I comunisti italiani al tempo dell'Unione Europea e dell'illegalità politica
- di Fosco Giannini
- Categoria: dibattito e teoria
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Ospitiamo con piacere questo dettagliato intervento di Fosco Giannini (Direzione Nazionale Pdci) sulla situazione politica italiana e sul contesto determinato nel nostro continente dal rafforzamento dell'ipotesi statuale dell'Unione Europea. Nelle prossime settimane ci riserviamo di intervenire sugli stessi temi per sviluppare ulteriormente il dibattito.
L’analisi concreta della situazione concreta
“L’analisi concreta della situazione concreta”: sul piano teorico sappiamo che nessun progetto politico volto alla trasformazione sociale può avere credibilità se, appunto, non parte dalla conoscenza della situazione concreta. Il paradosso è che noi comunisti, in Italia, siamo usi ad infiorettare relazioni, articoli, interventi con il noto assunto materialista ma, spesso, il nostro lavoro politico generale sembra – come un cosmonauta nello spazio - girovagare nel vuoto, quello creato proprio dall’assenza di un’ “analisi concreta della situazione concreta”. La stessa assenza di una tale analisi è uno dei segni più probanti della crisi che vive il movimento comunista in Italia, volto ormai da decenni – da ben prima della “ Bolognina” – a sopperire alla mancanza di un’analisi e di un progetto dai caratteri strategici attraverso un proliferare di tatticismi dal respiro corto, destinati a degenerarsi o in derive movimentiste e massimaliste o in involuzioni prettamente istituzionaliste, segnate, in questa fase, dal terrore panico per l’assenza dei comunisti dal Parlamento e dalle istituzioni (problema, di certo, enorme) e inclini, a partire da tale assenza, a decretare la fine stessa del Partito Comunista, la sua supposta “inessenzialità”. Un fiorire bulimico di tatticismi ai quali ogni volta si affida un carattere “fondante” ( lo abbiamo visto soprattutto nella monarchia bertinottiana sul PRC). Come affermava Luigi Pintor : “Si abbonda nei particolari quando è l’essenza a mancare”.
E siamo di fronte alla prima constatazione: da quanti anni le formazioni comuniste italiane non hanno in dotazione, come corredo essenziale, un Programma Generale, dal carattere strategico ? Da troppi anni, ed è tempo che tale programma venga delineato, anche come prima base di attrazione di una nuova militanza, specie giovanile. Un programma che entri nella carne viva del presente e da lì progetti e proponga il futuro. Anche in virtù del fatto che il passato glorioso del movimento comunista e operaio, di per sé, non basta più all’organizzazione del consenso, al reclutamento, alla costruzione della passione popolare e alla mobilitazione.
E’ stato più volte notato come il grande lascito del PCI, del quale hanno usufruito i partiti comunisti venuti dopo la “Bolognina”, abbia da tempo esaurito la propria forza propulsiva ed è tempo di mettere in campo una nuova propulsione.Lenin, nel 1898, porta a termine uno studio ponderoso sulla situazione sociale in Russia che ci dice ancora oggi cosa occorre fare per iniziare a lottare, progettare: occorre capire dove siamo, decodificare la fase storica e sociale in cui viviamo, i suoi moti carsici e il suo divenire, e che se non siamo capaci di fare questo il nostro cammino è destinato ad essere ondivago, siamo costretti a marciare nel buio.
Lenin, nel densissimo saggio “Lo sviluppo del capitalismo in Russia”, scritto vent’anni prima dell’Ottobre, si propone di mettere a fuoco la situazione concreta, per poter elaborare, a partire da essa e dall’assunzione della vera e propria categoria “dell’azione soggettiva” il progetto rivoluzionario, lo stesso “Che fare?”. E dalla lettura dei soli titoli dei capitoli del saggio di Lenin si può comprendere quanto fosse profonda, nel capo dell’Ottobre, l’esigenza di mettere a fuoco la situazione concreta: “Sull’espansione russa nel Caucaso e nell’Asia centrale”; “Sviluppo dell’agricoltura mercantile nelle regioni periferiche delle steppe” ; “Sviluppo capitalistico accelerato”; “Significato della colonizzazione interna”; “Mercato del Caucaso e dell’Asia centrale”. Stiamo lavorando, oggi, noi comunisti italiani, con la stessa determinazione scientifica leninista volta alla comprensione del reale attorno a noi ?
Credo si possa dire, al di là di tanti sforzi intellettuali singoli od occasionali ai quali va riconosciuto un merito (pensiamo, ad esempio, alla relazione che tenne Lucio Magri ad Arco, nei primordi di Rifondazione, ad alcune analisi dei compagni di “Contropiano” o al libro di Diliberto, Giacchè e Sorini, “Ricostruire il Partito Comunista”) che siamo ancora in assenza della necessaria elaborazione collettiva, che quest’assenza pesa, produce sovrabbondanza tattica e tatticista ed estrema farraginosità strategica. Un deficit che proviene dall’intero movimento comunista italiano e si rovescia nell’impossibilità di offrire il contesto necessario all’azione politica, nella mancanza di motivazione profonda per una più ampia militanza, indebolendo e confondendo le coscienze.
Lenin, nel 1898, pur conoscendo perfettamente le dinamiche imperialiste internazionali dell’epoca e le contraddizioni degli sviluppi dei capitalismi mondiali di fine ottocento, pur collocando le dinamiche sociali russe nel contesto internazionale, s’impegna tuttavia a tracciare scientificamente il quadro dello sviluppo e delle contraddizioni del capitalismo russo, del Paese ove far lievitare il progetto dei rivoluzionari russi.
Oggi, i comunisti italiani, che pure sono consapevoli di come la fase imperialista sia caratterizzata dall’internazionalità dello stesso dominio imperialista, hanno però il compito di mettere innanzitutto a fuoco il contesto in cui si muovono e si muove “la classe”, le dinamiche che determinano la fase che vivono e nella quale debbono battersi, il loro “territorio” sociale, politico, ideologico, e questo “territorio” primario non può che essere quello rappresentato dal processo di costruzione dell’Unione europea, i processi di costruzione del nuovo potere sovranazionale capitalistico europeo, la “germanizzazione” dell’intera Unione europea, la “nuova storia” all’interno della quale camminiamo senza riconoscerla. Dunque, l’impatto di questo processo sul capitalismo italiano, che muta pelle in virtù di questo impatto.
