”. Siccome “la storia di tutti i paesi attesta che con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercare di ottenere dal governo determinate leggi necessarie agli operai, ecc.”, il partito non può rimanere a rimorchio della classe affidandosi a quell’ infallibile presunto suo “istinto” teorizzato da Rosa Luxemburg, ma deve sopravanzarla ed alle volte perfino contrastarla per imporle le finalità della rivoluzione. Cosi il nuovo compito del partito diventa quello di “lottare contro la spontaneità,deviare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo”.
….E’ quindi lo stato di arretratezza della coscienza di classe di quel proletariato, piuttosto che la situazione d’illegalità, a giustificare l’espediente di riportare l’organizzazione del partito alla iniziale forma dall’avanguardia cospirativa, sia pure corretta dal blanquismo originario dalla marcia in più della necessità di un trascinamento “pedagogico” dell’intera classe (Marx non era comunque passato invano) sugli obiettivi del programma rivoluzionario predisposto dal partito.
Eppure dal punto di vista storico c’è un’ulteriore domanda che richiede spiegazione. Oltre all’esame delle condizioni che hanno imposto in Russia questa diversa forma-partito bolscevica (“leninista”), il partito della avanguardia cospirativa di classe, non merita forse di esaminare anche le ragioni che ne hanno poi consentito l’acclimatamento nella situazione, peraltro assolutamente differente, dell’occidente europeo?
Fu soltanto perché “le esperienze rivoluzionarie della Russia, politicamente grandiose ma erroneamente interpretate nel loro fondamento socio-economico, portarono ad una “solidarietà a tutti i costi”? O piuttosto perché quella proposta politica, che scontava in Russia la “giovinezza” della coscienza di classe, si adattava altrettanto bene ad una organizzazione “occidentale” del produrre (quale quella della produzione Tayloristica “in linea”) che stava sostituendo all’operaio “di mestiere”, che aveva fatto la fortuna dei partiti “socialdemocratici”, lavoratori dequalificati e parcellizzati e perciò privati, proprio dalla forma di lavoro alla catena di montaggio, della capacità di ascendere spontaneamente a coscienza politica di classe?
Se non basta la coscienza: da Gramsci a Togliatti - La teorizzazione sul partito di Antonio Gramsci è la quarta ( e per ora ultima ) figura che va presa in esame. Essa si apparenta a quella leninista e ne discende, ma non è riducibile ad essa. Sintetizzando al massimo, le sue premesse possono essere ridotte a due: innanzitutto c’è la percezione delle caratteristiche del tutto particolari e complesse (ben più di quello che aveva intravisto Lukacs) che deve assumere una strategia rivoluzionaria in Occidente rispetto alla semplicità di quanto accaduto in Russia, e poi c’è il riconoscimento dell’ulteriore salto di qualità della “maniera del produrre” capitalistico che, dopo l’introduzione della produzione di “massa”, vedeva il passaggio al c.d. “americanismo”.
Con questo termine si vuole qui intendere, andando oltre l’evasività della definizione gramsciana, la complicazione introdotta da quel “compromesso”, dapprima Fordista e poi Keynesiano, che ha visto affiancare ad una produzione ormai di massa un consumo altrettanto di massa quale poteva essere assicurato solo da una politica aziendale di “alti salari” e da una politica governativa “d’intervento”.
….Nasceva così la novità dell’ operaio/consumatore-massa. Negli anni del carcere, con assoluta preveggenza, Gramsci ha colto l’avvento di questa nuova stagione del capitalismo nelle pagine di Americanismo e fordismo, e di fronte alla trasformazione (“che è anche il maggior sforzo collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di lavoratore e di uomo”) che ne sarebbe derivata ha cercato di reagire adattando il partito leninista ad una forma “nuova”, quella forma di “partito nuovo” che sarebbe poi stata messa all’opera da Palmiro Togliatti nel contesto socio-economico “consumistico” venuto intanto formandosi.
……E’ stato nei quaderni del carcere che Gramsci è venuto a capo del problema partendo dal riconoscimento della assoluta diversità dell’ Occidente : se infatti “in Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’ Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata,dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”. Ora senza aver prima espugnato queste “fortezze e casematte”, la conquista della trincea dello Stato sarebbe sempre risultata vana. Ma quali “fortezze e casematte” s’infrapponevano tra le due classi fondamentali a complicarne la contrapposizione frontale?
Oltre ai contadini, c’erano in Occidente tutte quelle “classi ausiliarie” (che erano lo sviluppo funzionale, in chiave keynesiano-fordista, di quei vecchi “ceti intermedi” che le previsioni marxiste avevano invece immaginato che precipitassero progressivamente nel proletariato semplificando la situazione sociale) che riducevano gli operai ad essere appena una minoranza perfino in città. A ciò si aggiungeva l’incombente “rivoluzione dei redditi” (complici gli altri salari e la spesa pubblica) che finivano per rendere i salari sempre meno confinati al livello di sussistenza, impedendo così che l’acquisizione della coscienza di classe da parte degli operai stessi rispondesse a motivi di pura “ragione economica”.
