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Come e perché studiare l’imperialismo

a Lorenzo “Lollo” Tarantino, messaggero di nuova umanità

Nella prima parte di questo articolo (§§ 1-3) espongo il senso politico dell’analisi leniniana dell’imperialismo e mi soffermo ampiamente sui contenuti e i modi teorici di questa stessa analisi, per poi, da essa, proporre una precisa impostazione metodologica dell’analisi della fase attuale dell’imperialismo.

A tal fine è spiegata nei paragrafi che seguono il significato della categoria di “imperialismo” e l’utilità teorica di questa. Nella seconda parte (§ 4) si abbozza un profilo della struttura economica dell’imperialismo odierno, confidando nel fatto che essa possa servire a tracciare una direzione di ricerca e, insieme, a contestualizzarne meglio l’analisi politica, per quanto soltanto approssimativa possa esserne la descrizione qui condotta tanto per necessità materiali quanto per difficoltà intellettuali. Infine nella terza parte dell’articolo (§§ 5-7) riprendo e sintetizzo alcuni punti analitici e politici nodali emersi dalle analisi promosse negli ultimi cinque anni dalla rete “Noi saremo tutto”, per ridiscuterle alla luce di recenti esperienze politiche non esplicitate e approfondirle, aggiungendovi alcune considerazioni politiche personali, come spunto di ulteriori e future discussioni collettive.

1. La categoria di “imperialismo” emerge all’inizio del XX secolo per indicare la tendenza al dominio economico e politico di determinate aree di interesse da parte di potenze statuali concorrenti, gli Stati c.d. imperialisti, e la conseguente tendenza alla guerra tra questi Stati per la spartizione violenta del mondo. Di essa si appropriò la critica marxista, mostrando lo stretto e necessario legame tra un momento “sostanziale”, o economico, e un momento “formale”, o politico, del fenomeno in questione, ovvero tra le tendenze strutturali della produzione e del mercato capitalistici e le loro manifestazioni politiche.

Sarà soprattutto V. I. Lenin, in occasione della polemica contro Kautsky e i socialsciovinisti, a rimarcare le ragioni di un legame necessario e diretto tra la forma che i rapporti economici assumono a un determinato grado di sviluppo del regime capitalistico e le forme del dominio politico-militare degli Stati imperialisti, ovvero tra le basi della vita economica di questi stessi Stati e il modo della spartizione economica e politica del mondo tra di essi.

Contro Kautsky e la deriva opportunista del suo pensiero, che isolava l’aspetto politico dell’imperialismo da quello economico, riducendo così l’imperialismo a una particolare politica coloniale del tutto irrelata dalle tendenze economiche del capitalismo e quindi riformabile a prescindere da queste, Lenin mostrava che l’imperialismo come forma politica inerisce sostanzialmente un determinato stadio di sviluppo strutturale e irreversibile del capitalismo, lo stadio della formazione dei monopoli e del capitale finanziario, e che la politica imperialista, quale esatta traduzione di relazioni economiche tra monopoli, fosse non isolabile da queste relazioni e, date queste relazioni, irriformabile. Non si trattava soltanto di una disputa teorica. La posta in gioco era ben altra. Kautsky, infatti, guardando all’imperialismo come fenomeno prettamente politico trascurava gli effetti dell’imperialismo “economico” sul proletariato autoctono in termini di formazione di “aristocrazie operaie” e di consenso politico ottenuto mediante redistribuzione dei sovrapprofitti estorti dai paesi dominati, giustificando così derive social-scioviniste entro il movimento operaio internazionale. Per Lenin svelare le basi economiche dell’imperialismo era, dunque, una questione politica di primaria importanza. Era in palio l’autonomia politica del proletariato internazionale, e, con essa, la sua incorruttibilità di fronte alle seducenti promesse dell’imperialismo.

La categoria di imperialismo, nella lettura leniniana, indica innanzitutto una fase storica determinata, la fase “suprema” del capitalismo, ovvero fase superiore, nuova, più recente, dello sviluppo capitalistico:

«Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo, si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo», cui corrisponde, da un lato, lo sviluppo del capitale finanziario in quanto «capitale bancario delle poche grandi banche monopolistiche fuso col capitale delle unioni monopolistiche industriali», dall’altro, l’affermarsi di una «politica coloniale del possesso monopolistico della superficie terrestre definitivamente ripartita»[2], una politica di dominio economico del mondo da parte di gruppi monopolistici nazionali con il sostegno e la mediazione politico-militare degli Stati di riferimento.

È centrale, dunque, nella definizione dell’imperialismo come fase “superiore” dello sviluppo capitalistico, il ruolo assunto in questa fase dal monopolio nel mercato mondiale, e, lo sviluppo, su base monopolistica, del capitale finanziario:

«L’imperialismo sorse dall’evoluzione e in diretta continuazione delle qualità fondamentali del capitalismo in generale. Ma il capitalismo divenne imperialismo capitalistico soltanto a un determinato e assai alto grado del suo sviluppo, allorché alcune qualità fondamentali del capitalismo cominciarono a mutarsi nel loro opposto, quando pienamente si affermarono e si rivelarono i sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale. In questo processo vi è di fondamentale, nei rapporti economici, la sostituzione dei monopoli capitalistici alla libera concorrenza»[3].

L’imperialismo è dunque, in generale, la fase in cui si manifestano e si affermano i “sintomi del trapasso a un più elevato ordinamento economico e sociale”, e in quanto tale esso è fase “suprema”, superiore in quanto più elevata rispetto alla precedente, non l’ultima. E, tuttavia, già in essa, secondo Lenin, si dà la possibilità della sua “ultimità”. Detto più chiaramente, si dà la possibilità della transizione al socialismo. Sottoposto al controllo della censura zarista, Lenin non poté chiamare per nome il nuovo e superiore ordinamento sociale verso cui, a suo dire, si avviava, e si avvia ancora, in potenza il capitalismo, ma ne indicò i “sintomi”, i tratti dominanti, già in atto nella fase imperialistica dello sviluppo capitalistico: questa fase è caratterizzata dalla formazione dei monopoli, dal superamento della concorrenza, e dal dominio della forma finanziaria del capitale quale fusione di capitale industriale e capitale bancario massimamente concentrati in poche mani. E in regime di monopolio, dato il grado di concentrazione e centralizzazione di capitale in esso raggiunto, si sviluppa massimamente il carattere sociale della produzione, ed emerge, come vedremo, la possibilità stessa per il capitale finanziario di pianificare, organizzare e controllare la produzione e la circolazione del valore su scala tanto maggiore quanto maggiore è l’entità e l’estensione dei capitali concentrati e lo sviluppo delle forze produttive raggiunto: emerge, in altri termini, la possibilità reale del socialismo.

Ma altra cosa è la sua possibilità concreta. Come abbiamo detto, per Lenin l’analisi dell’imperialismo non è un vezzo teorico. L’imperialismo è il nesso concreto tra le tendenze economiche e le tendenze egemoniche, tra le relazioni economiche e le relazioni politiche degli Stati capitalistici nella fase dello sviluppo dei monopoli. Concretamente questo significa che, date determinate tendenze e relazioni economiche – la concorrenza inter-capitalistica su scala mondiale tra monopoli nazionali, risultano determinate tendenze e relazioni politiche – la competizione inter-imperialistica “verticale” tra Stati-nazione imperialisti. L’analisi dell’imperialismo è per Lenin, allora, l’analisi del sistema dei monopoli, delle forme della competizione internazionale tra questi, delle manifestazioni politiche e belliche di simile competizione, e del rapporto tra Stato e monopolio. Comprendere esattamente la forma e il contenuto di queste relazioni significava per Lenin cogliere il contesto storico entro cui si stabiliscono determinati rapporti tra classi e le condizioni di una rottura rivoluzionaria dello stato di cose presente.

Il monopolio emerge storicamente negli ultimi decenni del XIX secolo nella forma basilare di monopolio nazionale. Tale era nella fase imperialista analizzata da Lenin, e tale permane almeno fino alla seconda guerra mondiale. Ad esso si accorda lo Stato-nazione, che ne rappresenta e media politicamente gli interessi nel mercato mondiale, ovvero nella fase della competizione inter-capitalistica con monopoli di diversa origine nazionale, per il dominio di aree di interesse economico strategico. Emergono dunque tra gli Stati-nazione contraddizioni “verticali”, che oppongono in maniera diretta e senza possibilità di mediazione taluni Stati ad altri. In periodi di espansione economica, quando ogni Stato può, almeno idealmente, estrarre sovrapprofitti soddisfacenti dai territori dominati, la spartizione del mondo tra Stati imperialisti avviene in forme relativamente “pacifiche”. Ma il terreno delle relazioni economiche e politiche tra questi Stati è irto di contraddizioni. I sovrapprofitti ottenuti sono per gli Stati imperialisti egemoni motivo di “putrescenza”: essi traggono la maggior parte dei loro profitti dal prestito estero, dalle operazioni finanziarie internazionali, dallo sfruttamento dei paesi subordinati, mentre rallenta, in essi, lo sviluppo dell’apparato produttivo. Intanto, nuovi e giovani imperialismi emergono, sulla spinta di un più vigoroso sviluppo capitalistico: è la legge dello sviluppo ineguale del capitalismo. Sono questi i paesi emergenti di ogni tempo. Avidi di dominio, con una economia in espansione, essi si inseriscono con un peso economico sempre più rilevante nel mercato mondiale e fratturano i vecchi equilibri egemonici, dando inizio a una fase di nuova spartizione economica e politica del mondo. Le contraddizioni inter-imperialistiche si fanno sempre più acute, la rivalità tra monopoli, e Stati che ne mediano gli interessi, si inasprisce, finché, al protrarsi della crisi, e nell’acuirsi sempre più feroce dello scontro egemonico, esse esplodono in forma violenta: è la guerra, ed essa assume caratteristiche altrettanto mondiali. Fu così alle soglie del 1914, dopo la prima “grande depressione” protrattasi tra il 1867 e il 1896, fu così ancora dopo la crisi del ’29.

La guerra si realizzava, allora, in una forma “totale”, come guerra di massa,implicando il coinvolgimento della nazione, della popolazione nazionale,in un regime straordinario di reclutamento e produzione per la guerra, e quindi il consenso politico attivo delle masse, per preservare un simile regime. È chiaro, allora, che in un simile contesto, qual era quello in cui Lenin scrive la sua opera sull’Imperialismo, diventano particolarmente preoccupanti le derive politiche dell’opportunismo assunte dal movimento operaio internazionale, a cominciare dal “kautskysmo”. Ma in tale contesto appare anche e soprattutto la possibilità di una rottura della catena imperialista negli anelli deboli di questa catena, i paesi usciti sconfitti dalla guerra, laddove si consuma la frattura tra classi dirigenti e popolazione. È qui la possibilità concreta della trasformazione dello stato di cose presente; essa si dà nella forma della transizione dalla guerra imperialista di massa alla guerra civile rivoluzionaria[4].

Ora, rispetto alla fase “classica” dell’imperialismo, quella descritta e agita da Lenin, in cui dominano la forma nazionale del monopolio e le contraddizioni “verticali” tra Stati-nazione, molte cose sono cambiate, altre permangono con non poche differenze. permangono il monopolio e la tendenza alla guerra inter-imperialista; cambiano le forme dell’uno e dell’altra. Si trasforma nella più recente fase dell’imperialismo non solo il monopolio, ma anche lo Stato, e con essi la forma che la guerra imperialista e inter-imperialista assume. Come vedremo, il risultato di queste trasformazioni è un diverso ordine dei rapporti tra le classi nei paesi imperialisti. E la comprensione di quest’ultimo è condizione necessaria e imprescindibile per l’elaborazione di qualsiasi strategia rivoluzionaria di fase.

 

2. A conclusione della prefazione alla prima edizione russa dell’opuscolo su L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, V. I. Lenin dichiara che l’intenzione che l’ha condotto nello studio dell’imperialismo è di «chiarire la questione economica fondamentale, la questione cioè della sostanza economica dell’imperialismo, perché senza quest’analisi non è possibile comprendere né la guerra odierna né la situazione politica odierna»[5].

sono qui indicati da Lenin non solo il movente dell’opera, ma la prospettiva teorica fondamentale assunta in essa: esiste un nesso strettissimo tra le tendenze economiche del capitalismo e i fenomeni politici che si manifestano in determinate circostanze storiche concrete; e questo nesso è tale per cui l’analisi della “sostanza economica dell’imperialismo” è premessa necessaria per la comprensione esatta delle relazioni politiche tra Stati imperialisti e delle guerre in atto.

In considerazione di questo nesso, l’imperialismo è considerato da Lenin come un fenomeno concreto, di cui emerge, in prima apparenza, soltanto l’aspetto politico, il momento formale, ma che è sempre da ricondurre a un momento sostanziale o economico: non c’è comprensione esatta dell’imperialismo senza l’analisi degli interessi e delle relazioni economiche che le forme politico-militari di questo fenomeno mediano e manifestano.

Alla luce di queste considerazioni preliminari, Lenin poteva dichiarare che:

«l’intento precipuo del libro era e resta quello di dimostrare […] qual era il quadro complessivo dell’economia capitalista mondiale, nelle sue relazioni internazionali ai primordi del secolo XX, alla vigilia della prima guerra imperialista mondiale»[6].

Nel “quadro complessivo dell’economia capitalista mondiale”, cioè nel quadro degli interessi e delle relazioni economiche tra i paesi capitalistici nel mercato mondiale, e tra questi paesi e i paesi a essi economicamente subordinati, è intessuta la trama delle “relazioni internazionali” politiche e militari tra Stati, ovvero è intessuta la trama della guerra come guerra imperialista e come guerra tra potenze imperialiste per la spartizione del mondo.

Soltanto dall’analisi obiettiva di questo quadro, dall’analisi della “sostanza economica” che gli sottende, i fenomeni politici e bellici dell’imperialismo possono essere, infine, compresi nella loro realtà, al di là di ogni prima e superficiale apparenza. Comprendere e descrivere esattamente il fenomeno della guerra imperialista è per Lenin di fondamentale importanza per combattere le derive opportuniste e, di fatto, anti-internazionaliste della Seconda Internazionale, nonché la condizione imprescindibile dell’elaborazione di una strategia di rottura rivoluzionaria dello stato di cose presente negli anelli deboli della catena imperialista.

Se la conoscenza del contenuto economico dei fenomeni dell’imperialismo resta presupposto necessario per la comprensione esatta dei fenomeni politici in questione, essa tuttavia è condizione non sufficiente: la spiegazione concreta dei fenomeni dell’imperialismo, la loro analisi concreta, non può esaurirsi nell’analisi del contenuto economico dell’imperialismo.

L’analisi della “sostanza economica” del sistema imperialistico, considerato in senso lato quale ordine mondiale di relazioni economiche, politiche e militari, non ha affatto un carattere schiettamente economico; essa è innanzitutto analisi concreta della realtà concreta. In quanto tale, una simile analisi non si limita allo studio dei fenomeni economici, né vuole comprendere i fenomeni politici mediante quelli economici secondo legami estrinseci o di determinazione diretta e unilaterale. Una corretta impostazione metodologica dell’analisi dell’imperialismo deve appropriarsi la realtà concreta come risultato di connessioni interne, intime e di reciproca determinazione tra le diverse forme economiche e politiche della realtà. L’analisi leniniana si appropria il fenomeno nella sua concretezza, a cominciare da ciò che sostanzialmente lo determina: essa è, insieme, un’indicazione di metodo e una critica degli elementi strutturanti della realtà.

Questi elementi sono da Lenin rintracciati innanzitutto nelle basi della vita economica delle società capitalistiche, ovvero nei rapporti di produzione e di proprietà che determinano la struttura economica e sociale di queste società (e quindi l’ordine delle classi sociali in esse date), e nelle tendenze generali dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, in cui quegli stessi rapporti si trasformano, dandosi in forme sempre nuove e superiori.

È lo storicizzarsi di queste forme secondo tendenze intrinseche al più generale sviluppo capitalistico e all’espansione del mercato mondiale che restituisce la realtà concreta dell’imperialismo. Lenin individua e studia come centrali talune qualità e tendenze dello sviluppo capitalistico che hanno condotto all’emergere del monopolio e del capitale finanziario, come rapporti economici dominanti nella fase “superiore” o “più recente” dello sviluppo capitalistico. Come vedremo le più importanti tra queste tendenze sono la concentrazione e la centralizzazione del capitale produttivo e bancario. Ma la formazione del monopolio e del capitale finanziario favoriscono lo sviluppo di altre tendenze economiche che Lenin analizza esplicitamente o coglie implicitamente nella sua analisi, tra cui l’esportazione di capitale, l’espansione del mercato mondiale e della concorrenza su scala sempre maggiore, l’internazionalizzazione del capitale finanziario e del monopolio. Lo sviluppo di queste tendenze in circostanze storiche concrete è di fondamentale importanza per cogliere la dinamica dello storicizzarsi dell’imperialismo in forme sempre nuove e superiori: come vedremo oltre, nella fase di nuova espansione del secondo dopoguerra e nel contesto storico concreto della “guerra fredda”, sulla spinta dello sviluppo capitalistico e in ragione di talune tendenze economiche fondamentali, dal monopolio nazionale si passa al monopolio multinazionale, prima, transnazionale, poi; con conseguenti, rilevanti trasformazioni della forma-stato degli Stati imperialisti.