Qual è, dunque, la nuova natura del capitalismo italiano nel quadro di Maastricht e sotto il dominio del capitale tedesco? E anche al di là dell’Ue : qual è il grado di penetrazione imperialista in Italia e come e in quale quantità il capitale straniero sussume il capitale italiano? Non passa giorno che una grande impresa italiana ( l’ultima, in questo luglio 2014, è la Merloni, “sussunta” dalla Whirlpool) non ammaini le proprie bandiere svendendosi agli americani, ai tedeschi, agli spagnoli, ai francesi... Come il capitale finanziario internazionale entra, squassandola, nell’economia italiana? Dove risiede, oggi, e in quale punto alto del processo produttivo, la classe operaia d’avanguardia (sia essa produttrice di beni materiali che immateriali, indossi essa la tuta blu o la giacca e la cravatta)? Dove, di conseguenza, in quale ambito del lavoro i comunisti debbono cercare i loro referenti sociali privilegiati, senza cadere in asfittiche coazioni a ripetere? Su quali punti forti e aggreganti è possibile costruire l’unità del proletariato, degli operai, degli impiegati, dei precari, dei disoccupati, degli artigiani, degli immigrati? Come affrontare la questione – non più rinviabile – della riorganizzazione di un sindacato di classe e di massa in Italia? Ecco a cosa dobbiamo rivolgere, e ancora non lo facciamo in modo sufficiente, la nostra ricerca. Il nano-capitalismo italiano, subordinato anch’esso a Maastricht e al capitale tedesco, assomma i propri antichi deficit da capitalismo straccione ai nuovi deficit derivanti dalla genuflessione ai diktat liberisti dell’Ue, scegliendo così di percorrere un’unica strada, tanto subordinata quanto feroce e suicida: quella del tentativo del mantenimento del saggio di profitto solo attraverso giri di vite continui sull’estrazione di plus valore dalla forza lavoro. Da questa constatazione si dovrebbe partire, specie i comunisti, per mettere a fuoco una proposta prioritaria: la difesa dell’economia nazionale, anche attraverso un progetto volto a premiare la concentrazione dell’impresa italiana ( certo, quella disposta ad investire, produrre e creare occupazione), superando di slancio la degenerazione del “piccolo è bello” e dell’atomizzazione produttiva.
Il processo di costruzione dell’Ue sovraordina la fase
Poiché la costruzione dell’Unione europea è il processo storico che sovraordina e segna principalmente di sé la fase in Italia e negli altri 27 paesi dell’Ue, è questo processo che va essenzialmente aggredito sul piano dell’analisi politica e teorica. Oggi, nei paesi dell’Ue, rappresentano una piccola minoranza coloro ( lavoratori, giovani, donne, cittadini ) che sono in grado di stabilire un immediato nesso concettuale e politico tra la sofferenza sociale dilagante tra i popoli dell’Ue e i durissimi dettami di Maastricht.
L’Ue opera in modo da mitigare e rimuovere, all’interno della “sacralità” mistificante del progetto di costruzione dell’ unità europea, la ferocia sociale stessa di tale progetto. Dunque, come fece Lenin in Russia nel 1898, il primo compito dei comunisti è quello di leggere profondamente la fase, indicare nell’attuale, selvaggio, processo di costruzione di questa Ue imperialista la base materiale della distruzione delle democrazie, dello smantellamento degli stati sociali, degli attacchi devastanti al lavoro, ai diritti, ai salari e ciò sia per offrire basi materiali alla loro tattica e alla loro strategia che per costruire coscienza di classe su scala di massa. Il retaggio ancora vivo delle vecchie diatribe tra gli stessi comunisti ( Unione europea “si”, Unione europea “no”, in gran parte in relazione al fatto che essa possa essere o non essere un contrappeso agli USA) spinge ancora ad un dibattito fuorviante, che rimuove il fatto che questa Ue, nel frattempo, impone una dittatura economica e politica di tipo golpista nel nostro continente, cambiando la nostra storia. L’analisi concreta della situazione concreta ci dice che i popoli dell’Ue sono, oggi, sotto uno spietato dominio capitalista dal carattere iperliberista, un dominio che non tollera mediazioni sociali né freni politici al proprio procedere imperialista. Negare tale concreto assunto o mitigare la devastazione sociale del processo storico di costruzione di questa, concreta, Unione europea, vuol dire rinunciare a consegnare ai comunisti italiani di oggi la possibilità della lettura del reale e organizzare la lotta conseguente. In teologia, la Liturgia è uno delle materie più importanti da studiare: attraverso la propria Liturgia la Chiesa ha costruito il suo potere, il senso comune cattolico universale e difeso a spada tratta la propria concezione del mondo. La Liturgia messa in campo dal capitale transnazionale europeo per costruire un senso comune sovranazionale volto a mitizzare l’unità europea e – dunque – questa, concreta, Ue, è poderosa come quella teologica. E liturgica è stata la promessa fatta dai paesi dominanti dell’Ue ai paesi più deboli: entrate e sarete in un regno di pace e prosperità, mentre la realtà è stata quella di un regno della sofferenza sociale e della preparazione alle guerre imperialiste: i paesi deboli che sono entrati hanno potuto farlo, infatti, solo accettando le condizioni di Maastricht e subendo l’ordine di entrare nella NATO. “No NATO no Unione europea”, è stato lo slogan. Come liturgico è stato l’enfatico invito : “Arricchitevi! Fate come la Germania!”, quando è del tutto evidente che solo un paese dell’Ue può fare come la Germania, ed è la Germania stessa, poiché, come nelle dinamiche capitalistiche, solo un soggetto sfrutta e concentra ricchezze: gli altri sono i soggetti spoliati, funzionali, per la loro stessa condizione di sfruttatti, a favorire la concentrazione monopolistica altrui. E la Germania ha concentrato su di sé la ricchezza dell’Europa.
Ciò che accade, la devastazione sociale su scala continentale, è occultato e, ancor più drammaticamente, di questa devastazione non se ne conoscono, a livello di massa, le cause materiali. Mettere a nudo i moti devastanti dell’Ue e decifrarne le cause è, oggi, il compito affidato ai comunisti. E’, ora, il loro compito storico. Come il PCI di Togliatti divenne di massa mettendo a fuoco l’obiettivo storico della lotta al fascismo e mettendo in campo quel grande processo di defascistizzazione e democratizzazione dell’Italia che aveva in sé anche i caratteri della trasformazione sociale in senso socialista, così, oggi, i comunisti italiani sono essenzialmente chiamati a lottare per un duplice obiettivo: costruire un senso comune di massa anticapitalista e antiliberista in grado di mettere a critica questo processo di costruzione dell’Ue e lottare per impedire che la democrazia e i diritti vengano definitivamente soffocati nelle spire dell’Ue e attraverso questa lotta riaprire spazi di trasformazione sociale, impedendo che la critica all’Ue possa essere organizzata dalle forze nazionaliste, populiste e neofasciste. Un compito improbo, rispetto alle forze. Ma anche per il PCI di Togliatti, con le sue poche migliaia di iscritti del 1945, il compito sembrava impossibile. Fu la natura di classe e la linea giusta di quel Partito a risolvere la questione. Ora spetta a noi.
La costruzione dell’Unione europea non era all’ordine del giorno nella storia
Asseriamo, come punto di partenza, che la costruzione dell’Ue non era all’ordine del giorno della storia, nel senso che non vi era nessuna pulsione storica oggettiva che spingesse verso l’unità degli stati europei e dei popoli europei. L’Europa della fine del ‘900 era ancora fortemente segnata, nelle proprie fibre profonde, dalle molteplici guerre storiche tra stati europei; dalle divisioni profonde tra stato e stato che portano alla Prima Guerra Mondiale e alla divaricazione drammatica e sanguinaria che si determina nella Seconda Guerra Mondiale tra fronte nazifascista europeo e fronte antifascista. Per non parlare della divisione profonda tra i paesi europei che viene a determinarsi dopo la Seconda Guerra Mondiale: la divisione della “cortina di ferro”, quella tra paesi socialisti del Patto di Varsavia e paesi filoamericani e appartenenti alla NATO. Le differenze e le competizioni economiche tra i paesi europei; le diverse monete, le diverse lingue, storie e culture, assieme ai diversi “campi di attrazione” sul piano internazionale da paese a paese, fanno si, sino alla fine del ‘900 ( e dunque sino a 5 minuti fa, sul piano storico), che nessun segno oggettivo emergesse e si palesasse come segno indicante l’unità dei paesi europei. E appartiene alla Liturgia dell’Ue capitalistica l’argomento secondo il quale l’unione dei paesi europei sotto la bandiera della BCE porterebbe alla fine delle guerre: questa Ue, già nella guerra contro la Jugoslavia, in tutte le guerre degli Usa e della NATO, sino al golpe contro l’Ucraina, sino all’ignavia attuale, complice degli Usa, verso la ferocia israeliana contro il popolo palestinese, sta già mostrando ampiamente il proprio volto imperialista e guerrafondaio ( ed è per questo che siamo contrari ad un esercito dell’Ue). Ben diversa fù la strada che portò alla costruzione degli Stati Uniti d’America: dalla fine del ‘600, e per un lungo secolo, i diversi stati americani costruirono la loro alleanza attraverso una durissima e condivisa lotta anticolonialista contro gli inglesi, gli olandesi e le altre potenze imperialiste che li volevano sottomessi, giungendo ad una vera unità solo nel 1776, quando la battaglia anticolonialista porta alla Dichiarazione di Indipendenza. Ma fu quella lunga, secolare, battaglia sul campo a costruire, non artificiosamente, l’unità nordamericana, gli Stati Uniti d’America.