Ma soprattutto c’era il filtro della “ideologia”, intesa come un particolare sistema di valori (una intera “concezione del mondo” che operava diffusamente sotto le vesti variegate di filosofia, morale, costume, “senso comune” e perfino folklore) che permeava ed integrava gran parte della società attorno agli interessi della classe dominante.
……Un partito quindi che aprisse “alle masse“ mediante una strategia che operasse prima di tutto sul terreno del consenso (dentro quell’arena che Gramsci ha denominato, equivocando alquanto sul termine classico, come “società civile”) mediante una prolungata “guerra di posizione” al posto della rapida “guerra manovrata” bolscevica. Soltanto un partito leninista cosi rivisitato poteva risultare adatto a tal compito: un partito certamente ancora formato (questa volta era la lezione leninista a non essere passata invano) da “rivoluzionari di professione”, ma che fossero pure un’avanguardia di intellettuali “organici” dediti alla produzione della “giusta” coscienza sia dentro la classe che negli altri ceti intermedi cosi da organizzarli dentro un diverso “campo” di egemonia.
Soltanto un simile “moderno principe” avrebbe potuto venire a capo della rivoluzione in Occidente, dove era necessaria questa forma-partito nazional-popolare (“gramsciana”) che, per assonanza con le definizioni precedenti, possiamo riassumere nella denominazione di partito della avanguardia egemonica di massa. Come s’è detto, questa strategia è stata poi applicata con lucida consapevolezza da Palmiro Togliatti.
PER RIASSUMERE SULLO SCHEMA
Dall’insieme dello schema proposto, che deve essere oggetto di verifica nel dibattito e di approfondimento, si possono trarre alcuni elementi di sintesi nei quali assommare le tendenze descritte e proiettarle dentro una prospettiva che sia in grado di riportare l’elaborazione sulla questione del partito ad un livello di dignità teorica.
L’egemonia oggi – L’alternarsi di contraddizione e corrispondenza nel rapporto tra forze produttive e rapporti di produzione hanno segnato le rivoluzioni del ’900 ed i limiti dei partiti comunisti ed operai; questa dinamica non si è affatto fermata e già possiamo segnare una ulteriore evoluzione da quella degli anni ’90, momento ascendente della cosiddetta globalizzazione. In quegli anni la nostra analisi ci diceva che era una fase complessiva, dunque non solo politica ma strutturale, controrivoluzionaria della quale tenere conto nelle scelte che andavamo facendo. Se è vero che quel momento è superato dobbiamo fare uno sforzo per capire le caratteristiche degli anni presenti e continuare con una analisi più attenta; indubbiamente siamo di fronte ad una ripresa delle contraddizioni che incrinano l’egemonia riconquistata da parte del capitale ma queste vanno ben individuate e “soppesate” nelle forme e nei tempi.
La competizione interimperialista difficilmente potrà in futuro ridimensionarsi e questo sta manifestando a livello internazionale tutti i suoi effetti, anche quelli parzialmente rivoluzionari come ciò che si sta esprimendo in America Latina. La nostra azione però si svolge nel cuore di uno dei centri imperialisti e su questo va fatta una analisi più puntuale di quali sono le contraddizioni che peseranno nella nostra condizione e che potranno determinare processi di organizzazione politica, che rimane l’oggetto del nostro attuale dibattito.
Ci sono alcune contraddizioni che peseranno più di altre nei prossimi anni delle quali dobbiamo capirne le dinamiche; sicuramente la crisi economica è una di queste ed è importante in quanto rimette in discussione lo “status” da aristocrazia salariata del lavoro dipendente che si è manifestata negli anni passati. La tendenza alla guerra, per motivi materiali e sovrastrutturali, peserà negativamente sull’egemonia del sistema capitalista; anche la contraddizione ambientale nelle forme in cui si esprime nel nostro paese contribuisce a dare spazio politico a posizioni di critica radicale. Ci sono molte altre questioni che vanno viste nei loro effetti politici diretti sui nostri settori sociali partendo dall’ analisi delle tendenze e non dalla cronaca quotidiana degli eventi.
Disgregazione nella produzione – Dal punto di vista di classe nella produzione la tendenza storica predominante già dalla fase della grande fabbrica è stata quella della scomposizione. Dall’operaio professionale all’operaio massa della linea, al lavoratore flessibile dell’attuale produzione mondializzata è stato un susseguirsi di scomposizioni formali e reali che hanno radicalmente cambiato nel corso del tempo le condizioni oggettive della classe. Sicuramente una delle cause che ha spinto verso la univocità di questa tendenza è stata proprio la lotta di classe che ha imposto all’avversario non solo risposte politiche ma modifiche strutturali delle modalità della produzione; salvo poi ritrovarsi ricomposto anche il conflitto di classe sul nuovo livello da lui determinato, questo almeno è accaduto fino ad oggi. Quanto però del processo di parcellizzazione delle mansioni del lavoro e del decentramento produttivo è stato dovuto alle necessità interne ai processi di valorizzazione del capitale? Questo problema merita una approfondimento anche se politicamente non cambia di molto i termini della questione
Ci sono altri elementi che concorrono ad accentuare la disgregazione anche se la loro dinamica non è in assoluto negativa. Il primo è quello della moltiplicazione delle forme del lavoro subordinato e proletarizzato, che contribuisce al falso mito della moltitudine e ne fornisce la motivazione materiale, che supera il compatto reparto di avanguardia della classe operaia della grande industria proprio dei partiti comunisti del ‘900 e del sistema produttivo che abbiamo cercato di descrivere. Indubbiamente questo fatto indebolisce ma generalizza anche una condizione potenzialmente antagonista. L’altro è il processo di internazionalizzazione della classe, accentuato dagli attuali assetti produttivi, che strategicamente ha una funzione importantissima ma che politicamente, per chi come noi vive nei poli imperialisti, moltiplica le difficoltà.