Lo sviluppo in concreto dei processi generali del capitalismo in circostanze storiche mutevoli determina più in generale le diverse fasi dello sviluppo capitalistico, ovvero definisce le fasi concrete del capitalismo in un movimento storico di mantenimento e superamento continuo delle sue forme.

Ora, l’imperialismo propriamente detto è soltanto la definizione di una fase determinata dello sviluppo capitalistico, fase che fu da Lenin definita “suprema” non di certo perché “ultima”, ma in quanto “superiore”, la fase più avanzata dello sviluppo capitalistico fino a quel momento raggiunta: fase in cui emerge e si afferma il dominio del capitale monopolistico finanziario. Ma in questa fase non viene assolutamente mai a mancare la dialettica continua tra lo sviluppo dei processi generali del capitalismo e le circostanze storiche concrete di questo sviluppo, il movimento di continuo superamento e mantenimento delle forme concrete del capitale, e dunque anche del capitale finanziario e del rapporto che ne è alla radice, il monopolio.

Si capisce, dunque, che, seppure sia possibile individuare una fase generale dell’imperialismo come fase “suprema” del capitalismo, fase generale del dominio del capitale monopolistico finanziario, si possono e si devono distinguere fasi particolari e concrete del suo sviluppo imperialistico, fasi cui ineriscono forme altrettanto particolari e concrete del dominio dei monopoli.

Da una simile impostazione davvero dialettica della critica dell’imperialismo è doveroso considerare la categoria di “imperialismo” non come un’astrazione generale del pensiero, un concetto teorico privo di esistenza, ma come una forma storica in continuo divenire dello sviluppo capitalistico.

Emerge da qui il problema generale dell’analisi concreta dell’imperialismo, ovvero dell’analisi di questo fenomeno nella fase di volta in volta più avanzata, più recente, “superiore” o “suprema”, del suo sviluppo. Emerge in altri termini il problema dell’analisi concreta della fase concreta dell’imperialismo, e, in esso, quello di un’analisi della fase attuale dell’imperialismo, delle determinazioni che la definiscono, delle forme del capitale finanziario e del dominio monopolistico che le ineriscono, e delle configurazioni che, sulla spinta di esse, assume il sistema imperialistico mondiale.

È questo un problema innanzitutto di metodo, la cui risoluzione è premessa necessaria per qualsivoglia analisi concreta dello stato concreto dell’imperialismo nella fase più recente del suo sviluppo, e quindi anche nella fase odierna.

 

3. Come sappiamo Lenin individua cinque caratteristiche fondamentali della fase imperialista dello sviluppo capitalistico: la formazione dei monopoli, la formazione del capitale finanziario, la tendenza all’esportazione di capitali, il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali e la spartizione economica del mondo tra esse associazioni, la spartizione territoriale del mondo tra potenze imperialiste.

La descrizione più completa ed esaustiva che Lenin fornisce dell’imperialismo è la seguente:

«L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici»[7].

La definizione appena citata esplicita le determinazioni peculiari dell’imperialismo, e tuttavia ha il difetto di nascondere i processi generali dello sviluppo capitalistico che hanno portato a queste determinazioni, e quindi alla fase generale dell’imperialismo, e che in questa fase continuano a svilupparsi in un movimento storico continuo. Per comprendere questo movimento è necessario dunque ritornare alle tendenze che lo spiegano, alle leggi dello sviluppo capitalistico in fase imperialista. Certo, soltanto dall’analisi dello sviluppo storico concreto del capitalismo possiamo dedurre le categorie nuove e superiori che definiscono la fase più recente del sistema imperialistico, le forme odierne dell’imperialismo; ma in queste forme permane la stessa sostanza: il dominio del capitale finanziario. Conoscere le leggi e le contraddizioni generali dell’imperialismo, così come furono individuate storicamente da Lenin, ci permette di confrontarci con maggiore consapevolezza con l’analisi del presente, nel tentativo di comprendere se oggi si possa ancora parlare di imperialismo.

Per analizzare il sistema imperialistico odierno è del tutto deviante applicare i cinque punti della descrizione leniniana dell’imperialismo allo stato attuale delle relazioni economiche e politiche tra Stati nel mercato mondiale; da una simile operazione non se ne caverebbe nulla. È necessario invece ritornare dal contenuto di quelle cinque determinazioni ai processi che le sottendono, che le producono storicamente, e quindi muovere non già dal risultato dello sviluppo capitalistico all’epoca di Lenin, ma dal movimento generale di questo stesso sviluppo, dalle sue leggi e tendenze.

L’analisi dello sviluppo concreto dei processi generali del capitalismo è il nucleo teorico di partenza dell’analisi dell’imperialismo.

Per Lenin l’elemento fondamentale dell’imperialismo come fase di sviluppo del capitalismo è la formazione dei monopoli. Essa si dà in un lungo processo storico di concentrazione di capitale in regime di concorrenza:

«Uno dei tratti più caratteristici del capitalismo è costituito dall’immenso incremento dell’industria e dal rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie»[8].

Il capitalismo è un particolare regime di proprietà privata dei mezzi di produzione. Sul fondamento di questa proprietà si ha che la produzione capitalistica trova il suo fine ultimo soltanto nello scambio, ovvero nella realizzazione del profitto nel mercato. Poiché la produzione capitalistica di merci si svolge per il profitto, e poiché a essa non basta il semplice ottenimento di profitto ma tende illimitatamente all’incremento di esso con ogni mezzo, si viene a instaurare nel mercato capitalistico un rapporto conflittuale tra i proprietari di capitale per l’ottenimento di maggiori quote di profitto. Questo rapporto è detto concorrenza.

È una legge generale del modo di produzione capitalistico che lo sviluppo delle forze produttive trovi nella concorrenza un impulso necessario e inalienabile: per battere la concorrenza del mercato mondiale il mezzo più sicuro e frequente è la riduzione del prezzo di produzione delle merci. In regime capitalistico questa riduzione si ottiene soltanto con lo sviluppo dei mezzi di produzione, dell’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi in genere, ovvero con l’incremento della produttività, implicando quest’ultimo la riduzione del tempo necessario alla produzione delle merci e quindi la diminuzione del costo di produzione, e dando come conseguenza una maggiore produzione di merci in minor tempo, la riduzione del prezzo di produzione e dunque maggiori vendite e maggiori profitti.

Ma l’aumento della produttività implica l’incremento dello sfruttamento del lavoro, ovvero l’incremento del plusvalore estratto da ogni singola unità di forza-lavoro, in quanto ogni singola unità si fa più produttiva, produce più merci nella stesso tempo, e quindi suddetto aumento comporta l’incremento del capitale addizionale da investire nell’accumulazione. Più capitale addizionale significa più capitale investito nel processo produttivo. Ovvero una sempre maggiore concentrazione dei mezzi di produzione.

In altri termini, lo sviluppo delle forze produttive in regime di concorrenza favorisce la concentrazione di capitale produttivo, proprio mentre manda in rovina le imprese meno competitive e con meno capitali a disposizione: in complesso esso dà una spinta notevole alla concentrazione di capitale produttivo in poche mani. Ma entità maggiori di capitale concentrato favoriscono, a loro volta, lo sviluppo delle forze produttive, così come lo sviluppo delle forze produttive accelera la concentrazione del capitale. L’uno è condizione dell’altro e, contemporaneamente, un suo effetto.

A completare questo quadro intervengono gli effetti delle crisi del capitalismo. In regime capitalistico la crisi è la norma, giammai l’eccezione. E la sua ricorrenza è tanto più inevitabile e frequente quanto più sviluppato è il processo di accumulazione del capitale.

La crisi è il momento del massimo acuirsi delle contraddizioni intrinseche al modo di produzione capitalistico, soprattutto della contraddizione fondamentale di essa produzione, quella tra sviluppo della capacità produttiva e capacità di consumo sociale, o, in altri termini, tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione della ricchezza prodotta, tra l’arricchimento dei proprietari di capitale e l’immiserimento delle masse, contraddizione da cui si generano continue crisi di sovrapproduzione. Durante i periodi di crisi la concentrazione di capitale subisce un incremento notevole: soltanto le imprese più produttive e competitive nel mercato riescono a superare incolumi la più generale depressione degli affari che si viene determinando in queste fasi, le altre falliscono o vengono inglobate dalle prime mediante processi di acquisizione, fusione e simili.

È noto che all’epoca in cui Lenin analizza il processo storico di formazione del monopolio si erano verificate in Europa ben due crisi generali della produzione (una nel 1873, l’altra nei primi anni del 1900), le quali, come Lenin afferma giustamente, diedero una spinta determinante al processo di concentrazione.

Sviluppo delle forze produttive in regime di libera concorrenza e ricorrenza delle crisi in regime capitalistico sono i fattori principali dello sviluppo del processo di concentrazione del capitale. Ma come dalla concentrazione si passa alla formazione dei monopoli?

«La concentrazione, a un certo punto della sua evoluzione, porta, per così dire, automaticamente alla soglia del monopolio. Infatti riesce facile a poche decine di imprese gigantesche di concludere reciproci accordi, mentre, d’altro lato, sono appunto le grandi dimensioni delle rispettive aziende che rendono difficile la concorrenza e suscitano, esse stesse, la tendenza al monopolio. Questa trasformazione della concorrenza in monopolio rappresenta uno dei fenomeni più importanti – forse anzi il più importante – nella economia dell’imperialismo moderno»[9].

Lo sviluppo della produzione e dell’accumulazione capitalistiche in regime di libera concorrenza porta necessariamente al monopolio, in quanto in esso il processo di concentrazione della produzione arriva a un livello tale che è quasi inevitabile che poche grandi aziende si accordino per organizzare e controllare la produzione e la circolazione delle merci di un determinato settore dell’industria o anche di più settori contemporaneamente.

In forza di questa capacità di controllo e di organizzazione tanto della produzione, quanto della circolazione del valore, possiamo dire che il monopolio nega la concorrenza. Essa, inoltre, è determinata non solo dal grado di sviluppo raggiunto dalla concentrazione, ovvero dall’entità di capitali a disposizione, ma dalla centralizzazione di capitale che in questa concentrazione si determina. La concentrazione produttiva favorisce lo sviluppo del sistema bancario e, con esso, la «concentrazione delle banche»[10]. E, analogamente a quanto accade per la produzione, anche nel sistema bancario il passo dalla concentrazione al monopolio è assai breve.

Come abbiamo detto, la concorrenza tra capitali nel mercato favorisce lo sviluppo delle forze produttive e l’incremento su scala sempre maggiore della concentrazione produttiva. Ma con l’incremento del capitale produttivo concentrato e accumulato in poche mani, aumenta anche il capitale necessario a dare inizio al processo produttivo, e quindi aumenta la domanda di capitale monetario; al contempo cresce la massa dei profitti, e quindi dei depositi di cui le banche possono disporre; ancora si moltiplicano le operazioni di prestito e investimento, le operazioni di credito in generale, e quindi la massa dei profitti ottenuti dalle banche in queste operazioni; insomma, si produce un più generale sviluppo del sistema bancario, in cui la concentrazione del capitale arriva al punto tale da spingere le grandi banche a unirsi in consorzi monopolistici per dominare la finanza mondiale. Per Lenin il passaggio dalla banca, quale semplice istituto di credito e di mediazione delle operazioni finanziarie, al monopolio bancario segna «uno dei processi fondamentali della trasformazione del capitalismo in imperialismo capitalista»[11].

Una spinta poderosa alla concentrazione bancaria, e quindi alla formazione dei gruppi monopolistici bancari, è data, secondo Lenin, dal “sistema delle partecipazioni”. La partecipazione è il principale strumento finanziario utilizzato dalle grandi banche per subordinare le piccole e medie aziende:

«Le grandi aziende e specialmente le banche, non si limitano a ingoiare le piccole banche, ma se le “annettono”, le assoggettano, le includono nel “loro” gruppo, nel loro “consorzio” (Konzern è l’espressione tecnica tedesca) mediante la “partecipazione” ai loro capitali, comprando o scambiando azioni, creando un sistema di rapporti di debiti, ecc.»[12].

Esso permette inoltre di condurre «ogni sorta di loschi e luridi affari e di frodare il pubblico, giacché formalmente, davanti alla legge, le “società madri” non sono responsabili per le “società figlie”, considerate “indipendenti”, e per mezzo di esse possono far ciò che vogliono»[13].Ma soprattutto mediante il sistema delle partecipazioni, e in particolare mediante la partecipazione delle grandi banche al capitale delle imprese produttive, si giunge «a una sempre maggiore fusione … a una simbiosi del capitale bancario col capitale industriale»[14].

Si arriva così alla formazione del capitale finanziario: fusione di capitale bancario e capitale produttivo; capitale bancario messo a disposizione dei capitalisti industriali, investito nella produzione. All’interno di questa fusione si ha la subordinazione del capitale industriale al capitale bancario. Infatti con lo sviluppo del sistema bancario e della concentrazione di capitale liquido in grandi banche, «un pugno di monopolizzatori si assoggettano le operazioni industriali e commerciali dell’intera società capitalista, giacché mediante i loro rapporti bancari, conti correnti e altre operazioni finanziarie, conseguono la possibilità anzitutto di essere esattamente informati sull’andamento degli affari dei singoli capitalisti, quindi di controllarli, di influire su di loro, allargando o restringendo il credito, facilitandolo od ostacolandolo e infine di deciderne completamente la corte, di fissare la loro redditività, di sottrarre loro capitale o di dar loro la possibilità di aumentarlo rapidamente e in enormi proporzioni, e così via»[15].

E tuttavia il fondamento della ricchezza delle banche resta pur sempre la produzione. La ricchezza è prodotta non di certo dal credito, non risulta dal denaro né dall’interesse. Essa è prodotta dal lavoro, quindi nel processo produttivo, per dare inizio al quale il capitale monetario anticipato si oggettiva in mezzi di produzione e forza-lavoro. L’interesse che il capitale bancario trae dalle operazioni finanziarie, così come i profitti ottenuti tramite speculazione, non sono altro che le forme in cui avviene un trasferimento di ricchezza dai profitti dell’industria agli agenti di simili operazioni finanziarie. Si può dunque dire che il capitale bancario è dipendente dal capitale produttivo, in quanto il suo accrescimento dipende dal processo di produzione della ricchezza, quindi dal capitale produttivo. D’altra parte quest’ultimo dipende direttamente dal capitale bancario, in quanto, come abbiamo detto, solo il capitale bancario può dare inizio al processo produttivo. Sussiste così un nesso reciproco tra capitale bancario e produttivo tale da rendere inseparabile l’uno dall’altro; e questo nesso è tanto più intimo nel capitale finanziario.

Nel processo di concentrazione del capitale bancario si sviluppa, inoltre, la tendenza alla centralizzazione del capitale. La centralizzazione è «la sottomissione ad un unico centro di un numero sempre maggiore di unità economiche, prima relativamente “indipendenti” o, meglio, localmente circoscritte»[16]. Come vediamo quindi essa presuppone la concentrazione del capitale in grandi banche, e soltanto in questa concentrazione può svilupparsi. È il grado di centralizzazione del capitale che permette a una grande società di controllare capitali produttivi e bancari decentrati, organizzando la produzione e la circolazione del valore attraverso imprese produttive e bancarie subordinate a una società madre e dislocate o potenzialmente dislocabili in tutto il mondo. E questo è tanto più vero e importante per le forme multinazionale e transnazionale del monopolio.

In forza di questa duplice capacità di controllo e di organizzazione, il monopolio, pur generandosi dalla concorrenza, la nega come suo opposto. Infatti la concorrenza è un regime di anarchia e di competizione tra capitali individuali nel mercato; mentre il monopolio, capace di pianificare la produzione e la circolazione del valore, capace di stabilire accordi per la spartizione dei mercati tra molteplici imprese e gruppi di imprese, capace di sottomettere le imprese medie e piccole, non solo nega l’anarchia del mercato, ma tende a sottrarsi continuamente alla concorrenza. E tuttavia:

«Nella vita pratica si trovano non soltanto la concorrenza, il monopolio e il loro antagonismo, ma anche la loro sintesi, che non è una formula, ma un movimento. Il monopolio produce la concorrenza, la concorrenza produce il monopolio. I monopolisti si fanno concorrenza, i concorrenti divengono monopolisti»[17].

Insomma, come ci ricorda Marx, è vero che il monopolio supera la concorrenza, ma è anche vero che in regime di monopolio la concorrenza si mantiene. Esso la supera allorquando implica, da un lato, la tendenza alla “sottomissione ai consorzi monopolistici” delle piccole e medie imprese; dall’altro, quella alla “spartizione dei mercati tra gruppi monopolistici” tramite accordi. Ma al contempo la mantiene in un ordinamento economico superiore, come concorrenza tra gruppi monopolistici nel mercato mondiale:

«La libera concorrenza è l’elemento essenziale del capitalismo e della produzione mercantile in generale; il monopolio è il diretto contrapposto della libera concorrenza. Ma fu proprio quest’ultima che cominciò, sotto i nostri occhi, a trasformarsi in monopolio, creando la grande produzione, eliminando la piccola industria, sostituendo alle grandi fabbriche altre ancor più grandi, e spingendo tanto oltre la concentrazione della produzione e del capitale, che da essa sorgeva e sorge il monopolio, cioè i cartelli, i sindacati, i trust, fusi con il capitale di un piccolo gruppo, di una decina di banche che manovrano miliardi. Nello stesso tempo i monopoli, sorgendo dalla libera concorrenza, non la eliminano, ma coesistono, originando così una serie di aspre e improvvise contraddizioni, di attriti e conflitti. Il sistema dei monopoli è il passaggio dal capitalismo a un ordinamento superiore dell’economia»[18].