Qual è stato, invece, il motore acceso per avviare il processo unitario europeo? Il motore imperialista: il punto è che il capitale transnazionale europeo, nel nuovo quadro di competizione economica globale venutasi a costituire dopo il passaggio dall’imperialismo monocentrico USA, che vige sino alla fine degli anni ’70 circa, al nuovo polimperialismo che tuttora caratterizza la fase, ha l’esigenza oggettiva di unirsi per competere, con maggiore possibilità di riuscita, con gli altri poli imperialisti internazionali e con gli emergenti paesi del BRICS per la conquista dei mercati mondiali. E’ da questa esigenza capitalistica oggettiva che, in Europa, prende rapidamente avvio il processo unitario, al quale restano completamente esterni gli stati e i popoli. E pur essendo anche l’esigenza capitalistica europea ad unirsi un fattore storico oggettivo, eppure esso non ha alcuna attinenza con la spinta all’unità degli stati e dei popoli nordamericani ad unirsi determinatasi con l’esigenza della lotta unitaria anticolonialista e di liberazione. Pur essendo l’esigenza del grande capitale europeo ad unirsi una concreta base materiale, eppure essa non possiede i requisiti per unire gli stati e i popoli, ma punta a costruire unità solo attraverso profonde, vaste e storicamente lunghe sofferenze sociali di massa.
Sulla base dell’esigenza del capitale transnazionale non può che costituirsi un’Ue antidemocratica
Sulla base dell’esigenza del capitale transnazionale ad unirsi non può che costituirsi un’ Ue antidemocratica, che umilia i popoli e i lavoratori europei e si consegna, nel processo unitario monetarista, nelle mani del potere economico e politico tedesco. Siamo all’attuale germanizzazione dell’Unione europea.
I primordi e i certificati di nascita di questa Ue non potrebbero essere più espliciti nel dimostrare il segno neoimperialista e il carattere del tutto artificioso di questo parto: il 26 dicembre del 1991 il Soviet Supremo scioglie formalmente l’Unione Sovietica; il 7 febbraio del 1992 ( ad una quarantina di giorni dalla scomparsa dell’URSS), a Maastricht viene firmato un Trattato di spaventosa forza liberista che entra poi celermente in vigore il 1° novembre del 1993.
Il senso storico è trasparente: scomparsa la diga antimperialista dell’Unione Sovietica si da ufficialmente avvio alla liberazione degli spiriti animali del capitalismo, al dominio sempre più esteso della NATO e alle nuove guerre imperialiste, ad iniziare dall’Iraq. Con il Trattato sull’Unione europea, o Trattato di Maastricht, il capitale transnazionale europeo, torcendo verso sé “lo spirito dei tempi”, da avvio a quel processo di unità e di nuova accumulazione capitalistica indispensabile per porsi come nuovo contendente nel quadro della lotta mondiale per i mercati. Nasce così l’Ue, la nuova “Creatura”, un mostro artificiale del Frankenstein capitalistico europeo.
Nel tempo storico breve di un ventennio ( dal 1993 del Trattato di Maastricht sino ad ora) il prodotto sociale, politico e istituzionale dell’Ue è devastante: gli stati, i governi e i parlamenti dell’Ue sono esautorati e genuflessi al dominio tedesco e alla BCE; i governi commissariati; le democrazie messe tutte sotto torsione e consumate; i lavoratori riportati indietro in un tempo ottocentesco di massimo sfruttamento, i salari ridotti a retribuzioni da fame, i diritti cancellati, lo stato sociale distrutto, i comparti e i servizi pubblici privatizzati. Nel processo costituente dell’Ue appare sin dall’inizio chiaro – come lo stesso Trattato di Maastricht ratificava chiaramente nei suoi articoli – che questa Ue non sarebbe mai stata un’organizzazione democratica rappresentativa e ciò nella misura in cui il parlamento europeo non avrebbe avuto e non ha il potere esclusivo di promulgare le leggi e che i veri poteri si sarebbero annidati, e si annidano, nella Commissione e nel Consiglio d’Europa, organi non eletti dai popoli ed espressione diretta degli interessi del grande capitale europeo, col tempo del capitale tedesco.
Và notato come lo svuotamento di senso del parlamento europeo si riversi e segni di sé gli stessi parlamenti europei e quello italiano: dal momento in cui l’Italia aderisce all’Ue il suo parlamento muta improvvisamente natura, ruolo e funzione, finendo per limitarsi a ratificare le direttive europee e abdicando il potere legislativo a favore degli organi non eletti dai popoli: la Commissione ed il Consiglio d’Europa. Lo svuotamento di senso del parlamento italiano non lo genuflette solo verso l’Ue, ma lo rende ancor più servile verso l’imperialismo Usa e la NATO: nel 2007 il governo firma segretamente a Washington, senza che il parlamento ne sappia niente, il patto per lo scudo stellare in Europa e per la nuova base militare Usa a Vicenza.
In questo contesto parlamenti, governi e partiti non esercitano più una politica monetaria e industriale nell’interesse dei cittadini e dei lavoratori del proprio paese, ma si limitano a ratificare le indicazioni della Commissione, della BCE e del nuovo organo, il MES. Indicazioni nate nei tink tank e nei gruppi sovranazionali. Gli stessi partiti interni al sistema – sia di centro sinistra che di centro destra - mutano radicalmente natura, divenendo i terminali operativi, afasici e subordinati, di una politica ben più grande e potente di loro, quella emanata tirannicamente dall’Ue del capitale. Ed entriamo nella fase, dal carattere strategico e non transeunte, delle Grosse Coalizioni, estese su scala continentale.
Il patto di Stabilità e di Crescita
L’Ue, dopo l’accelerazione improvvisa della ratifica del Trattato di Maastricht, inizia ad imporre i nuovi comandamenti del dominio capitalistico sovranazionale. E’ il caso del Patto di Stabilità e Crescita (PSC) che viene stipulato e sottoscritto nel 1997, solo quattro anni dopo la ratifica del Trattato di Maastricht, di cui è, con tutta evidenza, una materializzazione iperliberista. Con la ratifica del PSC l’Ue rende ferreo il proprio controllo sulle politiche pubbliche di bilancio di ogni paese; inchioda ogni governo ai vincoli servili relativi all’adesione all’Ue, accelerando improvvisamente, di fronte ad una generale passivizzazione che rende i membri dell’Ue paesi satelliti, quel processo d’integrazione monetaria intrapreso da ognuno nella firma del Trattato di Maastricht e che attraverso lo spirito e la lettera del PSC diviene una vera e propria prigione monetaria.