“Last but not least” la questione della sconfitta politica ha fatto arretrare l’organizzazione di classe che non è un fatto politico. L’organizzazione parte da una concezione teorica e politica di un soggetto organizzato ma poi, quando entra nella società, si trasforma da elemento sovrastrutturale a dato materiale della condizione di classe che può avere più peso di altri in determinate condizioni. Anche questo ci dice la storia del movimento operaio del ‘900.
La complessità del centro imperialista – Porre il problema del partito per noi significa affrontarlo nella situazione dove operiamo politicamente, cioè l’ Italia e l’ Europa. Sappiamo bene che non c’è una risposta scontata a priori ma con questo noi dobbiamo fare bene i conti, partendo dalle possibilità/difficoltà che si pongono obiettivamente e non dalla nostra specifica condizione organizzativa.
La complessità della nostra società non è un dato nuovo ed è in aumento fin dagli anni ’60, inoltre gli altri paesi imperialisti ci hanno preceduto ed hanno indicato la strada. Il punto di crisi vero è stata la divisione tra classe operaia di fabbrica e il punto più sviluppato delle forze produttive, che appunto risiedeva nei paesi a capitalismo avanzato e che, seppure non permetteva la rivoluzione, certamente rendeva possibile il conflitto di classe e democratico. Non si tratta in questo caso solo di un processo disgregativo ma riguarda la qualità della forza lavoro e degli altri settori sociali che risiedono nella nostra area e della sua condizione economica, sociale, politica e culturale profondamente modificata, seppure sempre con un ruolo di subordinazione e di proletarizzazione.
La complessità non pone solo un problema di riorganizzare il disgregato ma di capire qual è l’ipotesi politica praticabile nel contesto attuale tenendo conto di tutti i parametri necessari ad inquadrare la situazione. In parte abbiamo affrontato questa questione con il discorso sul blocco sociale e sulla sua Rappresentanza Politica ma siamo partiti “dal basso” cioè dalla esperienza pratica di chi in qualche modo sa interpretare il sentire dei settori sociali. Per tentare di svolgere una funzione più avanzata anche su questo bisogna partire “dall’alto” cioè da una capacità teorica e di astrazione dei processi reali.
La spontaneità e l’organizzazione – Un’ ultimo elemento di sintesi riguarda la soggettività ovvero se teniamo conto della dinamica sulla composizione e sulla complessità emerge con forza che bene abbiamo fatto in questi anni a tenere “Il” punto teorico sulla questione cruciale dell’organizzazione; nessuna spontaneità è in grado di sostenere lo scontro di classe che si è manifestato nel passato, questo è ormai un dato evidente ed acquisito. Questo non significa che la spontaneità non abbia nessuna funzione, anzi essendo il prodotto della situazione obiettiva rappresenta un’opportunità per l’organizzazione se ne sa cogliere la dinamica ed il significato profondo in modo non schematico capendo le richieste di organizzazione che ne possono scaturire.
La scommessa reale è dunque il nodo dell’organizzazione che non significa solo organizzazione politica, fondamentale per la funzione di direzione, ma la costruzione progettata di un tessuto di classe organizzato più diffuso possibile e che attraversa tutte le contraddizioni potenzialmente antagoniste. L’organizzazione cresce se attraversa e si misura con la spontaneità della classe e dei momenti antagonisti; questo tipo di crescita è il vero obiettivo strategico da raggiungere superando quel primato della politica, dell’ evento, della rappresentazione, che pervade questa società e che ha modificato profondamente in questi ultimi decenni lo stesso agire della sinistra di classe e dei comunisti.
Perché riprendere il “CHE FARE?”
Lo schema generale proposto, se funziona come chiave di lettura, tenta di individuare le continuità/discontinuità di un processo storico che va utilizzato in funzione della nostra attualità; siamo perciò chiamati a definire i riferimenti di merito necessari per capire le caratteristiche dell’organizzazione dei comunisti nel cuore dei paesi imperialisti. Si pone il problema dell’approccio ad una questione grandemente complessa alla quale va data una risposta adeguata; in questo senso ci siamo dati dei riferimenti che ci mettono in condizione di fare delle scelte.