La concorrenza da inter-individuale si fa inter-monopolistica. Il mercato mondiale rimane conflittuale, e, anzi, si assiste alla recrudescenza della conflittualità inter-capitalistica nel sistema dei monopoli. Con questo, sia detto per inciso, anche nella fase del dominio dei monopoli lo sviluppo delle forze produttive e la tendenza alla concentrazione permangono e avanzano, sviluppando forme storiche diverse del monopolio, come quella, emersa nel secondo dopoguerra, del monopolio “multinazionale”,  o quella, a noi contemporanea, del monopolio “transnazionale”. D’altra parte, è proprio la concorrenza tra gruppi monopolistici per la spartizione dei mercati e delle “aree di influenza” a costituire la sostanza economica della guerra interimperialista, o, meglio, ad assumere nella guerra la sua forma più violenta e manifesta. E finché sussiste una simile conflittualità è impossibile sia il sogno kautskiano di un ultraimperialismo, sia il miraggio negriano di un piano mondiale del capitale, sia, il che è lo stesso, un ordine imperialistico mondiale non contraddittorio e non belligerante.

Dal momento in cui emerge il capitale finanziario su basi monopolistiche come soggetto dominante dell’economia capitalistica, si dà anche il soggetto economico dell’imperialismo. L’imperialismo è l’epoca del dominio del capitale monopolistico finanziario; e finché sussiste questo dominio e il rapporto di monopolio su cui esso si fonda, sussistono la tendenza alla spartizione economica del mondo tra monopoli e quella alla guerra tra potenze imperialiste. Sussiste insomma, secondo la definizione di Lenin, l’imperialismo nel suo complesso – che sia nella sua fase “classica”, o che sia, come vedremo, nella sua fase “globale” (o fase della c.d. “globalizzazione”). Tuttavia, questa è soltanto la realtà generale, ancora astratta, dell’imperialismo. La sua realtà concreta si dà in forme storiche mutevoli di questo dominio, della concorrenza che esso determina, della spartizione del mondo tra monopoli, e della guerra che essi comportano.

 

4. L’imperialismo non è soltanto, o non semplicemente, l’epoca del dominio dei monopoli e del capitale finanziario: esso è l’epoca di questo dominio su scala mondiale. E, come scrive Lenin, parte decisiva nella «creazione della rete internazionale della dipendenza e dei nessi del capitale finanziario è rappresentata dall’esportazione del capitale»[19].

L’esportazione di capitale, nella fase imperialistica del capitalismo, sopravanza l’esportazione di merci come modo dominante mediante cui i paesi capitalistici traggono profitti dall’estero. Lenin specifica che la produzione e il commercio delle merci restano la base di tutta la vita economica del sistema capitalistico. E tuttavia è mediante l’esportazione di capitale, in forma di prestiti internazionali e d’investimenti produttivi, che il capitale finanziario dei paesi imperialisti trae i maggiori profitti – e sovrapprofitti – dai paesi subordinati.

«La necessità dell’esportazione del capitale è creata dal fatto che in alcuni paesi il capitalismo è diventato “più che maturo” e al capitale (data l’arretratezza dell’agricoltura e la povertà delle masse) non rimane più campo per un investimento “redditizio”»[20].

All’origine della tendenza all’esportazione di capitale vi è dunque una «eccedenza di capitale» per sovraccumulazione, che si produce a un grado assai avanzato di sviluppo del modo di produzione capitalistico, quindi nei paesi capitalisticamente più maturi, o di vecchia industrializzazione: lo sviluppo delle forze produttive, l’accumulazione di capitale, e l’aumento, in quest’accumulazione, della componente fissa del capitale produttivo (mezzi di produzione) rispetto alla sua componente variabile (forza-lavoro), producono, nel lungo periodo, una generale diminuzione dei saggi medi di profitto nei diversi settori dell’industria, fino al punto da saturare ogni possibilità d’investimento redditizio per il capitale, costringendolo a “emigrare” all’estero.

Questa eccedenza di capitale, inoltre, non si produce in termini assoluti: come Lenin specifica nel passo succitato, essa è relativa alla «arretratezza dell’agricoltura» e alla «povertà delle masse»; ovvero, in termini più generali, alla «disuguaglianza di sviluppo» della produzione capitalistica e allo «stato di semiaffamamento delle masse»[21].

Finché ci troviamo in regime capitalistico, ovvero finché ci troviamo in regime di proprietà privata dei mezzi di produzione, lo sviluppo della produzione non è subordinato a un piano generale di sviluppo, in quanto non è la soddisfazione dei bisogni sociali il fine della produzione capitalistica. Il fine della produzione capitalistica è il profitto, e il suo sviluppo è subordinato soltanto a un piano di profitto. È il saggio medio di profitto di un determinato settore produttivo, la sua “redditività” media, a decidere degli investimenti di capitale in quel settore. Se questo saggio è troppo basso, per composizione organica di capitale troppo elevata, il capitale si sposta verso settori a saggi di profitto più elevati. Se il saggio medio di profitto in un paese avanzato è in generale troppo basso per eccesso di capitali accumulati, il capitale si sposta verso aree a condizioni di valorizzazione più profittevoli (salari più bassi, materie prime a basso prezzo, privilegi o esenzioni fiscali, terreni fertili e sorgenti energetiche o di materie prime da monopolizzare, ridotta accumulazione per sottosviluppo industriale e in generale un saggio medio di profitto più alto, ecc.). In fin dei conti, i c. d. “fondi di sviluppo”, come il Fondo europeo per i paesi in via di sviluppo, sono veri e propri “fondi di profitto” del capitale finanziario, destinati all’investimento in paesi capitalisticamente meno avanzati, e quindi alla realizzazione di sovrapprofitti in questi paesi, e molto spesso a scapito delle loro popolazioni, i cui bassi salari sono una manna per i capitali delle potenze imperialiste della terra. D’altra parte, l’esportazione di capitale verso i paesi “meno progrediti”, pur entro i limiti dello “iugulamento finanziario” e del dominio monopolistico a cui sono costretti questi paesi, «influisce» effettivamente «sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce, accelerando tale sviluppo. Pertanto se tale esportazione, sino a un certo punto, può determinare una stasi nello sviluppo nei paesi esportatori, tuttavia non può non dare origine a una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo»[22]. Favorendo lo sviluppo del capitalismo in tutto il mondo, l’esportazione di capitale costituisce le condizioni del mercato “globale”[23].

I paesi imperialisti non esportano soltanto capitali nei paesi “meno progrediti”; con questi capitali essi esportano il capitalismo stesso. In primo luogo, infatti, l’esportazione di capitali è un mezzo per favorire anche l’esportazione di merci verso il medesimo paese di destinazione. E questo avviene già ai tempi di Lenin:

«La cosa più frequente – scrive Lenin – nella concessione di crediti è quella di mettere come condizione che una parte del denaro prestato debba venire impiegato nell’acquisto di prodotti del paese che concede il prestito»[24].

In secondo luogo, i paesi imperialisti esportano nei paesi di destinazione, con i propri capitali, la produzione capitalistica, il rapporto di capitale: la proprietà privata capitalistica e lo sfruttamento del lavoro salariato. L’esportazione di capitale, in altri termini, crea non solo nuovi mercati di merci, ma nuovi paesi produttori di merci. Così facendo, essa espande, insieme, il mercato capitalistico e il modo di produzione capitalistico in tutto il mondo, producendo connessioni sempre più fitte tra i diversi paesi (e quindi tra i diversi mercati locali) e tra i capitali di diversa provenienza nel mercato mondiale.

Il mercato “globale” è il risultato di un processo di internazionalizzazione dell’economia, i cui aspetti fondamentali sono l’unificazione del mercato mondiale capitalistico e l’internazionalizzazione del capitale finanziario. Ma andiamo per gradi.

Abbiamo detto che nell’esportazione di capitale è già in potenza il mercato “globale”, ciò significa, secondo il ragionamento fin qui condotto, che in essa sono già potenzialmente dati il mercato mondiale “unificato” e l’internazionalizzazione del capitale.

Tuttavia è soltanto in circostanze storiche concrete che le tendenze suddette (all’unificazione del mercato mondiale e all’internazionalizzazione del capitale) possono effettivamente realizzarsi.

Nel secondo dopoguerra si afferma sul piano internazionale l’egemonia dell’imperialismo USA. Essa è risultato di uno sviluppo pluridecennale dell’apparato produttivo e della posizione di egemonia incontrastata assunta dopo il secondo conflitto mondiale quale principale paese “creditore” della ricostruzione post-bellica. Le società finanziarie statunitensi raggiungono in questa fase un tale livello di concentrazione produttiva e di centralizzazione finanziaria del capitale da permettere loro la dislocazione multinazionale degli investimenti produttivi e finanziari. Condizione storica non trascurabile di suddetta dislocazione è, di certo, anche il grado di sviluppo delle tecnologie di comunicazione raggiunto durante il secondo conflitto mondiale dall’industria militare e, successivamente, applicato a usi civili e produttivi, tale da permettere la centralizzazione strategica d’investimenti e partecipazioni eterodiretti e decentrati. È questa l’epoca delle “multinazionali”, ovvero dell’accumulazione internazionale del capitale (a base prevalentemente USA). Ma è anche l’epoca, come abbiamo già accennato, della ricostruzione post-bellica, non a caso condotta con fondi prevalentemente statunitensi, e della “guerra fredda”. Com’è noto, la ricostruzione dà inizio a una nuova fase di espansione produttiva tanto in Germania (ovest), e nel polo produttivo europeo occidentale, quanto in Giappone, che si traduce in un’alleanza strategica contro il comune nemico sovietico.

Già Lenin poteva costatare che l’esportazione di capitale moltiplica le connessioni e i rapporti tra monopoli nel mercato mondiale, sicché «a misura che cresceva l’esportazione dei capitali, si allargavano le relazioni estere e coloniali e le “sfere d’influenza” delle grandi associazioni monopolistiche, “naturalmente” si procedeva sempre più verso accordi internazionali tra di esse e verso la creazione di cartelli mondiali»[25]. Sulla spinta dell’esportazione di capitale si vengono a formare – secondo Lenin – cartelli internazionali di monopoli nazionali. Ora, durante la “guerra fredda” la formazione di simili cartelli non era semplicemente una tendenza economica, era una necessità politica.

Ma questi cartelli, a egemonia statunitense, non producono ancora l’internazionalizzazione propriamente detta del capitale finanziario nel mercato mondiale, seppure con l’esportazione di capitale in questa fase si vengano già a creare le condizioni di questa internazionalizzazione.

Punto di svolta decisivo nella storia dell’imperialismo, perché segna il passaggio da una fase multinazionale a egemonia statunitense a una fase nuova e superiore di conflittualità interimperialistica, si ha negli anni ’70 con la nuova crisi mondiale del capitalismo. A dire il vero questa crisi ha origine nella metà del decennio precedente, quando iniziano a invertirsi le principali tendenze del capitalismo USA, colpito da una grave crisi di sovrapproduzione. La crescita dell’economia statunitense e la stabilità del dollaro, cui erano legate le valute dei paesi del blocco occidentale, erano state, fino a quel momento, i fattori trainanti della crescita economica mondiale. È chiaro quindi che dagli USA la crisi si generalizzò ben presto all’intero capitalismo mondiale. Gli anni ’70, allora, segnano la generalizzazione mondiale della crisi: la crescita mondiale s’interrompe bruscamente (per non ritornare mai più ai livelli pre-crisi), l’accumulazione stagna, l’inflazione e la disoccupazione segnano il passo. La risposta dell’imperialismo occidentale, dietro spinta USA, è la ristrutturazione su scala mondiale della produzione. Essa segue alcune linee strategiche principali: lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, dell’informatica e dell’automazione del controllo; la razionalizzazione dell’organizzazione del lavoro, con meno sprechi e più flessibilità della produzione e della forza-lavoro. L’organizzazione di matrice tayloristica mostrava, in questa fase di crisi, tutti i suoi limiti. Essa comportava troppe “rigidità” all’interno del ciclo produttivo, e, con ciò, consentiva l’espressione della “rigidità operaia”, la possibilità del blocco di un intero ciclo produttivo mediante scioperi e occupazioni che colpivano fasi soltanto parziali di questo ciclo. Bisognava, quindi, minare alle radici il potere operaio, e, al contempo, razionalizzare i costi sull’intero processo di produzione – il taylorismo aveva fatto il suo tempo; e ciò fu fatto adottando il modello della produzione “snella” e dello just in time, il modello dell’organizzazione toyotista, e inscrivendo la ristrutturazione della produzione mondiale in una nuova divisione internazionale del lavoro. Tale ristrutturazione avviene prevalentemente tra gli anni ’70 e i ’90. Essa si accompagna a un processo di centralizzazione finanziaria di dimensione internazionale, che si manifesta già negli anni ’80, per poi svilupparsi pienamente nel decennio successivo: si tratta di una nuova ondata d’investimenti (ide) e partecipazioni (fusioni e acquisizioni) “incrociati”, e non più semplicemente “eterodiretti”, come nella fase a dominanza multinazionale del capitale monopolistico finanziario – in essi “s’incrociavano” trasversalmente capitali di diversa provenienza nazionale. Questo processo di portata internazionale spinge alla formazione del capitale monopolistico finanziario transnazionale. Esso si afferma come forma dominante soprattutto negli anni ’90, dopo la caduta del muro, allorquando l’imperialismo occidentale vittorioso (vincitore della “guerra fredda”) può dare inizio alla colonizzazione del mondo in una nuova spartizione economica del mondo, caratterizzata da due opposte tendenze: alla conflittualità inter-imperialistica violenta e all’unificazione del mercato mondiale dietro condizione della completa mobilità internazionale del capitale in esso dato[26]. Soltanto a queste condizioni possiamo parlare d’internazionalizzazione del capitale, o, almeno, possiamo affermare che il capitale monopolistico finanziario raggiunga la fase della sua piena (o matura) internazionalizzazione. Si apre allora la fase “globale” dell’imperialismo, o fase dell’imperialismo transnazionale, in cui, sotto il dominio del capitale monopolistico finanziario transnazionale, tanto l’accumulazione quanto la centralizzazione assumono dimensioni propriamente internazionali. Ora, e soltanto ora, il mercato mondiale – verso la cui costituzione da sempre tende il capitale, e massimamente, il capitale monopolistico finanziario (di mercato mondiale parlavano già Marx ed Engels, e la sua realizzazione nella fase “classica” dell’imperialismo era già descritta da N. Bukharin[27]) – trova pieno e maturo compimento. Alla luce di queste considerazioni, si capisce che la categoria mistificante di “globalizzazione” non indica altro se non la fase della piena maturazione del mercato mondiale, fase della tendenza alla sua “unificazione”.

La nuova spartizione del mondo, cui apre l’ultimo decennio del XX secolo, è spiegata dalla necessità del capitale in crisi di appropriarsi di nuovi mercati locali, di nuova forza-lavoro, meno costosa e più flessibile, di nuove sorgenti energetiche e di materie prime, di nuove fonti di sovrapprofitto. Essa pertanto è funzionale alla riorganizzazione della produzione mondiale in una nuova divisione internazionale del lavoro. Quest’ultima, dietro la spinta del capitale transnazionale, si dà allora in forma di concatenazione di filiere transnazionali del valore, che abbatte i confini territoriali dei vecchi stati nazionali e quelli macroregionali delle aree capitalistiche mondiali (USA, UE, ecc.), e favorisce piuttosto l’integrazione dei mercati “locali” nel mercato “globale” del capitale.

Questa concatenazione presuppone l’integrazione centralizzata delle filiere produttive e finanziarie decentrate nelle diverse aree del mondo, o, detto altrimenti, l’organizzazione della produzione e della circolazione del valore su scala mondiale per decentramento di filiere produttive e finanziarie gerarchicamente integrate tra loro (dai capitali più grandi ai più piccoli, in una scala di subordinazioni intricate che attraversa tutto il mercato mondiale) e centralizzazione strategica e finanziaria dei cicli di produzione e di circolazione del valore in società finanziarie colossali con capacità di pianificazione senza precedenti – le holding. Presupposto e insieme risultato di una simile organizzazione è il dominio del capitale monopolistico finanziario di carattere transnazionale. Quest’ultimo, infatti, è fondato su vaste concentrazioni di capitale la cui destinazione è multinazionale, come già, d’altra parte, avviene nella forma multinazionale semplice di monopolio, ma la cui origine, a differenza di quest’ultima, è parimenti decentralizzata e di diversa provenienza nazionale, e quindi i cui assetti proprietari sono internazionali, seppure la gestione strategica e finanziaria del capitale resti fortemente centralizzata. Nella fattispecie, essendo i capitali ivi concentrati di diversa provenienza e di destinazione multinazionale, ed essendo gli stessi consigli di amministrazione delle società madri formati da azionisti di maggioranza di diversa nazionalità, gli interessi di questi gruppi finanziari non si legano a interessi “esclusivi” di particolari nazioni o Stati di riferimento, ma risultano “trasversali”, proprio in quanto trasversale è la destinazione e la provenienza dei capitali. Tuttavia la sede di riferimento delle società madri resta di collocazione nazionale; pertanto, nella trasversalità “orizzontale” degli interessi dei consorzi monopolistici a base transnazionale, permane ancora un rapporto “verticale” tra Stato e monopolio, permangono, insomma, interessi particolari di determinati Stati a favorire tale o tal altro consorzio e la società madre di riferimento[28]. Ciò complica, non di poco, il quadro delle contraddizioni interimperialistiche:

«Pur permanendo cionondimeno una “base nazionale” di elezione, ogni grande capitale finanziario centralizzato è, da un lato, il coacervo della partecipazione (per fusioni, acquisizioni o accordi di altro genere) di capitali operanti provenienti da diverse nazioni, e, dall’altro, il risultato, come si è accennato, di una concatenazione di strategie finanziarie e di produzione in filiera che passano indifferentemente “attraverso nazioni” diversissime»[29].