Con il PSC si chiude la storia keynesiana europea del secondo dopoguerra e si inaugura la fase del liberismo puro e duro; si supera la fase storica del welfare europeo per tornare in quella del capitalismo inglese del sette ed ottocento. Il PSC, da questo punto di vista, è totalmente paradigmatico: cancellando la possibilità, tutta keynesiana, di utilizzare e mettere a valore il debito e i deficit di bilancio al fine di sostenere lo sviluppo economico e, dunque, la redistribuzione del reddito con la conseguente apertura dei mercati interni ( con una produzione di ricchezza che può ricondurre anche alla possibilità di rientro dal debito pubblico), obbliga a percorrere l’unica strada del rigore liberista totale, della rinuncia agli investimenti e alla crescita. E’ da notare come dall’Ue giungano severi diktat in relazione al controllo sul debito attraverso il contenimento salariale e i tagli sociali, ma non vengano disposizioni altrettanto severe in relazione alla lotta all’evasione fiscale capitalista, che come affermano persino “Famiglia Cristiana” e “L’Osservatore Romano” risolverebbe in buona parte lo stesso problema del debito pubblico: è il segnale tra i più probanti della natura di classe delle politiche dell’Ue.
Con il PSC diviene il rigore economico liberista la nuova religione, contro la quale anche Romano Prodi sembra, nel ’97, insorgere, dichiarando. “Questo Patto è, semplicemente, inattuabile”. Il PSC è un dogma che nessun paese può violare, pena dure sanzioni alle quali vanno immediatamente incontro, naturalmente, i paesi più deboli dell’Ue, compresa l’Italia, mentre Francia e Germania (i paesi, tra l’altro, che ispirano le politiche del rigore e delle sanzioni), anche quando infrangono le regole e non rispettano i parametri evitano ogni sanzione. Ed è la legge dell’imperialismo che si rinnova storicamente.
Il Fiscal Compact
I primi mesi del 2012 sono tra i più duri, specie per i Paesi del Mediterraneo, dell’intera storia dell’Ue e dell’euro. Spagna, Portogallo e Cipro vanno vicinissimi al default. La Grecia lo incrocia, pagando prezzi da lacrime e sangue. La spaventosa crisi economica (che trova le proprie basi materiali anche nell’impossibilità, all’interno dei parametri di Maastricht e del Patto di Stabilità e sotto il dominio del “rigore”, di poter rilanciare politiche di sviluppo) spinge l’Ue ad un ulteriore giro di vite: siamo al Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla governance ( il cosiddetto Fiscal Compact), firmato il 2 marzo del 2012 da 25 Paesi. Fondamentalmente, attraverso il Fiscal Compact, le sue norme e i suoi vincoli, l’Ue, la BCE e il FMI si assumono il diritto pieno di controllare e dirigere, in un’operazione di commissariamento dei governi e dei parlamenti, le politiche economiche – e specificatamente quelle finanziarie – dei Paesi dell’Ue.
Fra i molti punti contenuti nel Trattato, i più significativi sono i quattro seguenti:
– l’inserimento del pareggio di bilancio (cioè un sostanziale equilibrio tra entrate e
uscite) di ciascuno Stato in «disposizioni vincolanti e di natura permanente,
preferibilmente costituzionale» (in Italia è stato inserito nella Costituzione con una
modifica all’articolo 81 approvata nell’aprile del 2012);
– il vincolo dello 0,5 di deficit “strutturale”, quindi non legato a emergenze rispetto al PIL;
– l’obbligo di mantenere al massimo al 3% il rapporto tra deficit e PIL, già previsto da Maastricht;
– per i paesi con un rapporto tra debito e PIL superiore al 60%, previsto da Maastricht, l’obbligo di ridurre il rapporto di almeno 1/20esimo all’anno, per raggiungere quel rapporto considerato “sano” del 60%. In Italia il debito pubblico ha sforato i 2.000 miliardi di euro, intorno al 134% del PIL. Per i paesi che sono appena rientrati sotto la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e PIL, come l’Italia, i controlli su questo vincolo inizieranno nel 2016.
E’ del tutto evidente, sul piano essenziale, come il Fiscal Compact rappresenti il cuore stesso del progetto neo imperialista dell’Ue: l’esigenza assoluta di una nuova accumulazione, da parte del grande capitale transnazionale europeo – un’accumulazione necessaria per battersi contro gli altri poli imperialisti mondiali e contro i BRICS per la penetrazione nei mercati internazionali – spinge a varcare ogni frontiera democratica. Gli stati e i governi si tacitano, i parlamenti si esautorano, le economie nazionali divengono funzioni al servizio della stessa accumulazione del capitale transnazionale, i popoli si trasformano in pura merce manipolata dalla BCE. Il Fiscal Compact opera mutazioni genetiche oscure e gravi all’interno delle Costituzioni europee e corrode le democrazie. Il referendum contro il Fiscal Compact che è stato lanciato in Italia deve vedere, per questa serie di ragioni, i comunisti in prima fila.
“La stabilità dei prezzi”
Oltre il Patto di Stabilità e il Fiscal Compact la BCE stabilisce, per tutti i governi e i popoli dell’Ue, che per mantenere la stabilità dei prezzi a medio termine sotto il 2% occorre relazionarsi e vincolarsi, disciplinatamente, a tre fattori: la crescita economica ( il PIL), il prezzo del petrolio e la quantità di moneta circolante. Tutti i governi dell’Ue accettano di mettere la testa sotto la ghigliottina dei “tre punti”. Solo gli economisti marxisti e i partiti comunisti e della sinistra di classe si oppongono a tale nuova disciplina. Affermando: il PIL, seppur importantissimo indicatore economico, non misura tuttavia la qualità della vita, ma la produttività. Le spese sanitarie per le malattie gravi e le spese per le armi – emerge dalla critica comunista e di classe – partecipano positivamente, ad esempio, alla crescita del PIL, poiché esso considera come entrate ciò che tutte le contabilità d’impresa catalogano come uscite.
Mentre ogni evento socialmente positivo ( la nascita di un essere umano, la trasmissione della cultura e della conoscenza, la costruzione dei servizi) nel PIL non viene contabilizzato. Come affermava Robert Kennedy “Il PIL misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
E a proposito del PIL è di questo luglio 2014 un titolo, molto colorito, del “Wall Street Journal”: “Perché il PIL puzza e nessuno ci fa attenzione”, titolo che riassume le reazioni, del tutto indifferenti, delle Borse alla notizia di una vistosa frenata dell’economia americana, registrata in un 2,9% in meno nel primo trimestre di quest’anno. Un dato pessimo che mette gli Usa “in rosso” dopo cinque anni di ripresa, riallineandola ai malati cronici dell’Eurozona. Ma questa revisione del PIL, appunto, non tocca per nulla i mercati e gli esperti. L’unica vittima? La credibilità stessa del PIL,quale indicatore dello stato di salute dell’economia. Perché questa indifferenza dei mercati? Perché il PIL, ormai persino agli occhi delle Borse americane ( non solo a quelli di Amartya Sen e Joseph Stglitz, che da decenni tentano di proporre statistiche “alternative”) non registra i livelli di benessere dei popoli, ma solo le sinusoidi del profitto. In verità, tra i fattori che hanno frenato la crescita Usa, il più potente è la riforma sanitaria di Obama. A gennaio di quest’anno entrava in vigore il nuovo sistema assicurativo. La sua prima conseguenza è stata un calo delle tariffe sulle polizze sanitarie. E qui emerge l’incongruenza dell’indicatore PIL: se gli americani hanno finalmente speso un po’ meno per le assicurazioni mediche questa è una buona notizia, ma riduce il PIL, che è un aggregato di tutte le spese. A dimostrazione che il PIL è un indicatore di cui non si fida più nemmeno il liberismo, nel luglio 2014 l’inglese “ Financial Times” conduce un’inchiesta alla quale dà un titolo significativo: “ Come il PIL è divenuto un’ossessione mondiale”. Non per l’Ue, che con il PIL stabilisce in modo ferreo la stabilità dei prezzi.