All’inizio degli anni ’90, in piena crisi politica, si è già posto il problema di individuare dei parametri, dei paradigmi che ci potessero aiutare ad uscire dallo sbandamento che tutti aveva coinvolto. La scelta fatta allora fu per noi quella di ripartire da dove si era vinto e non dalla sconfitta. Il nuovismo, che imperava a quei tempi incontrastato, tentava anche in buona fede di aprire nuovi orizzonti ma aveva un peccato originale cioè era il figlio della sconfitta; ma dalla sconfitta interiorizzata ed accettata non si può che approdare a nuove sconfitte, come purtroppo i fatti oggi dimostrano. La scelta controcorrente fatta da noi all’epoca non fu molto il risultato di una capacità “scientifica” quanto il prodotto del “buon senso” e della volontà di non autoflagellarci; il problema che avevamo era certamente quello di interpretare la sconfitta senza darci scusanti ideologiche e schematiche ma, non di meno, era anche di capire i motivi del perché il movimento comunista aveva vinto, fino a sembrare un processo irreversibile, per tutta una fase storica.
Da qui nacque la scelta di ricominciare a leggere “L’ Imperialismo” di Lenin, anche grazie alla rivitalizzazione che stava mostrando, dopo la fine dell’ URSS, il processo di unificazione Europea. L’approfondimento sulle categorie economiche marxiste, lo studio ravvicinato dei processi di riunificazione europea, l’analisi di classe e l’inchiesta, la questione della teoria del valore e la caduta tendenziale del saggio di profitto, alcune scelte strategiche sul piano sindacale ed altre cose ancora nascono da quella lettura e dal lavoro fatto nei dieci anni successivi. Non è esagerato dire che se siamo riusciti ad evitare diversi vicoli ciechi teorici, politici ma anche pratici lo dobbiamo a quella precisa lettura ed a quel metodo di analisi, cogliendo un risultato di non poco conto viste le nostre esigue energie.
Un altro importante risultato lo abbiamo ottenuto su un piano molto più concreto che è quello della costruzione dell’indipendenza sia sociale che sindacale cercando di dare sistematicità e scientificità alla nostra azione, anche qui abbiamo utilizzando il nostro filone “leninista” adeguandolo non dogmaticamente e non strumentalmente. L’inchiesta sulla composizione di classe nel nostro paese inserito nell’Unione Europea e l’allegato sulla questione sindacale nel Documento Politico per l’Assemblea Nazionale del 2002, dove partivamo dall’analisi del testo di Lenin su “L’ Estremismo”, sono stati successivamente due capisaldi della nostra concezione ed orientamento; elementi che ci hanno messo in condizioni ottimali per affrontare la fase apertasi dopo la nascita del governo Berlusconi, la crescita del movimento “no global” ed il diffondersi dei comportamenti subordinati alla CGIL ed alla FIOM in particolare.
Spontaneità ed organizzazione sono elementi che si ripresentano periodicamente nel movimento rispetto ai quali la scelta di una visione “organica” sull‘ organizzazione di classe è quella che si dimostrata la più realistica nel percorso storico dei partiti comunisti e del movimento operaio e rivoluzionario. Partire dal “CHE FARE?” significa parlare della funzione di quel gruppo di “avanguardia”, se questo titolo se lo sarà saputo meritare sul campo, che comunque svolge una fondamentale funzione di direzione. Riprendere quel testo che, seppure scritto oltre un secolo fa, riesce a cogliere bene il rapporto tra soggetto, politico ed organizzato, ed oggetto sociale; chiaramente il contesto storico, gli elementi materiali, le soggettività in campo sono ora totalmente diversi ma la valutazione sul rapporto tra questi ha ancora oggi un valore forse più attuale che nei decenni passati dati i caratteri di disarticolazione della classe e che noi dobbiamo “rivestire” dei panni che oggi sono a disposizione.
Peraltro ha una certa importanza ed interesse veder riportare sul “Corriere della Sera” del 9 Marzo 2008 uno scritto, del 2004, del filosofo francese non marxista Jacques Derrida in cui si affermava: Avrei voluto proporre un argomento analogo a quello del CHE FARE? di Lenin, scritto nel 1901-1902, ma il tempo manca. Ricordiamo ciò che in quel testo, come nel testo di Kant, oggi non risulta invecchiato: la condanna dell’ “abbassamento del livello teorico” nell’azione politica, l’idea che qualsiasi “concessione” teorica, secondo il termine di Marx, sia nefasta per la politica; la condanna dell’opportunismo (bisogna pensare ed agire controcorrente), la condanna dello spontaneismo, dell’economicismo e dello sciovinismo nazionale (il che non sospende i doveri nazionali), la condanna della “mancanza dello spirito d’iniziativa dei dirigenti” politici cioè rivoluzionari, che dovrebbero saper rischiare e rompere con le facilità del consenso e delle idee preconcette (è quanti propone Alain Minc in un libro in fondo molto leninista). E ancor meno invecchiata è l’analisi di ciò che lega l’internazionalizzazione, la mondializzazione del mercato, come della politica, alla scienza ed alla tecnica. tutto questo si legge nel CHE FARE? Di Lenin.