D’altra parte, il tratto caratteristico del processo di internazionalizzazione del capitale nella fase transnazionale del suo sviluppo è la forma “verticale” che in esso assume l’integrazione del capitale finanziario e capitale produttivo: premettendo che solo il capitale produttivo produce plusvalore, è sempre il capitale finanziario a dirigere i giochi, controllando cicli anche lunghissimi di produzione e circolazione del valore e centralizzando la gestione strategica delle filiere produttive e finanziarie transnazionali dislocate in tutto il mondo. Il capitale finanziario transnazionale si separa dall’economia nazionale, e, con ciò, si rende autonomo dallo Stato. Quindi, proprio mentre lo Stato resta legato “verticalmente” agli interessi di determinate società madri, di consorzi a sede giuridica nazionale, il capitale finanziario transnazionale si rende autonomo dallo Stato. Da questo duplice e opposto movimento risulta inevitabilmente la subordinazione e la sussunzione formale dello Stato nazionale al capitale finanziario transnazionale.

Nel quadro del mercato “globale” è superata la forma “classica”, nazionale, del monopolio, e il tradizionale rapporto di conformazione tra il capitale monopolistico nazionale e lo Stato-nazione lascia il posto a una frattura tra il capitale finanziario, ormai transnazionale, e lo Stato nazionale. Questa frattura si traduce inevitabilmente nella subordinazione dello Stato, quale soggetto parassitario, al capitale monopolistico finanziario, quale agente attivo dell’economia.

Nella condizione della separazione tra capitale finanziario e Stato, lo Stato non può che seguire gli interessi dei capitali dominanti di stanza o sede nella nazione, e quindi operanti entro i confini nazionali a prescindere dalla loro provenienza di origine, così come, d’altra parte, esso ne media gli interessi conflittuali. Le società madri, inoltre, come abbiamo detto, mantengono ancora la sede giuridica in determinati Stati di riferimento, seppure la proprietà del capitale sociale di cui esse dispongono presenti un carattere transnazionale. Sono i capitali rappresentati da queste società transnazionali di stanza nella nazione a dominare di fatto tutta la vita economica della nazione. Gli Stati non possono, dunque, che rappresentare gli interessi di suddetti capitali, pur non coincidendo essi con gli interessi della “nazione”, o meglio, né, ovviamente, con gli interessi delle classi sociali subordinate, né, almeno in certe circostanze, con quelli delle frazioni di borghesia schiettamente nazionali e locali.

Con l’emergere del carattere “transnazionale” del capitale finanziario anche la competizione tra capitali finanziari nel mercato mondiale cambia forma. Alle contraddizioni inter-imperialistiche tradizionali, che potremmo definire “verticali” in quanto attive tra Stati (e tra Stati che seguono i capitali dominanti di stanza o sede nella nazione), si aggiungono nuove contraddizioni “orizzontali” o “trasversali” alle nazioni. Queste ultime dipendono dal carattere altrettanto trasversale degli interessi e dei conflitti che riguardano i monopoli a base transnazionale. Infatti, proprio in quanto non legati a una particolare nazione, i capitali a base transnazionale concorrono tra loro per interessi che attraversano e sovrastano le nazioni, cosicché, per esempio, un gruppo monopolistico transnazionale con capitali di provenienza euro-statunitense può concorrere con un’altra formazione monopolistica euro-statunitense, o ancora gruppi italo-tedeschi possono concorrere con altri gruppi italo-tedeschi, o con gruppi italo-francesi, o franco-tedeschi e così via, producendo una rete “globale” d’interessi e conflitti che s’intersecano tra loro e attraversano le nazioni e i continenti.

Come si comporta lo Stato-nazione rispetto a questa rete “globale”, transnazionale, d’interessi e conflitti inter-capitalistici? Esso è del tutto impotente rispetto a essa, in quanto la stessa trasversalità di questi interessi e di questi conflitti, risultando dal carattere transnazionale del capitale finanziario, rende impossibile qualsivoglia mediazione di Stato degli stessi. In altri termini alle contraddizioni inter-imperialistiche trasversali può rispondere soltanto una mediazione che superi la forma tradizionale dello Stato-nazione, inadeguata a svolgere questa funzione, e che dunque si realizzi attraverso tutte le nazioni e sopra di esse.

La necessità di una “mediazione transnazionale” della concorrenza tra gruppi monopolistici a base transnazionale lascia emergere una nuova forma politica di “governo”mercato “globale”: la governance. Quest’ultima è il risultato di un processo di adeguamento degli Stati-nazione all’ordine mondiale del capitale finanziario transnazionale, ovvero al mercato “globale”, alla rete “globale” delle contraddizioni inter-imperialistiche. La necessità di un simile adeguamento implica l’aggregazione sovranazionale degli Stati in organismi sovranazionali di mediazione d’interessi e conflitti nel mercato “globale”. La governance, quindi, non è altro che la forma politica della mediazione sovranazionale dei conflitti tra capitali finanziari internazionalizzati, tra monopoli “transnazionali”, nel mercato “globale”. In essa lo Stato-nazione non scompare affatto; esso si supera e si mantiene: permane, nondimeno, un soggetto decisionale ed esecutivo attivo negli organismi della governance transnazionale.

La struttura “globalizzata” del modo di produzione capitalistico è a tal punto conflittuale da necessitare dell’intervento attivo e concertato di organismi di mediazione e di coordinamento. Il piano di questo intervento, il piano del governo politico del mercato “globale” e della mediazione tanto della sua intrinseca conflittualità quanto degli interessi trasversali che in esso si producono, non potrebbe essere che sovranazionale; ma esso a sua volta può risultare soltanto dall’aggregazione degli Stati-nazione imperialisti, ovvero degli Stati del capitale finanziario transnazionale, in organismi sovranazionali di direzione strategica centrale e coordinata, nei quali pur si vengono a stabilire rapporti di forza e gerarchie interne, anche conflittuali, e quindi contraddizioni “verticali” e rotture tra gli Stati membri, tali da determinare di volta in volta le decisioni che questi organismi sovranazionali assumono. In questo processo un dato di particolare rilievo è il seguente: data la formazione del capitale finanziario “transnazionale” e del mercato “globale”, è impossibile per gli Stati nazionali mediare i conflitti tra capitali e gruppi monopolistici nel mercato mondiale. Ciò non significa che lo Stato abbia smesso di esistere, o che sia superato in una diversa forma-Stato; né significa che esso non sia più soggetto politico attivo dell’imperialismo, capace di decisioni autonome nell’interesse particolare della “nazione” (e tale capacità ancora rivela nelle contraddizioni inter-imperialistiche “verticali”). Più semplicemente esso perde alcune funzioni che lo caratterizzavano prima dell’inizio dell’attuale fase imperialista.

Alla luce del rapporto che si determina storicamente tra la forma più recente del capitale finanziario, quella transnazionale, e lo Stato-nazione tradizionale, la governance risulta essere nient’altro che la forma della mediazione sovranazionale dei conflitti inter-capitalistici nel mercato “globale” e della coordinazione economica, politica e militare degli Stati imperialisti, risultante dalla tendenza all’aggregazione sovranazionale di questi Stati, cioè dall’organizzazione degli stessi nella catena imperialistica transnazionale, ovvero ancora dalle relazioni economiche che essi intessono nel mercato mondiale del capitale transnazionale e nello stato della nuova divisione internazionale del lavoro. Questa tendenza all’aggregazione sovranazionale, e la governance che ne risulta, non negano in alcun modo la competizione inter-imperialistica, e le manifestazioni di questa in forme violente: essi non negano insomma la tendenza alla guerra tra potenze imperialiste. Bisognerebbe, tuttavia, studiare in concreto il “quadro mondiale” delle relazioni economiche tra gli Stati imperialisti, e tra i “loro” consorzi monopolistici di riferimento, per poter ricostruire, dal punto di vista storico ed economico, lo stato concreto delle contraddizioni inter-imperialistiche “verticali” e “orizzontali”, e collocare adeguatamente in esse la tendenza alla guerra inter-imperialista. Non possiamo in alcun modo accontentarci di studiare astrattamente, sulla base delle leggi di sviluppo e crisi dell’accumulazione capitalistica, la tendenza alla guerra tra potenze imperialiste. Lo studio in concreto di questa tendenza deve tener conto delle forme concrete in cui la guerra si realizza, il cui sostrato sostanziale sono le concrete relazioni e interconnessioni tra consorzi monopolistici e Stati di riferimento in un mercato “globale” a forte integrazione di capitale finanziario e inter-dipendenza delle economie nazionali. Per quanto ne so, un simile studio non è stato ancora compiuto. Esso è tuttavia imprescindibile per analizzare la tendenza alla guerra inter-imperialista concretamente, nelle sue forme. Per quanto ne so, la guerra inter-imperialista è già in atto da tempo. Essa tuttavia si svolge, o almeno si è svolta finora, in forme storiche determinate, che prenderemo a esame nel paragrafo successivo, e che implicano, rispetto alla guerra interstatuale di tipo novecentesco, un diverso rapporto tra le classi nei paesi imperialisti, con conseguenze politiche di primaria importanza. Ma procediamo con ordine.

Il rapporto di subordinazione dello Stato al capitale finanziario transnazionale e il necessario processo di adeguamento della forma-Stato alla forma transnazionale del capitale finanziario e alle sue contraddizioni, comporta per lo Stato-nazione innanzitutto la trasformazione delle funzioni economiche e sociali, in secondo luogo una diversa razionalità politica e militare.

Irretito in uno stato di crisi sistemica dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso, il grande capitale ha ancora bisogno dello Stato per sostenere l’accumulazione. Lo Stato sostiene il grande capitale, e tuttavia lo fa sempre subordinatamente alle esigenze di questo: il sostegno attivo dello Stato è esercitato dalle banche centrali (da diversi decenni privatizzate) e dalle finanze pubbliche (quindi dalle varie Tesorerie di Stato), e si realizza attraverso la politica monetaria (creditizia e fiscale), in forme varie e molteplici: facilitazioni creditizie e fiscali, operazioni di salvataggio pubblico, dotazioni di fondi liquidi tramite partecipazioni statali, ecc. Insomma, nel rapporto di subordinazione dello Stato al capitale finanziario transnazionale, l’intervento attivo dello Stato a sostegno del capitale finanziario si circoscrive alla fase di reperimento e raccolta di fondi liquidi da investire per favorire la capitalizzazione in borsa: lo Stato di riduce a istituto di liquidità del capitale. Da qui nasce la possibilità stessa del debito sovrano. Nascono le condizioni strutturali della trasformazione del modello sociale e del disfacimento del welfare, economicamente insostenibile per lo Stato indebitato del capitale transnazionale.

Si produce in questa fase una frattura profonda tra Stato e popolazione, frattura che diviene irreversibile e palese negli anelli deboli della catena imperialista, quelli maggiormente colpiti dalla crisi: subordinato al grande capitale finanziario lo Stato esclude per necessità l’interesse delle masse popolari e lavoratrici dal modello economico e sociale che va assumendo in questa fase. Glielo impone il capitale in crisi, la necessità inerente al capitale di scaricare la sua propria crisi di valorizzazione sul lavoro, come crisi di lavoro, svalutazione coartata e generalizzata della forza-lavoro. D’altra parte la sussunzione delle funzioni economiche dello Stato agli interessi del capitale transnazionale favorisce questa frattura: per sostenere il grande capitale in fase di liquidazione lo Stato s’indebita sempre di più; ciò implica, come abbiamo detto, l’insostenibilità del modello prima dominante dello Stato sociale.

Ma se la subordinazione dello Stato al capitale transnazionale impone la necessità strutturale di questa frattura, è la forma-guerra che si afferma in questa fase a determinarne la possibilità concreta. Lo Stato resta fondamentale quale mediatore politico e militare degli interessi espansionistici del capitale monopolistico finanziario. Esso è l’organizzatore e l’esecutore della guerra imperialista. Ma fare la guerra nel contesto del mercato “globale” e del dominio del capitale finanziario transnazionale comporta forme specifiche e storicamente determinate di conflitto imperialista e inter-imperialista. Comporta, come vedremo, l’abbandono della “guerra di massa”, la sospensione della guerra interstatuale diretta, e l’assunzione di strategie militari adeguate al nuovo contesto economico e politico mondiale. Accenniamo qui soltanto questo: la nuova forma-guerra che si afferma nella fase del dominio del capitale “transnazionale” e della formazione del mercato “globale” non implica alcun consenso politico attivo delle masse nazionali nei paesi imperialisti. La borghesia transnazionale, per realizzare in forma violenta i propri interessi di dominio imperialista contro le frazioni dominanti concorrenti e a danno dei paesi dominati, non necessita di alcun consenso politico della popolazione. La democrazia può essere sospesa, in quanto superflua e di ostacolo ai ritmi iper-accelerati del mercato “globale”.

Alle trasformazioni delle funzioni economiche e sociali dello Sato corrispondono, quindi, determinate forme di governo della popolazione: corrisponde l’esclusione delle classi subordinate dalla dimensione del “politico”, la fine del paradigma socialdemocratico fondato sull’ottenimento del consenso politico di vasti strati delle masse subalterne, sostituito da un paradigma repressivo, che si manifesta nella generale recrudescenza della repressione e del controllo, nella tendenza alla militarizzazione sicurtiva dei territori e delle metropoli, nella sospensione della democrazia e nel progressivo disfacimento di tutti i diritti politici e sociali.

L’imperialismo muta storicamente, e con esso muta lo stato delle contraddizioni inter-imperialistiche. Al mutare del momento economico dell’imperialismo muta anche il suo momento politico; al mutare delle forme del dominio del capitale monopolistico finanziario, mutano anche il rapporto tra questo capitale e lo Stato, le forme della spartizione economica del mondo, le forme della spartizione politica e della guerra. Non un imperialismo, dunque, ma molti imperialismi, ovvero molte fasi dello stesso fenomeno. L’ultima delle quali, la più recente, può essere definita come fase “globale” dell’imperialismo – fase caratterizzata dal dominio del capitale transnazionale e dalla formazione del mercato “globale”, che si realizza e matura pienamente negli anni Novanta, come fase della “globalizzazione”, ovvero nuova espansione globale dell’imperialismo, ma che ha le sue origini in un lungo processo storico che risale almeno agli anni ’70 del Novecento, e forse ancor prima, nel secondo dopoguerra. La contraddizione forse più caratteristica di questa fase è quella che si dà in seno al rapporto tra Stati imperialisti e capitale finanziario transazionale, come contraddizione tra il carattere sovranazionale di quest’ultimo e il riferimento ancora nazionale dell’altro, ovvero tra la borghesia imperialista transazionale e lo Stato-nazione. Questa contraddizione produce una frattura profonda, quando non anche irreversibile, tra Stato e popolazione, e l’esclusione delle classi subalterne dalla sfera dei diritti sociali e politici.

In questa fase lo Stato non è semplicemente superato nella governance degli organismi sovranazionali, ma superato e mantenuto in essa: esso è uno dei due termini della contraddizione del mercato “globale”. In quanto tale,la conquista del potere politico, seppur non può assumere in questa contraddizione immediatamente la forma della conquista dello Stato, può ancora realmente agognare ad essa, in un progetto di rottura internazionale della catena imperialista, restando l’istanza strategica ultima della lotta di classe.

 

5. È necessario ora soffermarsi su un dato politico fondamentale, al fine di approfondire, a partire da esso, alcuni punti analitici nodali fin qui soltanto accennati. Il dato in questione è il seguente: si produce, in questa fase, nel polo imperialista europeo, una frattura inedita tra la borghesia imperialista europea e le classi subordinate e sfruttate, ovvero tra lo Stato imperialista, subordinato di necessità agli interessi del capitale monopolistico finanziario, e la “nazione”. QQ”QQuesta frattura, inoltre, è tanto più evidente, se non anche irreversibile, all’interno dei paesi strutturalmente meno progrediti e competitivi, nonché, quindi, maggiormente colpiti dalla crisi (ovvero dalle politiche tedesche di gestione della crisi), e quindi in posizione dominata e “periferica” all’interno del polo imperialista europeo (con ripercussioni gravi sulle condizioni di vita e di esistenza dei proletariati nazionali). In questi paesi la partita politica della borghesia imperialista europea si gioca sempre meno intorno al consenso, peraltro sempre più incerto, delle masse subordinate e sfruttate, e sempre più intorno a quello delle classi medie e piccolo borghesi, mentre le destre nazionaliste cavalcano l’onda di un dissenso assai diffuso: si tratta innanzitutto dei paesi dell’est Europa, i veri e propri “domini interni” della catena imperialista europea, ma anche, o almeno in parte, dei paesi PIIGS.