Il secondo fattore che la BCE individua quale strumento per la stabilità dei prezzi è il costo del petrolio. E anche qui è dal mondo comunista, marxista e di classe che sale la critica: nessuno al mondo può conoscere il prezzo del petrolio perché nessuno al mondo conosce il quantitativo di greggio nei giacimenti e dove siano i nuovi con esattezza.
La teoria più affidabile, ma per l’appunto è una teoria, è il picco di Hubbert, che si basa sulla domanda e sull’offerta del petrolio. Una variabile destinata a continue mutazioni, legate al cambiamento dei rapporti di forza internazionali tra capitale e lavoro e dalle stesse guerre imperialiste.
La quantità di moneta circolante è il terzo fattore tenuto in considerazione dalla BCE per la stabilità dei prezzi ( stabilità che, detta così, pare poco, ma in verità determina il costo della vita materiale delle famiglie, di ogni cittadino e lavoratore, determinandone il livello quotidiano di consunzione del salario e della qualità stessa della vita). Se la quantità di moneta circolante è alta ciò determina inflazione, crescita dei prezzi e attacco ulteriore al valore dei salari, che in quasi tutti i paesi dell’Ue, tranne in Germania, sono drasticamente svalorizzati dal passaggio dalla moneta nazionale all’euro, dalla pianificazione in basso di tutti i salari dell’Ue dettata dallo “spirito” di Maastricht e dalla subordinazione delle forze sindacali europee (a cui la CGIL italiana non si sottrae) ai partiti socialisti e socialdemocratici mutati nella loro natura storica dalla potenza dell’Ue. Ma chi determina la quantità della moneta circolante? A determinarla sono, essenzialmente, le banche, tanto più nella fase di esautoramento del ruolo dei governi e dall’estinzione delle politiche economiche nazionali volute dall’Ue. Il punto è – ad esempio- che oggi chi accede al controllo delle borse telematiche può avere un quantitativo illimitato di moneta “creata dal nulla” e acquistare ogni tipo di merce, o ricattare i governi senza produrre, volendo, iperinflazione ( valore degli strumenti derivati) e può tenere in schiavitù i popoli agendo direttamente sul potere d’acquisto degli stipendi medi e medio-bassi ( inflazione, stagflazione, deflazione, recessione). Come appare chiaro, dunque, legare la stabilità dei prezzi anche alla quantità della moneta circolante non vuole dire altro che affidare i destini dei salariati dell’Ue agli squali della speculazione finanziaria, alle peggiori manovre bancarie, alla criminalità organizzata volta al riciclaggio, alla Borsa, a tutti gli spiriti animali del capitalismo che la stessa Ue ha scatenato. Nessun controllo, dunque, sulla stabilità dei prezzi. Che come i salari, i diritti e lo stato sociale sono totalmente nella mani delle politiche concrete conseguenti a Maastricht e dei suoi molteplici agenti della nuova pirateria capitalistica e finanziaria europea.
I processi di privatizzazione
Le direttive per i processi di privatizzazione da portare avanti in ogni paese dell’Ue sono il carattere fondante stesso dell’Ue ( l’ormai storica lettera di Draghi e Trichet del 2011, è, da questo di punto di vista, una “magna charta”). Anche sulla scorta della distruzione pressoché totale del pubblico in Inghilterra per mano della Thatcher lo spirito liberista si espande in ogni dove e in ogni dove spinge a massicci processi di privatizzazione. Nell’area dell’intera Ue la privatizzazione diviene la più importante azione economica per ridurre il debito pubblico. Si stima che nel 2013 siano entrati circa 30 miliardi di euro come introito totale dalle dismissioni. Nell’Inghilterra post thatcheriana la più grande dismissione, di immensa grandezza economica, sociale e politica, è quella relativa al titano della Royal Mail; in Spagna si privatizzano, tra l’altro, la sanità pubblica e gli ospedali e ciò all’interno di un quadro più generale liberista che ha portato ad una taglio drastico degli stipendi, allungato l’età pensionabile, ad una linea durissima sugli sfratti attraverso la creazione di una bad bank volta a gestire la dismissioni del patrimonio immobiliare, a privatizzazioni a prezzi di saldo di pezzi importanti dello stato quali l’aeroporto di Ciudad Real, svenduto ad un prezzo pari a un decimo della somma spesa per costruirlo; in Grecia la privatizzazione imposta è massiccia e feroce e giunge a dismettere quasi il 50% dell’intero patrimonio pubblico. Essendo, l’obiettivo imposto dalla BCE e dalla Merkel, la riduzione del deficit annuo del PIL lordo greco dal 15,4% del 2009 al 2,6% del 2014, le misure draconiane imposte al popolo greco sono terribili, da vincitori di una guerra, con le spade sulla bilancia. E non solo privatizzazioni vastissime (da organizzare attraverso una task force inviata specificatamente ad Atene dalla stessa troika al potere: FMI, BCE, Commissione europea) ,ma condizioni sociali e politiche imposte spaventose che portano la disoccupazione greca dal 10% del 2009 al 23% del 2012; la compressione del salario medio mensile sino al 30% per i dipendenti pubblici e al 20% per i privati, la svendita totale, al capitale privato europeo e tedesco, di edifici storici greci, l’obbligo di acquisto, da parte del governo greco, di armi tedesche, lungo una via crucis del popolo greco di cui non si vede la fine.
Devastanti sono anche stati, negli ex paesi del socialismo realizzato, i processi di privatizzazione richiesti dall’Ue come pegno per l’entrata nell’Europa liberista: si calcola che la quota di privatizzazione media in questi paesi abbia raggiunto il 70% dell’intero patrimonio pubblico. Un obolo pesantissimo da pagare, oltre quello, obbligatorio, umiliante e oneroso, di entrare, come nuovi ascari militari, nella NATO. La colonizzazione dello spazio est europeo da parte dell’Ue contribuisce ad aumentare, e non a lenire, l’immenso disagio sociale e l’improvvisa e cruenta disuguaglianza scaturita dalla caduta degli stati socialisti. Nello spazio dell’est europeo si calcola tuttora un tasso di disoccupazione medio del 25, 30%, con una caduta della media salariale del 35%, condizione, tra l’altro, che trasforma questa regione del mondo nello spazio più appetitoso per gli ingenti processi di delocalizzazione del capitale europeo e internazionale.