Riportare questo brano scritto da autore “non sospetto” aiuta a capire che quello di cui stiamo parlando può essere forse lontano dal senso comune, perfino del cosiddetto “popolo” della sinistra, ma non è affatto lontano dalle dinamiche della realtà che trasformano in continuazione la situazione. In questo senso ci assumiamo la responsabilità, l’ardire, di indicare quelle questioni che a noi sembrano ancora mantenere una validità rispetto all’agire politico dell’oggi sapendo che incorriamo nel rischio di prendere cantonate. Siamo altresì coscienti che la nostra sinteticità su questo testo non pensa di riassumerne la sua complessità ma è funzionale al dibattito sull’organizzazione dei comunisti, qui ed ora, che intendiamo aprire
1) Nessun modello - Nel testo di Lenin che parla di organizzazione non è indicato alcun specifico modello organizzativo, questo perché i partiti nascendo in condizioni diversificate e collocate sul piano internazionale non potevano “copiare” il partito Russo. Correttamente su “Partito e Teoria” Stefano Garroni scriveva: in Lenin non troviamo la risposta secca alla domanda “Come si costruisce un Partito Comunista?”. E naturalmente non la troviamo perché è sbagliata la domanda: il progetto di costruzione di un partito comunista e, quindi, anche l’individuazione dei modi per realizzare tale obiettivo non si dà astrattamente, ma si nel contesto di una serie di posizioni e giudizi che si distendono su un arco vasto di temi e livelli problematici.
Dove, peraltro, questo è stato fatto i risultati non sono stati certo positivi e dove sono state seguite altre strade, dall’ Asia alla America Latina, gli esiti sono stati concretamente diversi. Non abbiamo modelli a disposizione, ad esempio formazione di Comitati Centrali per fare il partito, ma sappiamo che le organizzazioni crescono sulle condizioni storiche, economiche, sociali, politiche, etc. date in un determinato paese ed in un determinato contesto storico. Questo è certamente un piano di confronto interno ma anche pubblico che dovremo saper costruire e rispetto al quale non abbiamo ora risposte a portata di mano.
2) Il Partito come sintesi – Se uno dei problemi che si ponevano era il rapporto tra spontaneità ed organizzazione, i cui termini sono a noi noti anche ai nostri giorni, allora la funzione di sintesi del partito può essere compresa nel suo significato oltre la pur necessaria centralizzazione organizzativa. Sintesi significa il partito che fa i conti con la teoria partendo “dall’alto” e non dal basso della pratica quotidiana. Teoria che però non è esterna alla classe come tanta letteratura politica, comunista e anticomunista, ci ha tramandato ma esterna alla sola dimensione economica della classe, al solo rapporto diretto tra padroni ed operai. Partire dal mero dato economico e rivendicativo per ipotizzare la trasformazione rivoluzionaria è un errore. Partito come sintesi, ovvero come strumento della verifica nella prassi nel processo dialettico di costruzione del soggetto di classe. Infine c’è anche la centralizzazione dell’organizzazione, tanto da “rendere possibili il massimo del decentramento solo con il massimo della centralizzazione”, ma questo è il prodotto di un processo complesso e non di una gerarchizzazione delle relazioni dentro l’organizzazione; produrre questa maturazione di organizzazione e di coscienza è l’obiettivo del Partito.
3) Il rapporto di massa - L’altra questione che si impone nella lettura del CHE FARE? è l’insistenza sul rapporto di massa del partito sia sul piano rivendicativo che su quello più squisitamente politico. Non ci può essere alcun partito se non si costruisce un rapporto organico con tutti i settori che lo sviluppo imperialista mette in crisi a causa delle contraddizioni di ordine materiale o di quelli più direttamente politici come la tendenza alla la guerra. Come abbiamo visto nelle precedenti pagine questo aspetto ha grandemente contribuito alla crescita dei partiti comunisti sia ad est che ad ovest, e ancora su questo si segna oggi la crisi del movimento operaio italiano e di chi ha rimosso teoricamente e praticamente la questione del rapporto di massa.
Le sfide dell’oggi
Vogliamo affrontare, dunque, il nodo del partito sapendo molto bene che noi non siamo un partito e pensare di essere il “nucleo fondante” di un qualsiasi partito ci farebbe apparire quantomeno velleitari. D’altra parte nel nostro paese, a differenza di altri paesi europei, i partiti comunisti sono stati e sono parte della realtà politica nel bene e nel male, come nel frangente attuale. Frangente generato dal ripiegamento di una esperienza storica complessa alla sola dimensione istituzionale che più volte abbiamo definito sterile.
E’ proprio nel momento della crisi storica dei partiti comunisti e di sinistra che siamo chiamati non a dare risposte immediate ma ad interpretare i nodi di fondo che si pongono, qui ed ora, per aprire il confronto di fronte al possibile venire meno di una realtà che ha svolto comunque una funzione politica rilevante sul piano sociale, politico e culturale. Misurarsi con un tale livello, dentro un percorso da costruire, non è semplice ginnastica intellettuale ma è estremamente utile per individuare le prospettive di lavoro politico, di riorganizzazione, di ricostruzione di un riferimento di classe e comunista in Italia.