All’interno di questa frattura va oggi declinata una strategia di disgregazione del polo imperialista europeo e di compattazione di un fronte antimperialista sull’onda del dissenso diffuso soprattutto (ma non solo, si pensi al proletariato arabo e maghrebino emarginato nelle periferie delle metropoli francesi) negli anelli “deboli” della catena, e strappando questo dissenso all’orizzonte ideologico e politico dei nazionalismi locali e al rischio di una “guerra tra poveri” dai caratteri marcatamente “islamofobi”.

Almeno da un paio di decenni le classi dirigenti degli Stati imperialisti rinunciano a strategie di consenso delle masse subordinate e sfruttate, smantellando progressivamente le istituzioni della democrazia rappresentativa e gli apparati di welfare, in quanto non necessari per conservare il monopolio del potere, e anzi ostativi rispetto ai ritmi del capitalismo globale e alle esigenze del capitale monopolistico finanziario. La rinuncia al consenso delle masse e la sospensione della democrazia, sono l’espressione di un nuovo modello di governo della popolazione che va affermandosi dagli anni ’90. Come sappiamo, il 1989 segna una frattura storica fondamentale. Con la dissoluzione del blocco sovietico inizia per i paesi del blocco euro-atlantico una fase di rinnovata espansione e spartizione del mondo, condotta sotto l’egida del capitale finanziario transnazionale di provenienza, soprattutto, europea e statunitense. Si generalizza in questa fase un nuovo modo di fare la guerra, che viene definito dall’ideologia dominante “operazione internazionale di polizia”. Di che si tratta e in cosa differisce dalla forma tradizionale della guerra imperialista cui il Novecento ci aveva abituati?

Già nei primi anni Ottanta del secolo scorso, G. Pala pubblicava un’opera importante, nella quale si analizzavano le recenti tendenze di sviluppo del capitalismo mondiale e le forme che in esso sviluppo andavano assumendo gli Stati[30]. Nell’analizzare la più recente fase di sviluppo dell’imperialismo, coincidente, secondo Pala, con l’imporsi della forma transazionale del capitale finanziario, l’economista rimarcava due processi generali, tra di essi opposti e complementari, di sussunzione formale dello Stato-nazione sotto il capitale transnazionale. Questi processi sono l’aggregazione sovranazionale degli Stati imperialisti o dominanti e la disgregazione degli Stati dominati. In entrambi lo Stato-nazione cui ci aveva abituati il Novecento cambia la sua forma, modificando le proprie funzioni e configurando un nuovo e diverso rapporto di dominio tra le classi. Né lo Stato “dominante”, che Pala descriveva più di un ventennio fa, era lo Stato-nazione imperialista di tipo tradizionale che avevamo conosciuto tra le due guerre mondiali, dietro il quale agivano monopoli nazionali, e che si era affermato per quasi un secolo come Stato sociale, bisognoso del consenso delle masse; né lo Stato “dominato” era il semplice Stato coloniale o semicoloniale, subordinato al dominio economico e, nel primo caso, anche politico dell’imperialismo straniero: «se nella prima forma, quella dominante, la tendenza è all’aggregazione sovranazionale di figure e funzioni prima distinte, al fine di organizzare meglio l’apparato di supporto delle forze “interne” (economiche, politiche e militari); nella seconda forma, quella dominata, la tendenza è alla disgregazione delle vecchie formazioni nazionali, verso un ritorno in chiave moderna e subalterna alle autonomie sub-nazionali e regionali, territoriali ed etnico-religiose. La conseguenza di ciò è l’ulteriore lacerazione sociale interna e il dissolvimento di quei vecchi stati nazionali, a favore di un più facile controllo da parte di super-stati a base imperialistica transnazionale»[31]. Il capitale transnazionale, in quanto soggetto economico dell’imperialismo, soggetto degli interessi reali della guerra, spingeva, e si potrebbe dire spinge tuttora, alla sussunzione formale degli Stati, tanto i dominanti quanto i dominati, poiché entrambi subordinati agli interessi di esso capitale, contribuendo, quindi, a configurare un nuovo modo di esercizio della razionalità politica degli Stati imperialisti, cui corrispondeva un modo inedito di condurre la guerra e il dominio imperialista negli Stati dominati. Con ciò Pala non affermava affatto che lo Stato imperialista, in quanto entità autonoma, avrebbe cessato di esistere. Ma semplicemente che esso si affermava in una nuova forma, in un nuovo modo di condurre la guerra e il dominio imperialisti, e quindi di trarre sovrapprofitti per le proprie frazioni nazionali di borghesia transnazionale dai paesi subordinati. Da un lato, dunque, Pala individuava già in germe una tendenza all’aggregazione sovranazionale degli Stati imperialisti di vecchia industrializzazione, il cui sviluppo particolare avrebbe portato, anni dopo, alla configurazione di un polo imperialista europeo. Dall’altro avvertiva che gli Stati dominati differivano dagli antichi Stati coloniali esattamente in ciò che segue: a differenza dei vecchi Stati coloniali, la cui costituzione istituzionale fu, talvolta, forzata dagli stessi Stati imperialisti per facilitarne l’amministrazione entro confini nazionali riconosciuti e circoscritti, gli Stati dominati non sono più entità istituzionali autonome, in quanto il dominio imperialista si innesta su un processo di disgregazione istituzionale, politica e sociale degli stessi. Si tratta insomma di Stati senza stato. La disgregazione degli apparati istituzionali e del tessuto sociale della nazione favorisce senz’altro gli interessi trasversali dei paesi occupanti, che possono più facilmente gestire la transizione dei paesi occupati al capitalismo, senza eccessivi sforzi bellici ed economici, e spartendosi economicamente il bottino in una coalizione imperialista aggregata. La disgregazione dei paesi occupati comporta uno stato di instabilità permanente cui la strategia imperialista risponde con l’occupazione concertata e altrettanto permanente dei territori (neo)colonizzati. C’è da dire che questo processo di disgregazione sociale, politica e istituzionale degli Stati dominati avveniva sulla scia del “ciclone delle contraddizioni interimperialistiche” che si abbatteva, una dopo l’altra, sulle regioni oggetto della contesa imperialista. Era un modo di condurre la guerra inter-imperialista che si affermava durante gli ultimi decenni del Novecento non solo tra i due blocchi (sovietico e occidentale), per l’egemonia su aree e regioni d’interesse geopolitico e geostrategico particolare, ma anche all’interno dello stesso blocco euro-nippo-statunitense, per l’affermazione d’interessi particolari e divergenti tra i tre imperialismi a base tedesco-europea, nipponica e statunitense. Questo modo di farsi la guerra si sarebbe generalizzato negli anni Novanta: si tratta di conflitti in campo neutro, per “interposta persona” o cosiddetti di “debole intensità”[32].

Dopo la faticosa gestione della crisi mondiale dei primi anni ‘70, anche per far fronte alla competizione del blocco sovietico, s’impone per gli Stati imperialisti occidentali la necessità di una ristrutturazione degli assetti proprietari, produttivi e finanziari su scala mondiale, e, con essa, quella di una rinnovata espansione verso l’esterno, nei termini della capitalistizzazione delle economie dei paesi del c.d. “Terzo mondo” e quindi della proletarizzazione di forza-lavoro a basso costo e facilmente comandabile, giacché priva di diritti sociali e politici. Era il progetto del “nuovo ordine economico mondiale”, così come fu delineato programmaticamente in un primo significativo documento dell’imperialismo transnazionale: il piano Kissinger (1974-75). In quella fase, la contesa bellica tra blocco capitalistico e blocco sovietico si svolgeva in forma indiretta, spesso tramite “terzi”, nei paesi contesi dalle mire espansionistiche dei due blocchi, e nella forma di “conflitti per interposta persona”. D’altra parte, dissidenze di tipo etnico, religioso e politico erano fomentate e finanziate dalle potenze rivali, al fine di disgregare il tessuto sociale e istituzionale interno, minando alle radici la stabilità dello Stato e l’unità della nazione, e procedendo all’occupazione del territorio, funzionale al mantenimento strategico del dominio e alla transizione del paese a un regime capitalistico. Ciò nondimeno, la guerra tra i due blocchi era dichiarata e permanente, e coinvolgeva inevitabilmente le popolazioni degli Stati contendenti. Sin dal primo conflitto mondiale s’impose agli Stati imperialisti la necessità di ottenere il consenso attivo delle masse subordinate: era il proletariato a fornire l’esercito di lavoratori e soldati di cui le potenze imperialiste abbisognavano per condurre la guerra di massa; ed era il loro consenso che permetteva ancora alle classi dominanti di mobilitare, in caso di necessità, l’intera popolazione in un regime eccezionale di produzione/reclutamento di massa, e scaricare sulle classi dominate i sacrifici che la guerra imponeva. Ora, finché ci fu la “guerra fredda” e, finché nel suo contesto si svilupparono forme acute di lotta di classe all’interno dei paesi imperialisti occidentali, e, in particolare in alcuni paesi dell’Europa, gli Stati capitalistici europei dovettero assicurarsi il consenso delle masse, mantenendo e ampliando con ulteriori garanzie e concessioni un modello sociale inclusivo che, non a caso, si era sviluppato proprio tra le due guerre inter-imperialiste, ad esempio col piano Beveridge e con la politica rooseveltiana. Era questa l’epoca del welfare state, dello Stato sociale, e della legittimazione politica delle classi subordinate e sfruttate nei paesi imperialisti. Era l’epoca in cui rappresentare politicamente queste classi e canalizzarne le spinte antagoniste e gli interessi, ovvero deviare gli uni e gli altri in direzione riformista ed economicista, diveniva questione strategica fondamentale per la borghesia, al fine di preservare intatto il monopolio del potere politico. Sicché, al modo interstatuale della guerra imperialista, non attuale ma potenziale per tutta la fase della “guerra fredda”, quindi a un determinato modo di condurre la guerra “esterna” contro il nemico politico di fase (l’Unione Sovietica), corrispondeva una determinata razionalità politica del potere, e quindi un modo determinato di condurre la guerra “interna” contro il nemico di classe. In quel quadro trovavano senso e contesto la strategia socialdemocratica e la tendenza alla c.d.“monetarizzazione del conflitto”[33].

Negli anni ’90, invece, l’espansione dell’imperialismo occidentale si fa sfrenata e irrefrenabile. In questo secolo le tendenze succitate all’aggregazione degli Stati dominanti e alla disgregazione di quelli dominati si generalizzano e si realizzano pienamente al servizio dell’espansione imperialista. Il sostrato economico di queste tendenze è la forma transnazionale del capitale monopolistico finanziario e le relazioni economiche tra Stati imperialisti che esso capitale determina: come abbiamo già spiegato, alle tradizionali contraddizioni inter-imperialistiche “verticali” si aggiungono contraddizioni (e co-interessenze) “orizzontali” che attraversano trasversalmente gli Stati imperialisti. Sicché proprio il permanere delle contraddizioni verticali tradizionali in quelle orizzontali implica il mantenimento di conflittualità e contraddizioni tra Stati imperialisti, ovvero tra frazioni nazionali dominanti della borghesia imperialista transnazionale – conflittualità che vengono, certo, mediate dagli organismi sovranazionali del capitale transnazionale e dagli interessi trasversali, pur non trascurabili, che uniscono gli Stati aggregati (nel polo europeo, e, in prospettiva macro, nel blocco euro-atlantico, che, per quanto internamente contraddittorio e conflittuale, resta pur sempre compatto di fronte alla rivalità dei giovani imperialismi russo e cinese), ma che talvolta raggiungono livelli tali di contraddizione da spingere alla contesa violenta, seppure in forma indiretta, sul terreno “neutro” delle regioni di interesse. Le contraddizioni inter-imperialistiche tra paesi imperialisti sussistono, quindi, sin dagli anni ’90, accompagnando tutta la fase dell’espansione globale dell’imperialismo, e sono il segno della crisi irrisolta del capitalismo maturo e putrescente di questi paesi. Esse, già negli anni ’90, si risolvono in forma violenta in conflitti “per interposta persona”. Così scriveva ancora Pala nel 1995:

 

«I casi estremi, allora, sfociano in conflitti armati circoscritti, cosiddetti di debole intensità. Esemplare, da decenni, è lo snodo del golfo persico, tra confine ex-sovietico, medioriente e questione israelo-palestinese, con capovolgimenti di fronte e di alleanze, attraverso Egitto, Siria, Giordania, e ancora prima la “guerra delle città” Iran-Irak, poi Irak-Kuwait, sempre palestinesi e kurdi, ancora Irak-Iran, e così via, fino al “cerchio del Caucaso”. Il rimescolamento delle alleanze e degli schieramenti è continuo, con il solo fine di rendere più “de­bole” non già il conflitto ma l’avversario di turno.

I contendenti in campo (i subalterni, soprattutto) appaiono solo come simulacri dei veri protagonisti del­lo scontro: laddove chi dice Baghdad vuole solo che Bonn o Tokyo intendano, e dove quindi gli “alleati” uffi­ciali sono sovente i nemici veri. E qualora un confronto diretto non sia reputato opportuno e conveniente, l’e­sperimento “libanese” può essere riproposto come soluzione di transizione: di ciò si tratta nella replica jugosla­va di quell’esperimento. Nell’attesa di tempi più consoni per la ripresa del ciclo di accumulazione del capitale su scala mondiale, i simulacri offerti da razze, etnie, nazionalità, religioni, sono pezzi di ideologia bell’e pronti per scatenare conflittualità sanguinose in nome delle diverse appartenenze fideistiche e integralistiche»[34].

Questo è un primo dato da considerare: le contraddizioni inter-imperialistiche esplodono, nell’ultima fase di espansione imperialista, in guerre locali, interne alle regioni dominate o agognate, per interposta persona, come conflitti di c.d. “debole intensità”, in una rete di cointeressenze e conflittualità diffuse più o meno trasversalmente ai paesi imperialisti.

Una seconda caratteristica del modo di fare la guerra, che, come abbiamo detto, insieme a quella succitata e in modo complementare ad essa, è teorizzata già durante la prima fase “transnazionale” dell’imperialismo, ancora in piena “guerra fredda”, ovvero tra la seconda metà degli anni ’70 e il fatidico ’89, entro la più generale strategia di ristrutturazione economica del capitalismo su scala mondiale, consiste nell’occupazione permanente dei territori ai fini della transizione governata dell’economia locale al capitalismo, subordinatamente agli interessi delle potenze imperialiste occupanti. L’inconsistenza militare e il peso politico ed economico poco rilevante dei paesi dominati permettono il dispiegarsi di strategie di disgregazione interna delle regioni contese dagli interessi imperialistici, strategie peraltro funzionali alla conduzione della guerra come “operazione di polizia internazionale”, o, nei fatti, subordinazione dei paesi non ancora allineati ai dettami degli organismi sovranazionali del capitale finanziario transnazionale, coordinata e concertata da questi stessi organismi. Il modulo strategico della guerra come “operazione di polizia internazionale” facilita innanzitutto l’accettazione ideologica della guerra da parte delle popolazioni occidentali – si tratta, nella forma ideologica mistificata trasmessa dai media e dai governi occidentali, di “guerre umanitarie”, “missioni per la democrazia”, “operazioni di rappacificazione” in territori dilaniati da guerre civili di natura prevalentemente etnica e/o religiosa. Ma l’occupazione permanente e il controllo “poliziesco” dei territori dominati – modalità di intervento prevista da questo genere di operazioni – con il dominio politico indiretto che essa comporta, deve permettere soprattutto la transizione dell’economia locale a un regime di produzione capitalista, e quindi l’organizzazione produttiva di queste stesse regioni nell’ambito della divisione internazionale del lavoro, con tutti i profitti e i sovrapprofitti che questo comporta per i gruppi monopolistici finanziari degli Stati imperialisti mediante gli ingenti prestiti da questi concessi e i massicci investimenti produttivi localizzati laddove la forza-lavoro è meno costosa, senza diritti sociali e politici, e quindi più facilmente addomesticabile o addomesticata. Ciò che caratterizza, infatti, questa modalità peculiare di condurre la guerra nei paesi subordinati e contesi dalle mire imperialiste è l’illegittimità politica delle popolazioni dei territori occupati: a queste, per dirla in breve, sono negati i diritti sociali e politici e politici più elementari, ma soprattutto è negata ogni sorta di rappresentanza politica.