Le privatizzazioni in Italia sotto il segno dell’Ue
Anche il processo di privatizzazione dettato dall’Ue e dalla BCE in Italia è imponente: nel 1992, sotto la guida diretta di Mario Draghi, inizia il grande lavoro di dismissioni. “Il libro verde sulle privatizzazioni” diviene la Bibbia e la guida del processo. Ancora nei primi anni ’90 lo Stato italiano gestiva il 16% della forza lavoro totale, controllava l’80% del sistema bancario e aveva decisive proprietà in tutti i settori, specie quelli strategici. Dopo la cura Draghi e “il libro verde” allo Stato rimangono le briciole. Quelle di oggi.
Nel 1993 viene costituito, presso il Ministero del Tesoro, il “Comitato per le privatizzazioni”: viene immediatamente smantellato il settore bancario di proprietà dell’IRI; successivamente vengono svendute l’IMI e l’INA; il settore bancario pubblico viene smantellato nel biennio 1998-1999 con le cessioni della Banca Nazionale del Lavoro e Mediocredito Centrale. Il governo Prodi-D’Alema del 1996 accelera i processi di svendita: l’IRI, le Autostrade e la Telecom vengono dismesse in questa fase. Il successivo governo Berlusconi lancia un piano di dismissioni per 60 milioni di euro e, attraverso Tremonti, è soprattutto il patrimonio immobiliare pubblico ad essere privatizzato. Oltreché quello, pesantissimo sul piano sociale, dell’acqua pubblica. Dal 1992 al 2002 lo Stato italiano incassa dalle privatizzazioni 120 milioni di euro, ciò attraverso lo smantellamento dell’industria di Stato, la cessione di sovranità su infrastrutture fondamentali quali trasporti ed energia. Draghi e Trichet, nella loro lettera dittatoriale, imporranno poi a Monti e al suo governo “Quisling” di procedere speditamente verso altre e definitive privatizzazioni: quelle delle aziende municipalizzate. Ora è il governo Renzi a continuare nello stesso processo liberista: tocca ai Cantieri Navali della Fincantieri, alle Poste, alla Sanità pubblica subire la privatizzazione. Un paio di questioni vanno rimarcate: primo, il fatto che questo titanico processo di dismissioni non ha in nessun modo contribuito ad alleggerire il debito pubblico; secondo, che questo processo è stato portato avanti, con uguale determinazione, sia dai governi di centro destra che da quelli di centro sinistra: un anticipazione delle Grosse Coalizioni che, dalla Germania all’Italia, passando per altri paesi dell’Ue, sono state chiamate a gestire il lavoro sporco voluto dell’Ue, dalla BCE e dal FMI.
L’economista Dean Baker, in relazione alla crisi economica statunitense, aveva affermato che “ In fondo la storia di ciò che è andato storto è di una semplicità disarmante: abbiamo avuto una bolla immobiliare e quando la bolla è scoppiata è rimasta una voragine nella spesa. Tutto il resto è marginale. Anche la risposta politica era semplice: riempire quel buco nella domanda. In particolare, il periodo che fa immediatamente seguito alla scoppio era (ed è tuttora) ottimo per investire nelle infrastrutture. Mettere le risorse inutilizzate all’opera per realizzare qualcosa di utile avrebbe dovuto essere un gioco da ragazzi”. Ma, negli USA, così non si fece: la spesa pubblica, dopo la bolla, crolla del 25%.
Il costo sociale
E nell’Italia dei dettami di Maastricht? Dai primi anni 2.000 in poi, dai Trattati, dall’Euro, dall’imposizione di una concezione economica prettamente antikeynesiana, lo Stato si ritira dall’economia e oltre i grandi processi di privatizzazione, di pari passo, diminuisce la spesa pubblica persino oltre il livello nordamericano, oltrepassando il 25%. E’ la fase storica liberista post sovietica che unisce le politiche economiche USA a quelle dell’Ue.Il costo sociale scientemente imposto dall’Ue, specie sui paesi e i popoli più deboli della propria area, è, senza nessuna retorica, drammatico e storicamente inedito nella sua grandezza. Gli effetti sociali delle politiche dell’austerità hanno prodotto già 48 milioni di disoccupati, con un incremento, dal 2.007, di 15 milioni. Tre paesi dell’Eurozona – Irlanda, Grecia e Spagna – hanno visto un raddoppio del numero di persone che vivono in famiglie senza reddito da lavoro. Livelli altissimi – dal 7 al 15% - di povertà assoluta e deprivazione totale sono presenti in Italia, Irlanda, Cipro, Portogallo, Grecia, Romania, Spagna.
In Italia il reddito medio, negli ultimi sei anni, è calato del 13%, tornando ai livelli di un quarto di secolo fa. Per ritrovare un potere d’acquisto medio comparabile dobbiamo tornare indietro sino al 1988, mentre la povertà assoluta, sempre negli ultimi sei anni, è raddoppiata: dal 3 al 6%. Tutti dati Istat del 2.014. Il tasso di disoccupazione giovanile medio nell’Ue è del 25%. In Grecia il tasso di disoccupazione ha toccato quasi il 30% e quello giovanile il 57%, con un PIL crollato al 27%. Secondo una ricerca dell’Università di Portsmouth l’austerità imposta alla Grecia ha prodotto il suicidio di 553 uomini: la guerra dei tagli sociali. In Portogallo la crisi ha prodotto innanzitutto una forte e improvvisa emigrazione, una vera e propria fuga dalla miseria. Sono tra le 100 mila e le 120 mila persone all’anno che fuggono dal Portogallo. Tanti medici e tanta parte del personale sanitario sta lasciando il Paese. Nonostante gli “aiuti” della BCE (prestiti che dovranno essere riconsegnati attraverso lunghe politiche di lacrime e sangue per i prossimi decenni) il PIL è crollato del 5,7%, la caduta degli investimenti del 37%, la perdita di posti di lavoro è stata di cinque volte più grande negli ultimi sei anni, il che significa che sono stati distrutti quasi mezzo milione di posti di lavoro; il debito pubblico, nel 2010, rappresentava il 93% del PIL: dopo la cura da cavallo imposta dall’Ue è, oggi, del 130% ed è cresciuto di oltre 51,5 miliardi di euro. In Irlanda, dal 2008 ad oggi, i governi hanno imposto nove, durissime, manovre di bilancio ispirate all’austerità dell’Ue: le conseguenze sui lavoratori e sulla popolazione sono state tragiche. In Italia la disoccupazione arriva ormai al 16%; quella giovanile under 25 è del 52%; tra i giovani under 25 occupati oltre il 50% sono completamente precari. E su tutto ciò si abbatte il job act di Renzi, volto ad una precarizzazione totale e strategica del lavoro. Non riusciamo davvero a capire come pezzi della sinistra italiana ( pensiamo a Gennaro Migliore e i suoi di SEL) possano innamorarsi di Renzi e l’unica risposta è quella derivante dalla peggiore tradizione politica italiana: soccorrere il vincitore.
L’euro, la moneta unica
L’euro, la moneta unica adottata sinora da 17 Paesi dell’Ue, viene introdotta il primo gennaio del 1999. Se è vero che il “mistero” dell’economia è creato ad arte dalla borghesia per tenere lontani i popoli dalla verità e diviene attraverso questa mistificazione strumento di potere anche ideologico, è anche vero che più di tanto la verità non si può mistificare e comprimere e per ciò che riguarda l’euro i cittadini e i lavoratori europei e italiani hanno compreso ben presto, sulla loro pelle, nella concretezza quotidiana del vivere e, per così dire, di fronte a un banco di macelleria, quanto sia stata devastante la sua introduzione. Hanno capito ben presto che, sia in relazione al quadro economico generale severamente delineato dall’Ue, sia alla compressione violenta dei salari che ai meccanismi intrinseci stessi dell’euro, alla fine dei conti con l’euro si acquistano metà delle merci e dei servizi che si acquistavano con le monete nazionali e con la lira.