IL QUADRO GENERALE ED I FINI
La crescita dell’organizzazione di classe nelle sue diversificate forme fino al partito ha avuto sempre un presupposto che è stato quello della chiarezza sul fine. Parlare di socialismo, comunismo, antimperialismo, etc. significava evocare una possibilità concreta ed un modello sociale alternativo al capitalismo, questo sia in presenza degli Stati a socialismo reale sia in precedenza, nella fase di nascita del movimento operaio. Il partito non è fine a se stesso ma è uno strumento per arrivare ad un determinato obiettivo. Questo elemento fondante per una identità di classe oggi non è più dato con certezza, siamo in un periodo di transizione dove le incertezze segnano l’orizzonte politico. Si apre, come abbiamo scritto, una fase di crisi egemonica del capitale in termini complessivi. Questa crisi non appare dappertutto allo stesso modo, l’inadeguatezza del capitalismo si manifesta brutalmente nelle periferie produttive dove prendono vita movimenti politici, sociali, addirittura cambi di governo che sono il riflesso di questa dinamica che si riapre dopo il baratro degli anni ’90. In quei contesti il nesso tra organizzazione politica e fine è molto più chiaro ed evidente, si capisce che questo modello sociale danneggia ampi settori della popolazione mondiale e questa si organizza su altre prospettive.
Dunque la necessità dell’alternativa sociale riemerge con forza e drammaticità alla periferia dei poli imperialisti, anche se va detto che questa prospettiva a differenza del ‘900 non ha un modello di riferimento produttivo, sociale, politico ben definito; le sperimentazioni che si stanno facendo da quella, tutta da verificare, della Cina fino all’ipotesi più limpida per noi dell’America Latina e passando per i ritrovati antimperialismi di vario tipo (non bisogna scandalizzarsi delle forme che assume il conflitto ma vanno contestualizzate, comprese e poi anche giudicate rispetto alle prospettive del superamento del capitalismo), sono ipotesi che non dispongono ancora di una prospettiva chiara e unitaria e verificata.
Cosa molto più complessa è da noi in quanto sono molti gli elementi che contribuiscono ad offuscare una possibilità di società diversa. La sconfitta storica, la modifica della composizione di classe e sociale, i livelli di reddito, la coscienza diffusa anche se non manifesta dei settori popolari di vivere in aree del mondo privilegiate e da difendere sono tutti elementi che rendono difficile ricostruire una credibilità politica antagonista. Ne l’azione svolta dai partiti di sinistra e dai movimenti ha dato una risposta, almeno parziale a questo snodo fondamentale, l’istituzionalismo dei primi e l’ideologia “no global” sono completamente esterni ai sommovimenti profondi dei settori di classe in questo paese ed hanno vissuto di una autoreferenzialità della quale oggi si pagano i prezzi.
Tutti questi elementi per essere compresi hanno bisogno di un recupero serio e verificato degli strumenti teorici che abbiamo a disposizione e di una loro rielaborazione determinata dagli sviluppi del reale. Questo è un terreno decisivo ai fini di un recupero di ruolo di un partito comunista. Questa prospettiva di lavoro si colloca esattamente all’opposto delle scelte operate negli anni dai nostri partiti comunisti, questo lo diciamo senza mezzi termini, i quali non solo hanno preferito la politica contingente ma hanno piegato la necessità dell’analisi e della ricerca teorica alle necessità della politica “politicista” come ben ci ha insegnato Bertinotti.
Ragionare su una alterità sociale credibile, avere la capacità di condurre una battaglia culturale egemonica ed indipendente in contrasto con i modelli oggi proposti, punto di crisi anche dei nostrani intellettuali organici, ragionare sui referenti sociali in cui la condizione di classe classica si stempera nel lavoro intellettuale impegnato nella produzione, questi ed altri sarebbero i compiti di un partito che sa di non poter fare la rivoluzione ma sa anche che l’ampiezza delle contraddizioni è tale da poter permettere ipotesi politiche fuori dal quadro istituzionale dato.
LA FORMA DELL’ORGANIZZAZIONE POLITICA
Abbiamo visto come nello sviluppo delle varie fasi storiche ad ogni cambiamento prodotto dallo sviluppo capitalista è corrisposta una modifica dell’organizzazione di classe. Questa dinamica è valida ancora oggi e rispetto alle analisi che abbiamo fatto sia sul piano della oggettività che delle condizioni soggettive riteniamo riacquisti peso una ipotesi di organizzazione di quadri militanti. Il partito di massa così come lo abbiamo conosciuto è arrivato al suo epilogo grazie alle caratteristiche dei suoi gruppi dirigenti, caratteristiche non individuali ma prodotto di un profondo processo strutturale che è approdato alla nascita del PD e sul quale non ci dilunghiamo.
Dunque la scelta del “partito dei quadri” non è volontaria ne dettata da settarismo, peraltro molto “impegnativo” e poco gratificante, ma è data dalla situazione; questo non significa pensare che questa ipotesi sia esaustiva ma è un passaggio obbligato per ridare una credibilità di massa alla possibilità di cambiamento. Ritorna in ballo l’importanza della soggettività ed in questo senso ripartire dal CHE FARE? significa trovare un riferimento per ricostruire una ipotesi sapendo che questa elaborazione e verifica va fatta nelle condizioni odierne. Vale comunque la pena di ribadire che parlare di partito di quadri non significa porre un limite quantitativo e dunque necessariamente avere un approccio minoritario ma, bensì, significa metter al centro la qualità della militanza, la maturità dei singoli compagni che devono essere coscienti della complessità del compito che si sono scelti oltre che avere una organizzazione in grado di sostenere l’impegno collettivo ed individuale richiesto.