Elemento di grande importanza è che questa forma-guerra che va affermandosi nella fase “transnazionale” dell’imperialismo – la forma del conflitto di “debole intensità” e quella dell’“operazione di polizia internazionale”, che altro non sono, nei fatti, se non due prospettive diverse di considerare lo stesso fenomeno – non necessita del coinvolgimento politico e materiale, e talvolta neppure ideologico, delle popolazioni dei paesi imperialisti. Dagli anni Novanta la guerra è un problema “tecnico”,esclusivo di capi di Stato e specialisti, condotta con l’ausilio di droni e di milizie locali dei paesi dominati. Essa non può, né deve coinvolgere le popolazioni dei paesi imperialisti. Si produce in questa fase un bipolarismo tra paesi dominanti e paesi dominati, la cui costituzione prevede che le popolazioni dei paesi dominanti godano dei frutti, ancorché marginali, dei sovrapprofitti tratti dallo sfruttamento delle popolazioni dei paesi dominati, e, soprattutto, che le prime vivano in una dimensione di “quiete” sicurtiva, all’interno della quale la guerra può forse colpire nella forma dell’attentato “terroristico”, ma la risposta all’emergenza sarà la “normalizzazione” sicurtiva di uno stato d’eccezione, dove l’eccezione è la regola, e la messa in sicurezza del territorio si realizza mediante l’emanazione di leggi speciali, la recrudescenza dell’apparato repressivo, la militarizzazione sempre più capillare dei territori e dei siti a rischio, la chiusura e il controllo militare delle frontiere di mare e di terra– il tutto infarcito e fatto ingoiare da un clima di terrore verso il “nemico” esterno, di ideologia razziale e di preoccupazione nazionalistica, favorito dalle destre conservatrici. Il mantenimento di questo “nuovo ordine bipolare” è il sostrato reale del mistificante e mistificato “scontro tra civiltà”.

La guerra imperialista, come guerra condotta verso l’“esterno” del blocco dominante, viene di norma tenuta lontano dai problemi delle popolazioni dei paesi di questo blocco, nascosta, talvolta malamente, ai loro occhi; e quando essa fa la sua apparizione è soltanto in modo funzionale all’inasprimento degli apparati di disciplinamento, repressione e controllo che rendono il dominio sulle classi popolari e subordinate sempre più feroce e senza possibilità di dissenso. Le popolazioni dei paesi dominati, invece, vivono in un regime di guerra permanente. Esso preserva e acuisce le disuguaglianze, la miseria, i conflitti, donde i flussi migratori continuativi che partono dai paesi del blocco dominato verso quelli del blocco dominante. E così un’altra guerra arriva nei paesi imperialisti: la guerra tra poveri. La pressione di questo “esercito migrante di riserva” sulla forza-lavoro autoctona è spesso funzionale alle strategie del polo imperialista europeo di precarizzazione e compressione salariale, soprattutto allorquando si tratta di forza-lavoro qualificata o mediamente istruita, e disponibile per l’impiego in settori di media formazione. Ad ogni modo, ciò a cui assistiamo da circa un ventennio è il livellamento su standard globali nei paesi imperialisti delle condizioni lavorative e di esistenza della forza-lavoro autoctona, sul modello del lavoratore migrante precario e senza diritti. La messa in campo di queste strategie di precarizzazione/compressione salariale della forza-lavoro autoctona passa, da un lato, per la “passivizzazione” dei soggetti sociali produttivi, il cui potere contrattuale è radicalmente minato dal disfacimento di ogni residua rigidità contrattuale e dal conseguente inasprimento della concorrenza tra forza-lavoro "precarizzata" nella forma di “tutti contro tutti”, dall’altro, per la loro “delegittimazione” politica, ovvero per l’annichilimento di tali soggetti come soggetti aventi legittimità politica e rappresentanza di tal sorta. Simili strategie sono di certo funzionali alle esigenze di maggiore competitività su scala mondiale del capitale di base europea e di sostegno all’accumulazione e ai profitti. Si delinea così una tendenza all’omologazione delle condizioni lavorative e di esistenza della forza-lavoro autoctona e di quella migrante nei paesi imperialisti, o meglio alla “globalizzazione a ribasso” delle stesse, alla luce della quale è doveroso rimarcare come il capitale operi già da sé una ricomposizione oggettiva della classe sul piano internazionale, ponendo così le condizioni, ancora oggettive, per una rottura internazionale della catena imperialista. Così l’internazionalismo della rivoluzione proletaria si fa possibilità reale, ma non ancora concreta. Perché tale possibilità si concretizzi, essa presuppone una classe in sé e per sé organizzata. Presuppone le condizioni soggettive e organizzative di simile rottura. Dunque la ricomposizione politica della classe.

È inoltre da specificare che in una simile tendenza “globalizzante” delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato internazionale permangono, pur sempre, divergenze anche profonde tra i proletariati nazionali dei paesi imperialisti, tra i proletariati di questi paesi e quelli dei paesi emergenti, e, infine, tra quelli dei paesi dominanti e quelli dei paesi dominati, le quali differenze dipendono tanto dallo sviluppo ineguale della struttura produttiva, quanto, e in maniera complementare a quest’ultima condizione, dalle diverse posizioni di dominio (mercantile, finanziario, monetario, politico) che tali paesi mantengono; donde una diversa redistribuzione del plusvalore appropriato per maggiore competitività nel mercato mondiale e mediante strumenti, innanzitutto finanziari, di dominio imperialista, a danno dei paesi dominati e di quelli concorrenti. Così si avranno differenze notevoli tra le condizioni del proletariato tedesco e quelle dei proletariati dei paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi del 2008, i c.d. PIIGS. Questi ultimi, piuttosto, divengono paesi dominati nel centro dell’imperialismo; ovvero paesi imperialisti egemonizzati dai paesi forti della catena imperialista europea, Germania in testa. Sono questi gli “anelli deboli” della catena imperialista. In essi la frattura tra Stato e popolazione è irreversibile, e inattuabile si fa la costituzione di un blocco egemonico borghese imperialista. Insomma, in questi paesi, più che altrove l’imperialismo europeo è una minaccia per le classi subordinate e sfruttate, e non di certo una possibilità “opportunistica” (nel senso leniniano) di miglioramento delle proprie condizioni di vita. In questi paesi la crisi si traduce in guerra permanente contro le classi subordinate e sfruttate, e la lotta di classe, più che altrove in occidente, può riorganizzarsi in maniera capillare e decisa. Ma non per la riconquista della perduta sovranità nazionale, né per la restaurazione della democrazia rappresentativa. Queste sono istanze che interessano la destra nazionalista e le piccole borghesie reazionarie di ogni sorta, non il proletariato. In questi paesi va piuttosto elaborata e messa in campo una strategia di conquista del potere politico che tenga conto delle profonde trasformazioni di contesto avvenute durante la più recente fase dell’imperialismo.

 

6. Il nodo teorico decisivo, per l’elaborazione di una strategia politica adeguata all’attuale fase imperialista, delle trasformazioni che avvengono in seno alle relazioni inter-imperialistiche e al modo di condurre la guerra è il diverso rapporto tra le classi che esse trasformazioni comportano, o, se non altro, rendono possibile nei paesi imperialisti. Questo diverso rapporto si traduce in un particolare modo di governo della popolazione e della forza-lavoro da parte delle classi dirigenti.
Decisiva, in questo rapporto, è l’esclusione delle masse subordinate e sfruttate dalla dimensione propria del “politico”. In altri termini, si assiste nei paesi imperialisti, alla “delegittimazione” politica dei soggetti sociali subordinati, alla generalizzazione di una condizione simile a quella delle popolazioni coloniali subordinate al dominio imperialista[35]. Il proletariato dei paesi imperialisti non ha diritto ad alcun riconoscimento politico da parte delle classi dirigenti: lo “Stato rappresentativo e sociale” sopperisce dinanzi al rafforzamento giuridico e militare dello “Stato esecutivo di polizia”. A un modello sociale inclusivo, qual era quello novecentesco dello Stato sociale, complementare al paradigma della “guerra di massa” e a quello della “guerra fredda”, si sostituisce un modello di “esclusione” politica e “marginalità” sociale delle classi subordinate e sfruttate, cui corrisponde, invece, la forma-guerra del conflitto di “debole intensità” e dell’“operazione di polizia internazionale”. Se ancora durante tutta la “guerra fredda” era necessario per le borghesie imperialiste ottenere e mantenere il consenso attivo dei propri proletariati nazionali, consenso conseguito anche e soprattutto con forme borghesi di rappresentanza politica e sindacale degli interessi di classe, la fase imperialista “globale” che si manifesta compiutamente negli anni Novanta permette e richiede l’affermazione di un modo di fare la guerra che, come abbiamo visto, coinvolge tecnici militari e politici, non di certo le popolazioni (non nei paesi del blocco dominante). Il consenso della popolazione si fa superfluo al dominio imperialista. Esso è quindi percepito come un’inutile “zavorra” per l’economia nazionale. Qui il nesso tra “guerra esterna” e “guerra interna” spiega il contesto storico concreto in cui ci ha immerso la fase dell’espansione globale dell’imperialismo transnazionale.

D’altro canto, proprio durante gli anni Novanta, l’espansione senza freni del capitale transnazionale e la costituzione del mercato “globale”imponevano ai paesi del nascente polo imperialista europeo la realizzazione di forme di governo della forza-lavoro finalizzate al sostegno dell’accumulazione e dei profitti, a favore degli investimenti produttivi e tecnologici e di una maggiore competitività nel mercato mondiale. Di qui tutta una lunga serie di riforme “strutturali” tese allo smantellamento del welfare, alla destrutturazione delle rigidità contrattuali, al disfacimento della democrazia parlamentare, alla compressione dei salari in forma diretta, indiretta e differita. Di qui l’inizio di una “guerra interna”, dichiarata e malcelata, alle condizioni di vita e di esistenza delle classi lavoratrici nei paesi imperialisti. E la costituzione del polo imperialista europeo risponde al nuovo stato di guerra interna ed esterna delle potenze imperialiste europee.

Da più di un ventennio ormai, si procede alla svalutazione coatta della forza-lavoro, tramite strategie di precarizzazione del mercato del lavoro, estensione dell’esercito industriale di riserva, compressione salariale, annichilimento del potere contrattuale dei lavoratori, e, in maniera indiretta, tramite l’estensione dei mercati locali mediante privatizzazione dei servizi un tempo pubblici e aumento dell’imposizione fiscale sulle masse. Provvedimenti di tal sorta sono stati imposti massicciamente a partire dall’ultima fase della crisi a Stati dove ancora permanevano non poche rigidità di vecchio tipo, ma le riforme “strutturali” che questa fase ha imposto hanno le loro radici in processi più che ventennali. Queste strategie, come abbiamo detto, si accompagnano e, per certi versi, favoriscono uno stato di “passivizzazione” delle classi subordinate, già sancito da un modello governamentale di esclusione politica e marginalità sociale delle masse lavoratrici. È su questi processi che bisogna oggi riflettere, opponendo movimenti antagonisti e campagne di propaganda-agitazione in grado di ricomporre la classe disgregata e marginalizzata mediante le strategie europee. Sono questi i fenomeni della “guerra interna” che i proletariati dei paesi imperialisti vivono sulla propria pelle quotidianamente. Se c’è una guerra che li coinvolge, se c’è una guerra al cospetto della quale essi non potranno in alcun modo essere indifferenti, questa è la guerra che da decenni le classi dirigenti degli Stati imperialisti europei muovono ai loro danni. È su questa faccia della medaglia che bisogna concentrare i nostri sforzi politici, senza ovviamente perdere di vista l’altra faccia, quella complementare della “guerra esterna”.

Si sente tanto parlare negli ultimi mesi di un’accelerazione della tendenza alla guerra inter-imperialista, come risultato inevitabile di una competizione sempre più feroce tra le potenze imperialiste. Ed è innegabile che in questa fase di crisi pluridecennale e sistemica del capitalismo mondiale, e soprattutto dopo l’ultima fase di questa crisi, iniziata nel 2008, la competizione inter-imperialista si fa sempre più acuta e violenta, scalzando progressivamente la tendenza alla concertazione che pure, ancora, sussiste come modalità tattica della politica delle potenze del vecchio (e putrescente) blocco imperialista euro-statunitense, soprattutto quando si tratta di far fronte comune al vigoroso e temibile confronto con le potenze imperialiste emergenti russa e cinese[36]. Ciò nondimeno bisogna considerare la tendenza alla guerra inter-imperialista nel contesto concreto del nesso tra “guerra interna” e “guerra esterna”, e delle forme che la guerra imperialista assume in questa fase. La tendenza alla guerra inter-imperialista si realizza da tempo nella forma dei conflitti di “debole intensità”, cioè di conflitti dislocati nelle aree periferiche del mondo per il loro dominio. QQQui si abbatte violentemente il “ciclone delle contraddizioni inter-imperialiste”. E finché la guerra tra potenze imperialiste avviene in queste forme, essa non tange, in quanto non coinvolge materialmente, né politicamente, le popolazioni dei paesi imperialisti, le cui classi subordinate, soprattutto negli anelli deboli della catena imperialista, sono bersaglio di un’altra guerra, non altrettanto feroce ma capace di produrre un dissenso profondo, minando alle radici le condizioni di esistenza e di vita di queste classi. Quindi, dobbiamo supporre che quando si parla di tendenza alla guerra, elaborando intorno ad essa strategie di propaganda-agitazione, parole d’ordine, campagne politiche, si intenda parlare oggi un altro tipo di guerra, una guerra inter-imperialista diretta, l’unica che possa coinvolgere, oggi, le popolazioni dei paesi imperialisti direttamente e attivamente, ovvero dal punto di vista politico e materiale, e non meramente ideologico (ed è questo il punto centrale della questione). Certo, si dirà, c’è stato il 13 novembre, e pochi mesi dopo di esso c’è stato il 22 marzo di Bruxelles. Questi eventi dimostrano che la guerra colpisce le metropoli dell’Europa imperialista, e che la società del controllo sicurtivo lascia ampi margini di manovra e agibilità militare radicalmente altra e antagonista, per quanto terribile e fanatica. Essi segnano profondamente l’immaginario collettivo delle popolazioni occidentali, la percezione che queste hanno della loro “sicurezza”. Ma la domanda centrale dopo Parigi e Bruxelles non è se siano possibili altri eventi analoghi, né soltanto se essi abbiano potuto modificare la percezione che le popolazioni occidentali hanno della guerra; ma come questi eventi sono e saranno assorbiti dalle tecnologie sicurtive “normalizzanti” delle metropoli imperialiste. E queste tecnologie dispongono di dispositivi di controllo (individuale e di massa), di militarizzazione (tanto delle frontiere di mare e di terra, quanto dei territori metropolitani), di disciplinamento (anche delle coscienze), il cui fine è la “normalizzazione” di uno stato di eccezione nell’apparenza di una ristabilita sicurezza della popolazione in un territorio capillarmente amministrato e sotto controllo militare. Si dirà che le classi dirigenti degli Stati imperialisti occidentali cavalcano l’onda del consenso ideologico delle popolazioni autoctone per condurre nuove guerre di dominio nei paesi dell’islam, e che è nostro compito politico quello di sottrarre le masse a quest’orizzonte di propaganda. È vero, così come, tuttavia, è vero anche che gli Stati imperialisti per condurre le loro guerre di dominio da decenni non hanno per niente bisogno, come già spiegato, del consenso politicomateriale delle masse. E quest’ultimo è l’unico tipo di consenso che conti realmente. Giusto, quindi, organizzare la lotta ideologica; purché tuttavia essa non sia mera lotta di idee. E perché sia lotta politica, le campagne contro la guerra oggi messe in campo sono insufficienti, se non del tutto inadeguate. Esse, nella migliore delle ipotesi, possono produrre un dissenso ideologico delle masse rispetto alla guerra imperialista, come già d’altronde produssero sull’onda dell’alter-mondialismo durante gli anni Novanta, un dissenso non dissimile da quello messo in campo da ogni sorta di pacifismo cattolico o piccolo-borghese. Ma perché abbiano presa efficace sulle masse esse presuppongono, nondimeno, una coscienza politica già sviluppata o, peggio, un moralismo sensibile ai temi della violenza imperialista. L’uno e l’altro condizioni ben distanti dall’individualismo indifferente di un proletariato annichilito da condizioni materiali di sfruttamento selvaggio e precarietà. D’altra parte, la posta in gioco della ricomposizione di classe è l’organizzazione delle masse nella guerra contro il capitale. Una simile organizzazione può darsi solo rispondendo in maniera organizzata e ideologicamente compatta all’organizzazione capitalistica e ideologica della “guerra interna”, e declinando in questa direzione campagne nazionali di propaganda-agitazione sui temi di più scottante e immediata attualità per la classe.