Per ciò che riguarda l’euro ci affidiamo totalmente, al fine di sistematizzare l’analisi, ad una lucidissima analisi di Wladimiro Giacchè (“L’euro e l’austerity. La tenaglia che ci stritola”. 24 giugno 2014). Scrive Giacchè: “Il nostro paese ha perso, dall’inizio della crisi, poco meno del 10% del prodotto interno lordo, il 25% della produzione industriale, il 30% degli investimenti. A chi paventa catastrofi nel caso di un’eventuale fine dell’euro va risposto che al punto in cui siamo l’onere della prova va rovesciato, perché la catastrofe c’è già. E la prima cosa da fare è di comprendere come ci siamo finiti e cosa fare per uscirne. Ci troviamo, molto semplicemente, nella peggiore crisi dopo l’Unità d’Italia: peggiore di quella del 1866, e peggiore di quella del 1929 (Rapporto CER n. 2/2013). O sapremo conquistarci maggiori margini di manovra effettivi sui conti pubblici, e al tempo stesso imporre anche alla Germania la politica espansiva in termini di domanda interna che sinora si è rifiutata di attuare (senza la quale ogni espansione della nostra domanda interna riproporrebbe una situazione di squilibrio della bilancia commerciale), o procederemo verso l’implosione dell’Eurozona. Ma, prima ancora, verso la distruzione della nostra capacità produttiva e della nostra economia. L’unico modo per conquistare quei margini di manovra è porre radicalmente in discussione gli ultimi Trattati e accordi europei: quelli dal marzo 2011, ossia dal Trattato Europlus in poi. Altrimenti, non resta altra strada che l’abbandono della moneta unica. Non ci sono altre vie: in particolare, non sarebbe praticabile né utile la strada di un approfondimento del processo di integrazione europeo anche da un punto di vista politico. Infatti, se non si interviene prima sull’impianto neoliberistico - mercantilistico che impronta di sé i Trattati dall’Atto Unico Europeo dal 1986 in poi – e che fa sì che la competizione tra paesi in Europa sia necessariamente tutta giocata sulla concorrenza al ribasso sulla protezione del lavoro e sulla fiscalità per le imprese – ogni ulteriore passo avanti verso l’integrazione politica rischierà inevitabilmente di rappresentare la blindatura istituzionale, tendenzialmente autoritaria, di un assetto sociale ingiusto e insostenibile. Una citazione per finire: “Quest’area monetaria rischia oggi di configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito. Infatti non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna.” Sono parole tratte dal discorso parlamentare con il quale Luigi Spaventa motivò il voto contrario del PCI all’ipotesi di adesione dell’Italia allo SME. Era il 12 dicembre 1978. Il rischio che Spaventa lucidamente aveva individuato si è concretizzato: le sue parole, purtroppo, descrivono alla perfezione la situazione attuale dell’Europa. È questa la catastrofe in cui già siamo e da cui dobbiamo uscire. Prima che sia troppo tardi ”.
Le elezioni europee del 25 maggio
E’ stato già notato come le ultime elezioni europee dello scorso 25 maggio abbiano messo in luce quattro questioni fondamentali: prima questione, il livello altissimo dei non votanti ( dei 400 milioni di aventi diritto al voto, nei 28 Paesi dell’Ue, solo 170 milioni si sono recati alle urne, il 47%); seconda questione: un terzo dei voti validi sono andati ai due poli ( di destra e di sinistra, da Maria Le Pen a Tsipras) che hanno espresso una critica radicale all’Ue; terza questione: la tenuta e il consolidamento, in Germania, della SPD e del Partito della Merkel; quarta questione: nei Paesi dove i partiti comunisti e le forze della sinistra anticapitalista sono radicati, organizzati e volti alla lotta, i successi elettorali di tali forze sono stati evidenti. L’altissimo numero dei non votanti e un intero terzo (tra destra e sinistra) radicalmente contrario all’Ue rappresentano due fatti, tra loro, speculari: da una parte l’immenso popolo europeo che non ha partecipato al voto la dice lunga sulla distanza abissale tra il tipo di costruzione di questa Ue e la coscienza popolare, del tutto estranea ad un processo unitario astratto, costruito a tavolino dal capitale, che con tutta evidenza non affonda le radici nella storia e nella coscienza dei popoli. D’altra parte, la netta contrarietà di un intero terzo di destra e sinistra di chi è andato a votare parla in modo chiaro di due questioni: la prima, relativamente alla grande avanzata delle destre estreme e neofasciste, evoca con chiarezza l’inquietante pericolo che è insito nel progetto freddo dell’Ue capitalista e neoimperialista: l’improvviso progetto di cancellazione antistorica degli stati-nazione dell’Ue attraverso le mannaie economiche di un super potere non statuale ma solamente bancario-finanziario è come il sonno della ragione che genera mostri. E’ la dimostrazione di come dalla genuflessione dei popoli non salvaguardati da una coscienza di classe può nascere in modo diretto il populismo di massa. La seconda, netta contrarietà, quella delle forze di sinistra e comuniste, parla chiaramente della grande possibilità che hanno queste forze, questi partiti, se capaci di innalzare la critica a Maastricht e alla BCE, di organizzare le lotte e costruire coscienza di massa, di crescere sino a divenire le forze veramente antagoniste all’Ue liberista.
Il voto in Germania e il PD di Renzi
Di grande e strategica importanza giudichiamo l’analisi del voto in Germania. La somma dei voti ottenuti dai partiti di governo - Cdu-Csu a destra e Spd a sinistra - segnala un arretramento di soli cinque punti rispetto alla somma dei loro risultati nelle elezioni federali del 2013. Questa è una significativa novità perché quasi tutti i partiti che attualmente governano nei paesi membri - tranne il PD in Italia - hanno subito un calo nei loro consensi, in ossequio al modello delle elezioni di secondo ordine che inquadrano le europee come una sorta di votazione di medio termine dove la volatilità elettorale è molto elevata e il voto di protesta nei confronti dei partiti di governo tende a salire. Si sono recati alle urne il 48,1% dei tedeschi, quasi 5 punti percentuali in più delle consultazioni europee del 2009 ma molti di meno delle elezioni nazionali dello scorso settembre 2013 (71,5%). Il partito di Angela Merkel (Cdu) si conferma ancora primo partito in Germania quasi uguagliando la percentuale del 2009 (- 0,6 punti percentuali). L’Spd ottiene il 27,3% dei voti, migliorando di ben 6,5 punti percentuali dalle ultime elezioni europee del 2009 e riducendo di molto la distanza dall’Unione Cristiano-Democratica egemonizzata da Angela Merkel, sua attuale compagna di governo. Qual è la lezione da trarre dalla tenuta e dal consolidamento della Grossa Coalizione tedesca formata da Cdu-Csu e dalla SPD? Non può che essere la seguente: tale tenuta, tale consolidamento, trae origine ed è il proseguimento di una storica e tradizionale pratica politica imperialista, una pratica volta ad organizzare consenso sociale ed elettorale interno, in un paese a conduzione fortemente imperialista come oggi è chiaramente la Germania, attraverso una redistribuzione del reddito resa possibile dalle politiche di sfruttamento dispiegate attraverso la politica economica internazionale. L’attuale Germania della Grossa Coalizione - subordinando a sé i popoli e le economie dell’intera Ue e avviando vasti processi di spoliazione - può permettersi una redistribuzione interna che diviene base materiale di un consenso di massa ai partiti – Cdu-Csu e Spd – che incarnano, d’altra parte, lo spirito liberista e l’attuale progetto di costruzione dell’Ue. E’ un classico dell’analisi leninista: sfruttamento imperialista sul piano internazionale e costruzione di un’aristocrazia operaia all’interno.