Così come va sostenuto il libero confronto interno all’organizzazione con un processo continuo, fisiologico si potrebbe dire, di dibattito e di maturazione collettiva nelle strutture che è l’unica forma reale di democrazia partecipata se si vuole rifiutare la mistificazione democrazia formale che in realtà è funzionale non alle scelte politiche ma agli equilibri che vigono dentro i partiti così come li conosciamo.
Capacità di sintesi e rapporto di massa, organizzazione e spontaneità sono questioni estremamente moderne riportate in auge dalla riorganizzazione capitalista e dal nuovo livello di sviluppo delle forze produttive che sta determinando a livello mondiale una nuova situazione di movimento e dunque di apertura di spazi per le alternative. Partito o organizzazione di quadri perché deve affrontare questa situazione in evoluzione che ha i caratteri detti. Ricostruire dunque un intellettuale collettivo significa misurarsi con i problemi dell’egemonia e della teoria oggi, e questo non può essere fatto da un corpo militante che diviene tale in occasione degli “eventi” politici o delle scadenze elettorali. L’ inadeguatezza di un tale agire è palese ed è inutile spiegarla; il problema che abbiamo è come ci si predispone per il suo superamento.
Se le dinamiche storiche che abbiamo cercato di estrapolare sono minimamente azzeccate, e cioè la disgregazione della classe nella produzione flessibile, la complessità sociale dei centri imperialisti, le caratteristiche inedite dei sommovimenti politici legati alla nuova condizione sociale e di classe (ad esempio la realtà della Lega nel nostro paese) ne consegue, anche qui, la necessità di un approccio qualitativo che non può essere sostituito da nessun protagonismo politico visto lo spessore delle questioni che si pongono di fronte ad una seria ricostruzione di una realtà comunista, partito od organizzazione che sia.
Un tale livello, imposto dal contesto e dalla dinamica storica delle nostre forze politiche, porta con se un’altra questione che è bene evidenziare. Dando per scontato, e certo non è vero, che è finita l’epoca delle ideologie comunque non possiamo non misurarci con il problema della formazione politica; formazione che non può che essere in relazione con una definizione della coscienza di classe dentro questo nuovo contesto storico, che implica necessariamente un livello qualitativo da ricostruire nella realtà odierna. Abbiamo qui però un problema in più per quanto riguarda la disponibilità alla militanza.
Nelle fasi precedenti il rapporto tra partito e soggetto sociale, la classe operaia propriamente detta, era un rapporto diretto e funzionale, ovvero la lotta politica per le classi subalterne si associava ad una possibilità di emancipazione anche a livello personale; chi faceva militanza partendo da una condizione sociale di classe e subalterna faceva di questo il suo punto di forza e d’identità per “progredire”.
Questo oggi può essere solo parzialmente vero nelle modalità classiche del movimento operaio. Si pone, perciò, il problema dei settori sociali proletarizzati e penalizzati da questo sviluppo che devono anch’essi trovare gli elementi di identità e di emancipazione che li spingano ad impegnarsi fino a modificare la propria visione del mondo, cioè quella che viene fornita dal sistema dominante. Questo elemento va bene evidenziato perché mentre sembra teoricamente corretto parlare di partito di militanti sappiamo bene che la società non produce automaticamente soggetti disponibili a questa relazione, almeno questo è quello che ci dice la nostra esperienza diretta, e questa condizione si manifesta mentre i militanti della sinistra rischiano di ripiegarsi e individualizzarsi sotto il peso di una nuova sconfitta.
QUALE FUNZIONE PER I COMUNISTI IN ITALIA
Questa è certamente la questione più complessa e non solo per via teorica ma sul piano pratico. Quale deve essere il ruolo di un partito comunista che agisce dentro uno dei poli imperialisti è un problema con il quale i vari tentativi di rifondazione non hanno fatto i conti se non in termini di mera rappresentazione a fini elettorali. Eppure da qui non si scappa perché se la classe è divenuta internazionale, come hanno sempre affermato i marxisti, noi dobbiamo fare i conti con la sezione di classe con cui siamo chiamati a misurarci quotidianamente. Ciò va fatto senza dimenticare ne la sua dimensione internazionale nelle dinamiche più rivoluzionarie della periferia, ne la dimensione continentale Europea dove le difficoltà nella sinistra e tra i partiti comunisti sono evidenti. E’ questo, perciò, il terreno più insidioso che ha probabilmente bisogno ancora di una maturazione obiettiva della situazione internazionale per poterlo definire con più chiarezza.
Questa nostra impostazione deve tenere presente anche una specificità Italiana che riguarda i caratteri della sua Borghesia che, in continuità con il passato, dimostra una debolezza strutturale ed un deficit di egemonia per cui i suoi interessi di classe raramente si contemperano con gli interessi generali delle altre classi e ceti come hanno invece dimostrato storicamente le borghesie dei grandi paesi capitalisti.
Questo stato di cose, e in assenza di una seria iniziativa di classe, da spazio alle destre che vanno da quella fascista del ventennio mussoliniano fino alla farsa di oggi di Berlusconi (la Storia si muove sempre dalla tragedia alla farsa). Il suo feticcio e la Lega vengono infatti utilizzati anche per tenere ingabbiate le energie della sinistra in un antiberlusconismo in “malafede” da parte dei nostri neo-democratici, giustizialisti e confindustriali di vario tipo.