Da decenni alla crisi sistemica dell’imperialismo e alla caduta del saggio di profitto si sono opposte controtendenze cui in parte abbiamo già accennato e che possiamo così parzialmente schematizzare: svalutazione della forza-lavoro autoctona; accaparramento diretto (mediante sfruttamento e coercizione) e indiretto (mediante strumenti finanziari) di plusvalore prodotto nei paesi dominati; sviluppo tecnologico finalizzato alla crescita della competitività nel mercato mondiale; distruzione/svalutazione di capitale eccedente localizzata in aree periferiche del mondo; liberalizzazione dei mercati finanziari a favore della speculazione borsistica e monetaria (la cosiddetta “finanziarizzazione” dell’economia); ecc. Ora, è di certo possibile, che queste controtendenze non abbiano fatto altro che rimandare, e acuire, uno scontro inevitabile tra potenze imperialiste, e che esse non siano più sufficienti a impedire, nel medio (?), lungo (?) periodo, una guerra interstatuale diretta tra potenze imperialiste, per far fronte alle contraddizioni insanabili del capitalismo mondiale, alla competizione delle potenze emergenti (che già ora spingono per liberarsi dal giogo di restrizioni imposte dagli imperialismi di vecchia data), e all’eccedenza di capitale in tutte le sue forme che impedisce una ripresa sostanziale dell’economia capitalistica. Ma essa tendenza resta attualmente una realtà ancora troppo distante dalle masse. O, se non altro, non sufficientemente prossima ad esse. La lungimiranza dello sguardo analitico che coglie la tendenza alla guerra interstatuale, come realtà inevitabile, non può fornirci il nodo politico di una declinazione tattica dell’obiettivo imprescindibile della ricomposizione di classe; essa al più ci fornisce una prospettiva potenziale di rottura radicale della catena imperialista europea, dettandoci la necessità attuale dell’organizzazione di una lotta rivoluzionaria che può essere tanto più efficace, come insegna Lenin, proprio in fasi di guerra diretta tra potenze imperialiste. Ma simile organizzazione non può declinarsi tatticamente in prospettiva di tale tendenza, bensì partire dal contesto storico-sociale attuale in cui è immerso il nostro proletariato. E questo contesto, come abbiamo già detto, prevede la conduzione di una guerra permanente al proletariato autoctono, che presuppone un modello governamentale di esclusione e delegittimazione politica delle masse (rese masse senza volto e senza diritti) e recrudescenza dell’apparato repressivo e di controllo dei territori, e che è realizzata, con particolare violenza ed evidenza nell’ultima fase di crisi, mediante strategie di precarizzazione, compressione del salario diretto, indiretto e differito, privatizzazione dei servizi pubblici.

Come sappiamo, lo Stato borghese è l’organizzazione dell’esercizio regolare del dominio, e dunque della violenza, di una classe sulle altre. Ora, nell’ultimo ventennio esso si radicalizza sempre più nella forma di uno “Stato esecutivo di polizia”. In esso l’esercizio della violenza della classe dominante è senza mediazioni. Proprio come avviene da sempre nei paesi colonizzati. In altri termini, ciò che avviene nelle metropoli imperialiste è l’assunzione generalizzata di un modello di governo della forza-lavoro sperimentato e attuato ampiamente per decenni nei paesi coloniali, dove la forza-lavoro è – e deve essere, per esigenze di sovrapprofitto del capitale – priva di diritti, garanzie sociali, legittimità politica. Sempre più andiamo incontro nei paesi imperialisti, come già nelle colonie, alla delegittimazione delle classi subordinate e sfruttate come “soggetti politici” e, cosa ancor più preoccupante, come “soggetti di diritto”. In altri termini, ciò a cui assistiamo da circa un ventennio nei paesi imperialisti è l’esercizio senza possibilità di mediazione – dettato da esigenze strutturali del capitale – del comando di capitale sulla forza-lavoro e della violenza e del dominio organizzati della classe dominante sulle classi subordinate. Esso prescinde sempre più dalle forme democratico-rappresentative, giuridiche e istituzionali della sua mediazione: è esercizio immediato, violenza bruta e repressiva, negazione dei diritti. Ne sono la prova più evidente, da un lato, eventi di repressione feroce e palese e, nei fatti, impunita come Genova 2001[37], dall’atro, le trasformazioni istituzionali e strutturali radicali imposte nell’ultimo ventennio a danno delle classi popolari e senza alcun consenso delle stesse – dal progressivo e ininterrotto processo di “presidenzializzazione” del potere politico alla precarizzazione altrettanto progressiva e ininterrotta del mercato del lavoro (che significano ancora una volta delegittimazione politica e sociale delle masse). D’altra parte, questi processi segnano anche i reali e immediati problemi delle masse popolari nei paesi imperialisti oggi, e, in particolare, negli anelli deboli della catena imperialista. Ed è a queste forme della “guerra interna” che dobbiamo essere capaci di rispondere, cavalcando l’onda del dissenso diffuso e organizzando ideologicamente e politicamente la controffensiva delle masse.  Dobbiamo esprimerci ampiamente e senza posa contro la precarietà e l’individualizzazione del rapporto di lavoro, magari per un contratto unico nazionale o europeo con garanzie salariali e occupazionali, o per altre rivendicazioni più adeguate a contrastare il processo terribile e minatorio (in quanto mina alle radici la possibilità stessa del conflitto) della precarizzazione delle condizioni lavorative e di esistenza in tutte le sue forme;e ancora dobbiamo esprimerci contro la democrazia plebiscitaria sperimentato forme di partecipazione democratica reale; e contro la compressione salariale e la privatizzazione selvaggia del settore pubblico per la destinazione di fondi europei a servizi di welfare. A questi si aggiungono i temi della devastazione ambientale, favorita dallo sblocca-Italia, della ristrutturazione aziendale dell’università, cui andrebbe opposto un movimento radicale di riforma dal basso, del lavoro precario (regolare e irregolare) giovanile, diffuso e frammentato nelle metropoli. È intorno a questi e altri temi di estrema attualità che si muovono oggi le masse e che andrebbe piuttosto ricostruita una soggettività a livello nazionale. In essi sono già in germe gli spunti di un programma minimo di classe.

Una seconda prospettiva politica che si apre in questa fase è, invece, come ben sottolinea Quadrelli in alcuni suoi studi recenti, quella fornita dal modello dei paesi coloniali, dove la risposta che tradizionalmente si dà allo stato di repressione/delegittimazione delle masse è l’organizzazione della guerra di lunga durata[38]. All’esercizio senza mediazioni della violenza organizzata di una classe sull’altra si può rispondere solo, ai fini della trasformazione dello stato di cose presente e della liberazione delle masse oppresse, con l’organizzazione, nel lungo periodo, di una violenza antagonista e contraria. E questo, nei paesi coloniali, è un dato oggettivo. L’elaborazione strategica che ne consegue non è una proposizione soggettiva o ideologica, rivolta a vecchi miti del passato, ma il risultato politico dell’analisi di rapporti oggettivi tra classi.

Nelle metropoli imperialiste, dove oggi si assiste all’organizzazione del territorio in centri di potere politico e periferie coloniali di marginalità sociale, questa organizzazione passa per il radicamento nei quartieri popolari e periferici, dove è tendenzialmente segregato il proletariato di vecchio e nuovo tipo. Il radicamento nel territorio, tuttavia, dovrebbe avvenire non per svolgere funzioni di welfare, compensatorie alle funzioni sociali smantellate del potere statuale, ma per sostituirsi alle istituzioni di potere centrale e locali mediante l’istituzione di dispositivi di governo territoriale radicalmente altri e radicalmente democratici, nel senso di una partecipazione delle classi lavoratrici, subordinate e sfruttate all’auto-governo politico di quartieri popolari e periferici, e, quindi, di una ri-legittimazione politica antagonista delle classi subordinate e sfruttate, in direzione della costituzione di assemblee cittadine costituenti di un programma minimo di classe per il governo dei quartieri popolari e periferici che rappresenti e definisca gli interessi e l’identità politica autonoma delle masse popolari, a cominciare dal nuovo proletariato. C’è bisogno insomma di sperimentare modalità inedite di partecipazione e di gestione politica territoriale e antagonista – e antagonista in quanto “impositiva” e non semplicemente “rivendicativa”, capace di imporre e di imporsi alle autorità amministrative locali rappresentative e di governance.

La differenza tra i comunisti rivoluzionari e gli antagonisti in genere si delinea, oggi, su due punti fondamentali di rottura. Innanzitutto per un comunista rivoluzionario il radicamento nei quartieri è funzionale al mantenimento di una presenza legittima nei movimenti spontanei delle masse, con il fine di canalizzare questi movimenti verso processi di autodeterminazione politica organizzata. Ovvero il radicamento nel territorio è funzionale alla conquista di posizioni di potere politico. Quando questa conquista non è perseguita, o, ancor peggio, quando essa non è tecnicamente organizzata, il presidio territoriale si riduce a presidio sociale con funzioni assistenziali. Tra il presidio sociale del collettivo politico e il centro sociale anni ’90 allora non vi è più alcuna differenza sostanziale: il primo utilizza le funzioni sociali come mezzi di inserimento legittimo nel territorio, al fine dell’organizzazione politica dei sommovimenti sociali che si producono spontaneamente; il secondo ha in queste funzioni un fine in sé. Ma se il fine schiettamente politico del collettivo non è perseguito, allora anche il suo mezzo, la funzione sociale, resta fine a sé stesso, diventa esso stesso il fine, e il collettivo si riduce a centro sociale.

Ma fin qui ci arriverebbe anche un autonomo coerente con sé stesso. Il comunista va oltre. Egli inserisce la conquista di posizioni politiche – di forme e spazi di autogoverno territoriale politico, non semplicemente sociale – in una prospettiva strategica rivoluzionaria. Quest’ultima passa, oggi ancor più di ieri, per l’organizzazione nel medio-lungo periodo della guerra di movimento. Essa presuppone ancora la ricomposizione della classe sul piano politico generale, mediante campagne politiche nazionali e locali e manifesti programmatici. È doveroso specificare che la ricomposizione politica della classe non è, e non può tradursi, in “aggregazione”. L’aggregazione è una forma di individualizzazione del rapporto con le masse desunta dal centro sociale. In essa ciò che si perde è proprio la classe come totalità. Il rapporto con la classe si riduce a rapporto con individui di classe, la ricomposizione degrada a evangelizzazione, e con ciò fallisce il senso stesso della ricomposizione. Quest’ultima, invece, non può che avvenire sul piano generale: essa è propriamente ricostruzione di un orizzonte storico-politico universale nel quale la classe può e deve rappresentarsi come soggetto collettivo. Pertanto gli strumenti più adeguati a perseguirla sono le campagne di propaganda-agitazione e il programma minimo di classe.

Non la moltiplicazione dei conflitti, dunque, è il fine del comunista rivoluzionario; non l’aggregazione o la riappropriazione di spazi di libertà e socialità; non l’assistenzialismo; queste sono “sacche di resistenza”, degne di un disobbediente, ben viste da un autonomo; insufficienti per un comunista che abbia finalità rivoluzionarie. Tutti questi sono soltanto mezzi, spesso anche inadeguati, per il raggiungimento della ricomposizione politica e ideologica delle masse in conflitto,in una prospettiva universale di conquista rivoluzionaria del potere politico che può e deve oggi declinarsi tatticamente nell’articolazione della guerra di posizione come conquista di posizioni di potere politico locale, di autodeterminazione politica delle masse. Si tratta insomma dell’organizzazione della guerra di posizione per la preparazione della guerra di movimento.

Dunque, ciò che a mio avviso definisce, oggi, l’attività di un comunista rivoluzionario è, da un lato, l’organizzazione della guerra di posizione (intesa come conquista di posizioni di potere politico nel territorio) come preparazione della guerra di movimento, dall’altro la ricomposizione del proletariato sul piano politico generale: l’uno insieme all’altro e mai separatamente. Certo, è necessario il momento “centrifugo” della lotta territoriale per la conquista di posizioni di potere politico, in sé implicante la moltiplicazione dei conflitti sul territorio, che si produce dall’incontro tra l’insorgenza spontanea delle masse e la razionalità organizzatrice dei militanti. Ma da solo esso non basta. Ad esso va accompagnato un movimento “centripeto”, di sintesi unitaria del molteplice, quale solo può avvenire in un programma di ricostruzione della soggettività comunista in un orizzonte storico-politico e ideologico ricostituito e rinnovato della lotta tra classi. Per semplificare al massimo il problema, la lotta che si serve della lista dei disoccupati come strumento di conflitto e aggregazione, non può e non deve ridursi a lotta con i disoccupati, a “movimento dei disoccupati”, ma deve arrivare a fare del movimento dei disoccupati un vettore aggregante di classe e del “disoccupato” un soggetto “collettivo”, capace di lottare per sé e per (e con) le altre categorie conflittuali, le altre frazioni di classe. E lo stesso potrebbe dirsi per il “migrante”, per il “lavoratore della logistica”, per il “cittadino-attivista ambientale”, e per tutte le categorie conflittuali che vediamo oggi protagoniste di “movimenti” sociali, vertenziali, territoriali d’ogni tipo, tutti accomunati da un comune difetto di prospettiva: essi si arenano in prospettive particolaristiche, senza capacità di generalizzazione. Esse scemano al momento della vittoria vertenziale, oppure vengono facilmente represse per via giuridica o violenta, o ancora implodono col tempo nelle proprie contraddizioni, per incapacità di rappresentarsi politicamente, di farsi, da “minoranze occasionali” in conflitto, piuttosto parti di una “maggioranza oppressa”. Come potrebbe perseguirsi allora questa “politicizzazione” potenziale delle “minoranze in conflitto”? I modi, certo, sono tutti ancora da sperimentare; ma uno strumento oggi è già a disposizione: le campagne politiche di carattere sintetico e nazionale, ovvero capaci di articolarsi sull’intero territorio nazionale e di sintetizzare gli interessi delle classi subordinate e sfruttate a partire dai punti nodali della “guerra interna”, di cui queste classi sono le vittime immediate. Bisogna sforzarsi di dare un orizzonte politico generale ai “movimenti” cui partecipiamo come presunte avanguardie di classe. Bisogna sforzarsi di canalizzare questi “movimenti”, e le minoranze che ne sono protagoniste, in campagne politiche sintetiche. Soltanto così, forse, il disoccupato potrà, non dico già combattere, ma quanto meno manifestare in piazza al fianco dell’immigrato, dell’ambientalista, del lavoratore a nero, del precario della logistica, e cogliersi come individuo di una classe dal comune interesse.

In questa prospettiva assume importanza strategica la lotta ideologica attiva contro il nemico di classe interno (al “movimento”) ed esterno, e in questo senso assume di nuovo centralità la formazione teorica dei militanti. L’epoca del movimentismo è giunta alla fine. È iniziata la fase della coerenza politica, la fase dell’organizzazione della lotta di classe sul piano ideologico, politico e, in prospettiva, militare. Le contraddizioni di oltre un ventennio di lotta nel sociale vengono al pettine: i militanti si sono disassuefatti al “politico”. E come se non bastasse, in tutta Italia è iniziata una fase calante dopo l’ultimo, brevissimo ciclo espansivo di lotte, iniziato dalla “grande onda”. Non possiamo restare indifferenti dinanzi alla nostra ennesima sconfitta. La guerra all’Islam e ai suoi territori raggiunge la sua piena maturazione. L’Italia non resterà a lungo in disparte – troppo centrale la sua posizione, troppi gli interessi in gioco. E, ben presto, dinanzi alla recrudescenza di uno “stato preventivo di polizia”, sarà impossibile difendere i nostri presidi. “Guerra esterna” significa inasprimento senza condizioni della “guerra interna”. L’invasione imperialista verso i territori dell’Islam implica e presuppone, soprattutto dopo Parigi e Bruxelles, la messa in campo di tecnologie – sempre più invasive ed estensive – di sicurezza, militarizzazione e controllo del territorio interno. Se non ritorniamo a organizzare in maniera tecnica, scientifica, la lotta di classe, la nostra fine sarà inevitabile. E allora la morte di un compagno tanto amato non sarà l’unico, amarissimo segno di un fallimento in atto. Riorganizzarsi, non a parole, nei fatti: ciò significa formazione, autocritica, chiarezza di identità e posizioni, rottura con l’opportunismo movimentista, elaborazione strategica, trasformazione del nostro modo di agire tattico e politico in genere, organizzazione della guerra di posizione per la guerra di movimento.

 

7. In una fase non rivoluzionaria e di forte debolezza della soggettività comunista, fase in cui le nuove generazioni crescono e sperimentano in un orizzonte politico e culturale di rottura radicale con le esperienze e le conoscenze dell’ultimo ciclo di lotte, è comprensibile che si sedimentino modi devianti dell’attività politica e della militanza in genere, che contraddicono il lucido, impassibile e colto esercizio della tecnica politica, deformando e impedendo una corretta articolazione del rapporto tra tattica e strategia. Tra questi modi ve ne sono alcuni di particolare degrado e ostacolo:

- Il modo opportunistico consiste nell’abuso o uso scorretto del tatticismo. Esso è giustificato dalla debolezza soggettiva delle organizzazioni comuniste, la quale sempre conduce spontaneamente a derive di tal sorta, nel tentativo di racimolare le già esili forze di classe, assumendo posizioni e/o rivendicazioni particolaristiche e di compromesso politico ed economicistico. I risvolti estremi di questo modo conducono spesso a un becero e interessato istituzionalismo, oppure a un movimentismo ben dissimulato, e creano più confusione nella classe e dissidio tra le avanguardie di quanti benefici esso comporti.

- Il modo ideologico, invece, consiste nel fenomeno opposto. Esso è caratterizzato dall’annichilimento del tatticismo, da una coerenza ostinata e moralistica, dalla scarsità di pensiero tecnico rivoluzionario, e da una incapacità strutturale di parlare il linguaggio del proletariato odierno (ovvero di coglierne gli specifici interessi generali).Esso presuppone l’analfabetismo teorico-politico e la superficialità di analisi,l’adozione,nella forma deformante delle idées reçues, di rivendicazioni e istanze politiche della tradizione, spesso senza alcun fondamento critico o contestualizzazione di fase, e conduce tendenzialmente al settarismo e all’autoreferenzialità di gruppo.