L’antiberlusconismo paralizzante è stato, però, anche prodotto dalla mancanza di una approfondita analisi di classe di questo fenomeno e della nuova dimensione europea che ha impedito di riconoscere nella sua base sociale i caratteri di una classe sconfitta e trasformata nella condizione e nella identità, classe che è anche quella nostra di riferimento sottoposta ai forti processi generali che abbiamo fin qui cercato di descrivere.
Alcune cose sono chiare nel senso che uno dei compiti diretti dei comunisti, al di la delle forme politiche in cui sono organizzati, è quello della ricomposizione della classe per quello che concretamente è. Ciò significa dover ingaggiare su tutti i campi del conflitto di classe più concreto una battaglia che abbia al centro e come obiettivo pratico la crescita dell’organizzazione in tutte le sue possibili articolazioni sociali, la sua stabilizzazione e la completa indipendenza politica dall’attuale bipolarismo e, pensiamo, anche dalle sue variabili sociali e sindacali concertative. Ciò non significa fare del movimentismo ma al contrario dare la giusta funzione alla soggettività politica che vede nello sviluppo delle contraddizioni di classe la premessa per una possibile crescita politica conseguente.
Un tale obiettivo implica capire l’importanza dei quadri che devono saper essere direzione in quanto un corretto orientamento spontaneo delle lotte sociali non è affatto scontato. Non lo diciamo perché facciamo riferimento ai “sacri principi” leninisti ma perché tutti i giorni ci scontriamo con l’arretratezza politica dei soggetti sociali con i quali ci organizziamo; arretratezza dovuta non al caso ma a quell’insieme di elementi strutturali che abbiamo analizzato e che sappiamo bene quanto pesi in ogni singola azione di lotta; freni questi che possiamo superare grazie solo al confronto, anche aspro, di merito che ha la sua sede naturale dentro l’organizzazione politica e non tra le “masse”.
Il sindacato, le aree metropolitane, la gestione della contraddizione tra proletariato nazionale ed immigrati, la questione ambientale, la lotta contro il precariato ed altro ancora elencando sono i terreni su cui i comunisti, ed il loro partito, possono giocare non solo un ruolo politico ma strutturale e di sedimentazione allargata delle forze come precondizione necessaria del conflitto politico più generale.
Se il rapporto organico ed organizzato con la classe è la “base” ineludibile per un partito questa non può bastare a svolgere una funzione più generale. I problemi che si pongono dinnanzi sono quelli maturati nello sviluppo delle società capitaliste con la complessità sociale che oggi presentano. Non ci attardiamo in descrizioni fatte più volte e sulle dinamiche che abbiamo già ricordato ma il complesso dei settori che compongono la società italiana va capito non solo nella analisi di merito ma anche nelle dinamiche; ad esempio la crisi di egemonia che si comincia ad intravedere nei centri imperialisti come si manifesta ora per gli articolati settori sociali? Come si svilupperà in futuro questa contraddizione? Quali opportunità offre questa prospettiva per una alternativa politica e quali alleanze rende possibili? Quali modifiche richiede alle forze politiche di sinistra e comuniste? Sono tutte questioni che si pongono e si porranno in modo sempre più pressante. Per fare un esempio pratico: come è possibile contrastare la deriva reazionaria che riguarda i settori proletari di fronte alla competizione sociale che produce il fenomeno dell’immigrazione? Sappiamo bene che non può bastare l’umanitarismo etico che caratterizza la nostra sinistra nella sua quasi totalità.
In questa condizione e nei suoi potenziali sviluppi non basta certo la sola dimensione della rappresentazione per rispondere al complesso dei nodi politici che caratterizzano la nostra società. C’è un problema di qualità culturale, di identità che va ben oltre gli specifici interessi di classe e che devono essere il bagaglio politico di una forza che si pone in termini anticapitalisti in Europa. Ritorniamo allora alla questione dei “fini” e alla capacità di esercitare egemonia in settori ampi della società, anche se questa parte non può che essere quantitativamente limitata nella fase attuale.
Senza andare oltre in un approfondimento che dovremo in qualche modo fare il problema che si pone è come un partito di quadri possa svolgere una funzione di massa dentro la complessità sociale. Non si tratta certo di trovare adesso una risposta ma bisogna avere chiaro che questo è centrale per non separare la prospettiva dalla politica, ovvero per svolgere una funzione dentro le attuali contraddizioni e mantenere una prospettiva di trasformazione sociale reale e collegata al contesto internazionale, che è il vero punto di forza per ogni ipotesi di rottura. Il partito di massa, che oggi manifesta la sua crisi in Italia, lascia aperta una questione che comunque ha una dimensione di massa che rischia di divenire un limite ed una contraddizione politica se non impostato correttamente. L’insieme di queste analisi e riflessioni sulla funzione del partito “che non c’è” rappresenta una novità che non abbiamo scelto ma che ci viene consegnata dallo sviluppo politico avuto con le elezioni di questi ultimi anni che hanno registrato lo stallo politico delle organizzazioni nate a sinistra dal 1991.