A questi atteggiamenti tanto diffusi andrebbero sostituiti i criteri oggettivi dell’azione politica comunista: l’interesse generale della classe e l’analisi concreta della situazione concreta. Dietro e prima ancora della forza delle idee e degli interessi particolaristici di singolari organizzazioni sindacali e politiche andrebbe fatta valere la forza delle verità scientificamente fondate e degli interessi oggettivi delle masse; dietro e prima ancora della moltiplicazione analitica delle avanguardie, dovrebbe agire la forza sintetica delle potenze della comunità.

Questi modi dilettantistici della politica comunista sono oggi di impedimento alla costituzione di una soggettività coerentemente rivoluzionaria e fanno dei comunisti una componente farsesca e secondaria della vita politica odierna. Ma al di là delle beghe ideologiche e opportunistiche tra le odierne avanguardie vi è l’interesse tattico comune e imprescindibile di pensarsi come “maggioranza potenziale” in una fase di “minoranze attive” che faticano sempre più, non già a ricomporre, ma finanche a sopravvivere. Allora ciò che ancor più di ogni altra cosa bisogna porre in critica è il modulo molecolare dell’agire politico, ovvero:

- «l’idea molecolare della connessione sociale e politica»[39], che si afferma negli anni Novanta nel modello del centro sociale e implica l’individualizzazione del rapporto con la classe in spazi di riappropriazione e aggregazione emancipati dalle logiche mercantili della società capitalistica. Il rapporto con la classe, per dirla in breve, retrocede a rapporto con singoli individui di classe; la ricomposizione degrada ad aggregazione. Il problema è che simile “molecolarizzazione sociale e politica” comporta implicitamente la perdita del “politico” inteso come dimensione del rapporto tra classe e avanguardie secondo il «modulo particolare-generale»[40], ovvero come dimensione di una rappresentazione universalistica cosciente delle “potenze della comunità”. Va bene ed è necessario in questa fase il modulo operativo del radicamento sociale nel territorio, purché esso si emancipi tanto dal “localismo” e dal “minoritarismo” tipici del centro sociale, quanto dal rivendicazionismo economicista della lotta vertenziale e di quartiere, e sia posto a servizio del “politico”, della ricomposizione e della “conquista del potere”.

Sulla capacità di autocritica e di trasformazione che le soggettività d’avanguardia saranno capaci di mettere in campo si misurerà, in un futuro prossimo di feroci guerre “interne” e “esterne”, il destino della soggettività comunista e, con esso, della rivoluzione.

 

Conclusioni

Nella fase “globale” dell’imperialismo – fase caratterizzata: a) dalla forma transnazionale del capitale finanziario; b) dall’integrazione trasversale dei mercati locali nel mercato “globale”; c) dall’aggregazione sovranazionale dei paesi imperialisti in organismi di governance transnazionale; d) dalla forma-guerra del conflitto di “debole intensità” e della “operazione di polizia internazionale”; e) da un modello di governo della popolazione nei paesi imperialisti di tipo sicurtivo e “asimmetrico”[41] – la trasformazione dello stato di cose presente richiede una duplice prospettiva strategica.

Innanzitutto, la formazione del mercato “globale” e del capitale finanziario transnazionale, dunque la subordinazione degli Stati nazionali a questo capitale e a questo mercato, pone a mio avviso, almeno in linea teorica, una condizione politica determinante: la rottura della catena imperialista non può avvenire in questa fase senza un progetto di integrazione economica internazionale realmente alternativo a quello del capitale finanziario transnazionale, e oppositivo all'integrazione che si determina nel mercato “globale” sotto la spinta di questo capitale e degli organismi sovranazionali che lo rappresentano. Tuttavia, una simile alternativa sociale ed economica, alternativa che non può essere se non socialista, prevede la costituzione di un blocco a economia alternativa che si fondi su rapporti di produzione e di scambio non capitalistici e che sia realmente competitivo col mercato mondiale del capitale. Esso implica, soprattutto, un progetto politico, e in quanto tale presuppone la lotta di classe e l'organizzazione rivoluzionaria per la conquista del potere e la sovversione dello stato di cose presente. Non c'è rottura della catena imperialista senza un simile progetto politico di sovversione internazionale dell'ordine costituito e di integrazione a economia alternativa tra i paesi in cui questa rottura avviene. Non c'è reale disgregazione del polo imperialista europeo senza una strategia internazionalista di transizione a una forma superiore di società. E questa transizione non può darsi in un pugno di paesi strutturalmente arretrati, poco competitivi e putrescenti di contraddizioni. O, in altri termini, non può darsi in un manipolo di paesi “deboli” della catena. Né, d'altra parte, è possibile alcuna alternativa di integrazione economica che permanga nell'ordine economico capitalistico “globale” esponendosi alle sue leggi e ai suoi vincoli. Allora l’istanza strategica della conquista dello Stato sembra dover essere riconsiderata in una strategia di rottura internazionale della catena imperialista che non può arrestarsi ai soli paesi “deboli” della catena, né, d’altra parte, ai soli paesi europei, seppure può essere tatticamente declinata come “disgregazione del polo imperialista europeo”, i cui soggetti potenziali sono, da un lato, i proletariati degli anelli “deboli” della catena, investiti da una “guerra interna” le cui parole d’ordine sembrano essere immiserimento, precarietà, delegittimazione politica e marginalità sociale, e, dall’altro, il proletariato migrante in genere (dei paesi “deboli” e non della catena imperialista), e, in particolare, quello di provenienza araba e africana, soggetto di formidabile mobilità e “connettività” internazionale, e vero e proprio emblema odierno delle contraddizioni imperialiste in seno alle metropoli europee. Perché sia possibile una qualsiasi sovversione dell’ordine capitalistico, quindi, è oggi necessario moltiplicare le relazioni politiche sul piano internazionale tra proletariati autoctoni e migranti, e, non già, le relazioni economiche tra Stati per la costituzione di un blocco a economia alternativa, inevitabilmente posto a confronto e in rapporto col mercato “globale” capitalistico, e, quindi, inevitabilmente soggetto alle sue condizioni e minacce. È necessario insomma organizzare la lotta sotto la bandiera dell’internazionalismo, per la rottura della catena imperialista europea e la rivoluzione in ogni paese.

Invece, da una diversa prospettiva strategica – “diversa” non perché alternativa o incompatibile alla prima, ma perché, seppur complementare a essa, da essa differente per dimensione prospettica assunta (là “macro”, qui “micro”; là “universalistica”, qui, piuttosto, “localistica”) – negli Stati imperialisti, processi fondamentali quali il monopolizzarsi del potere di Stato nell’esecutivo, la disgregazione dei sistemi sociali e delle istituzioni democratiche, l’esclusione delle masse subordinate dal piano “politico” e la recrudescenza dell’apparato repressivo di contenimento della popolazione eccedente e degli antagonismi sociali, la lotta di classe non può che radicarsi nel territorio e consolidare il rapporto con le classi subordinate, escluse e segregate nelle periferie e nei quartieri popolari. In quest’ultimo caso la lotta per la conquista del potere può assumere la forma di una lotta di lungo periodo per l’autogoverno locale politico e militare contro lo Stato imperialista.

È, dunque, certamente importante, fondamentale che si moltiplichino i conflitti sociali sul territorio, ma al contempo è necessario operare per la loro sintesi politica. E con ciò intendiamo non solo l’unificazione di questi conflitti in una comune prospettiva rivendicativa, nell’interesse generale della classe, la quale soltanto può favorire la ricostituzione massiva di una identità storico-politica di classe antagonista e autonoma; ma soprattutto la sussunzione di questi conflitti nella prospettiva più generale della lotta per la conquista del potere, o, in altri termini, la riformulazione della teoria del conflitto nell’obiettivo strategico della conquista di posizioni di potere all’interno delle singole metropoli e dei singoli quartieri, per una rottura rivoluzionaria di lungo periodo dello stato di cose presente. Oggi la nostra non può essere che una guerra di posizione.

Alla luce di queste considerazioni, la posta in gioco politica dell’analisi dell’imperialismo e delle sue contraddizioni sta nell’elaborazione di una prospettiva di conquista del potere politico, all’interno di una più generale strategia di rottura internazionale della catena imperialista europea, che sia adeguata alle profonde trasformazioni che si determinano nell’ordine imperialistico mondiale, e, innanzitutto, nei rapporti tra classi nei paesi imperialisti.



* Rete “Noi saremo tutto”. La parte più schiettamente politica e propositiva di questo articolo, coincidente con i paragrafi 5-7, raccoglie e approfondisce alcune suggestioni emerse durante la tavola rotonda sulla natura imperialista dell’Unione Europea e la lotta di classe, organizzata dalle reti RdC e NST nella Mensa Occupata di Napoli, al dì 13 gennaio 2016. È doveroso specificare che la responsabilità di talune considerazioni politiche e teoriche presentate nei paragrafi succitati è da considerarsi strettamente personale. L’articolo troverà collocazione nel volume collettaneo Crisi, Governance, Imperialismo. Contributi per una lettura critica della contemporaneità, a c. del collettivo “Bestimmte Individuen”, di prossima pubblicazione presso l’editore “La città del Sole”.

[2] V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 638.

[3] Ivi, p. 638 [corsivi nostri].

[4] Una ricostruzione accurata della posta in gioco politica dell’analisi leniniana dell’imperialismo e della lotta alle derive opportunistiche interne al movimento operaio internazionale è fornita da E. Quadrelli, “Agire da partito: rompere la gabbia dell’Unione Europea, costruire la soggettività comunista”, in Exit Strategy. Come rompere la gabbia dell’Unione Europea, a c. di rete “Noi Saremo Tutto”, Bordeaux edizioni, Bordeaux, 2014, pp. 101-158.

[5] Ivi, p. 570.

[6] Ibidem.

[7] Ivi, p. 639.

[8] Ivi, p. 577.

[9] V. I. Lenin, L’imperialismo, cit., p. 578.

[10] Ivi, p. 589.

[11] Ibidem.

[12] Ivi, p. 590.

[13] Ivi, p. 605.

[14] Ivi, p. 600.

[15] Ivi, p. 593.

[16] Ivi, p. 592.

[17] K. Marx, La miseria della filosofia, II, 3, in K. Marx - F. Engels, Opere, vol. VI, a c. di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 105-225 [corsivi nostri].

[18] Ivi, p. 638 [corsivi nostri].

[19] Ivi, p. 615 [corsivi nostri].

[20] Ivi, p. 617.

[21] Ivi, p. 616.

[22] Ivi, p. 618 [corsivo nostro].

[23] Definiamo mercato “globale” non il semplice mercato mondiale capitalistico ma il mercato mondiale a uno stadio avanzato d’integrazione dei mercati locali e di internazionalizzazione del capitale monopolistico finanziario.

[24] Ivi, p. 619. Questa subordinazione commerciale perseguita mediante la subordinazione finanziaria è una pratica comune ancora oggi, ed è, ad esempio, quanto per decenni si è attuato in Grecia. Qui, infatti, si è andata affermando col tempo un’economia parassitaria, in cui i maggiori profitti erano ottenuti prevalentemente dal turismo e dalla rendita immobiliare, piuttosto che dall’apparato produttivo e dal commercio. A compensare il deficit produttivo e la bilancia commerciale negativa della Grecia provvedevano i finanziamenti internazionali destinati all’acquisto di merci provenienti dall’estero. Nello stesso tempo, il sistema dei finanziamenti europei favoriva la putrescenza dell’economia greca, vera causa della sua crisi, e aggravava la subordinazione della Grecia alle potenze finanziarie creditrici (Germania in testa). Ma l’esplodere della crisi finanziaria in questo paese, e, quindi, l’emergere della crisi del debito pubblico, ha mandato in panne questo sistema economico assai instabile, producendo per l’economia greca, parassitaria e putrescente, conseguenze drammatiche.

[25] Ivi, p. 620.

[26] Soltanto in forza di questa “unificazione” del mercato mondiale, ovvero, altrimenti detto, della sussunzione universale del mercato (e dei mercati e delle economie nazionali) al capitale monopolistico finanziario – sussunzione imposta ora con riforme strutturali, ora con guerre regionali – i poli e gli Stati imperialisti contendenti trovano una momentanea convergenza.

[27] Cfr. N. Bukharin, L’economia del periodo di trasformazione: «Il capitalismo moderno è un capitalismo mondiale. Questo significa che i rapporti di produzione capitalistici dominano nel mondo intero, e tutte le parti del nostro pianeta sono legate fra loro da un solido vincolo economico. L’economia mondiale è un’unità reale esistente con legami anche tra imprenditori di differenti “paesi”, pur se contrapposti alla maniera in cui questi “paesi” sono collegati tra loro. Ma si tratta di “parti del lavoro sociale ripartito su scala mondiale, che si completano reciprocamente sul piano economico. La connessione e interdipendenza generale dei singoli stati capitalistici tra loro li rende parti integranti di un sistema generale, mondiale.» [citato da G. Pala in Postfazione a Perla critica dell’economia politica, secondo Marx, a c. di F. Schettino, La città del sole, Napoli, 2014, p. 470].

[28] Su questi temi resta fondamentale l’opera di G. Pala - M. Donato, La catena e gli anelli. Divisione internazionale del lavoro, capitale finanziario e filiere di produzione, La città del sole, Napoli, 1999.

[29] G. Pala, Postfazione a Perla critica dell’economia politica, secondo Marx, op. cit., p. 473.

[30] Ci riferiamo all’opera di G. Pala, L’ultima crisi, Franco Angeli, Milano, 1982.

[31] G. Pala, L’ultima crisi, cit.

[32] Per quanto riguarda la dinamica di aggregazione conflittuale del blocco euro-nippo-statunitense tra gli anni Settanta e i Novanta, e la realizzazione di conflitti di debole intensità come forme del dominio imperialista nei paesi dominati e della contesa, in questi stessi, tra i paesi imperialisti, secondo interessi divergenti e conflittuali, cfr. G. Pala, Economia nazionale e mercato mondiale. La fase transnazionale dell’imperialismo, Laboratorio politico, Napoli, 1995.

[33] Un’analisi precisa e approfondita sul rapporto guerra interna/guerra esterna e sulle trasformazioni che esso subisce nella fase globale dell’imperialismo è effettuata da E. Quadrelli, “Agire da partito: rompere la gabbia dell’Unione Europea, costruire la soggettività comunista”, in Exit Strategy, op. cit. Cfr. anche E. Quadrelli, “Classe e partito”, in P. Cassetta – E. Quadrelli, Noi saremo tutto. Nuova composizione di classe, conflitto e organizzazione, Gwynplaine edizioni, Camerano (AN), 2012.

[34] G. Pala, Economia nazionale e mercato mondiale, cit., pp. 6-7. Ancora Pala, commentando un decennio di guerre “indirette” tra potenze imperialiste: «Anche la guerra interimperialistica – quella combattuta con le armi – avviene oggi surrettiziamente tra alleati, sotto forma di aggressione a uno o l’altro paese dominato – “per interposta persona” – per così dire. La prima guerra del golfo, a es., serviva a mettere in ginocchio il Giappone, quella nei Balcani l’Europa, ecc. […] La direttrice Balcani-Caucaso ha rappresentato, per la strategia Usa, il punto di penetrazione euro-asiatico, attraverso la vecchia e nuova “via della seta” – oggi “corridoio 8” – che porta allo snodo di Pechino, attraverso l’Afghanistan. La seconda guerra del golfo, scontando la prevista trappola irakena, serviva soprattutto per bloccare l’avanzamento dell’euro. Il controllo militare, a questo punto, è necessario. I corridoi, dai Balcani al Pacifico, possono tenere d’occhio tutto il medioriente (attraverso telecomunicazioni, strade, aeroporti, infrastrutture bancarie, ecc.) per spianare la strada alla penetrazione del capitale imperialistico tutto.» [G. Pala, “2000: la lunga ultima crisi irrisolta”, in Postfazione a G. Pala, Perla critica dell’economia politica, secondo Marx, op. cit., p. 467].

[35] Su questi temi sono ancora decisivi gli studi di E. Quadrelli già citati nelle note precedenti.

[36] Sulla tendenza alla guerra come recrudescenza della competizione inter-imperialistica nella lunga fase di crisi del capitalismo mondiale e di caduta del saggio di profitto, si veda G. Carchedi, “Come lupi affamati, ovvero dove va l’Imperialismo”, in Il piano inclinato degli imperialismi, “Contropiano”, anno 24, n° 1, maggio 2015.

[37] Ricordiamo la sentenza della Corte di Strasburgo, rispetto ai fatti di Genova, emanata lo scorso luglio: «Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso) durante il G8 di Genova, ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrivono i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri"», e ancora: «La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, "in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia"» [dal sito di Repubblica, http://www.repubblica.it/politica/2015/04/07/news/diaz_corte_strasburgo_condanna_l_italia_per_tortura-111347188/ ].

[38] Si veda in particolar modo: E. Quadrelli, Agire da partito, op. cit.

[39] P. Cassetta, “Appunti sulle condizioni soggettive della sinistra anti-capitalista italiana”, in P. Cassetta – E. Quadrelli, Noi Saremo Tutto, op. cit., pp. 33-62, p. 43. Cassetta conduce qui una utilissima critica delle attuali condizioni soggettive dell’agire politico della sinistra radicale, risalendo alle radici di queste, con particolare attenzione per certe pratiche affermatesi negli anni Novanta.

[40] Ibidem.

[41] Per la definizione di modello “asimmetrico” si veda ancora E. Quadrelli, “Agire da partito”, in Exit Strategy, op. cit.

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