Il consenso al PD
Il metro di misura utilizzato per valutare il consenso di massa alla Merkel e alla socialdemocrazia tedesca può essere utile per analizzare il grande consenso organizzato in Italia dal PD di Renzi? Crediamo di si. Dopo il raggiungimento dello straordinario 40,8% da parte del PD si è levata un’onda analitica uniforme tendente a definire il PD la “nuova Democrazia Cristiana”. Dal coro analitico si è dissociata Luciana Castellina, che ha invece definito il PD renziano “il nuovo partito democratico americano in Italia”. Un’altra definizione del PD vincente è quella che attribuisce al PD la natura di un Partito Nazione. Pensiamo, al contrario, che il PD non sia né la nuova Democrazia Cristiana né il Partito democratico americano né, tantomeno, il nuovo Partito Nazione. Il PD si candida molto più verosimilmente ad interpretare in Italia il ruolo che svolgono in Germania la Cdu-Csu e la Spd. Non è, peraltro, casuale, che anche Renzi, come la Merkel, guidi un governo di Grossa Coalizione con il Nuovo Centro Destra di Alfano. Il PD non è in nessun modo la nuova Democrazia Cristiana poiché di quel partito non possiede nessun minimo afflato popolare e statalista; non è il Partito Democratico americano perché non ne possiede in nessun modo “lo spirito nazionale e di frontiera”; non è affatto il nuovo Partito Nazione perché è già totalmente chiaro che il “renzismo” non ha nessuna inclinazione a quella difesa degli interessi nazionali che sarebbe oggi più che mai necessaria rispetto al progetto di svuotamento dell’autonomia nazionale perseguito tenacemente dall’Ue. Avremo bisogno di più tempo per decodificare la grande vittoria del PD, ma già ora possiamo asserire, con onestà intellettuale, che il PD si avvia a divenire ( meglio ancora: a farsi percepire sul piano di massa) come la forza che più di altre incarna in Italia lo spirito dell’Ue, l’agente politico più conseguentemente votato alla costruzione dell’unità europea, la forza più ambiguamente “europeista” e – assieme a ciò – la forza che più di altre, all’interno del progetto di costruzione dell’Ue, dice di agire per arginare il liberismo e il rigore della BCE. Per la costruzione di questa immagine Renzi e il suo staff hanno lavorato, specie nell’ultima fase ( quella che è andata dalla campagna elettorale per il voto del 25 maggio sino all’ elezione di Junker quale Presidente della Commissione europea) alacremente. Essere il paladino europeista per eccellenza e, insieme, essere il soggetto riformatore del liberismo dell’Ue, prosciugando, attraverso questo ruolo, bacini elettorali di Forza Italia ( troppo ondivaga tra subordinazione all’Ue e populismo) e dell’intero centro destra moderato, conquistando altresì a sé parti significative della sinistra non comunista.
L’abito del PD
Come ha fatto il PD di Renzi a ritagliarsi addosso un tale abito? Se ripercorriamo l’ultimissima fase tutto è chiaro: Renzi ha, molto mediaticamente, battuto i pugni sul tavolo dell’Ue per “conquistare” lo scambio tra flessibilità economica dell’Ue (meno rigore) e riforme in Italia. Anche in questo caso lasciamo la parola ad un economista marxista, Emiliano Brancaccio, che afferma: “Renzi sta solo cercando di rinviare le scadenze e non si azzarda a toccare le regole. Durante la campagna delle primarie aveva più volte evocato la possibilità di cambiare i trattati. Ora si limita a chiedere un’austerità un po’ più “flessibile”. In sostanza, la trattativa verte su un mero rinvio di un anno o due degli obiettivi di pareggio del bilancio. Che la richiesta venga accolta è da verificare, visto che Commissione Ue ed Ecofin risultano tutt’ora ostili. Ma anche ammesso che Renzi riesca a spuntarla, otterrebbe solo un margine in più per il deficit di 0,2 punti percentuali. Una conquista risibile rispetto alla gravità della situazione. Nel corso di questi anni abbiamo registrato una progressiva divaricazione tra le narrazioni politiche e la realtà dei fatti. Lo dimostrano gli errori sistematici commessi dalla stessa Commissione Ue sulle previsioni dell’andamento del Pil nell’Eurozona: nel caso dell’Italia sono stati anche superiori ai tre punti percentuali. La mia sensazione è che Renzi stia addirittura accentuando questo iato, anziché dare un contributo per rendere le parole della politica un po’ più in linea con i processi reali”. E per ciò che riguarda la crescita e la riduzione del rigore fiscale? Così prosegue Brancaccio: “Per dare un’idea di quanto la crescita sia improbabile, basta notare che gli obiettivi di bilancio dell’esecutivo sono stati fissati sulla base di una crescita dello 0,8% nel 2014. Questa previsione è già smentita dagli ultimi dati. Nel momento in cui ci renderemo conto che l’andamento effettivo del Pil è peggiore del previsto, anche quel po’ di margine sul deficit chiesto da Renzi verrà bruciato. Per la riduzione del rigore: in realtà nemmeno questa idea è detto che sia passata. Al momento c’è solo una generica dichiarazione di apertura da parte della Merkel. Ma nero su bianco abbiamo due documenti della Commissione Ue e dell’Ecofin che si muovono in direzione opposta rispetto a quanto auspicato da Renzi. Per quanto il premier chieda briciole, la trattativa per ottenerle si annuncia comunque difficile. In cambio, oltretutto, il governo farà riforme che rispondono a due tipologie. La prima è relativa all’assetto istituzionale: accrescimento ulteriore del potere dell’esecutivo in nome della decantata governabilità. È un processo che implica un’erosione ulteriore dei margini di esercizio della democrazia. L’altra è una vecchia conoscenza: flessibilità del mercato del lavoro. Dopo il fallimento della dottrina della “austerità espansiva”, cioè della idea per cui l’austerità avrebbe garantito la ripresa economica, ora si punta su altre dosi di precarizzazione dei contratti di lavoro”.
Nella fase che precede l’elezione di Juncker a Presidente della Commissione si mette in scena a Bruxelles un vero e proprio teatrino politico, a cui possiamo dare un titolo: “Il gioco delle parti”. Renzi, come sostiene “L’Unità”, “si batte per la flessibilità e per un Patto meno dogmatico”. Lo fa asserendo di avere con sé la Merkel. Ma subito dopo i suoi interventi a Strasburgo e a Bruxelles viene brutalmente attaccato, sui media, dal Presidente della Bundesbank, Jeans Weidmann, che lo rimette in riga tuonando. “Fare più debiti non è il presupposto della crescita e alle promesse annunciate vanno fatti seguire i fatti. Le riforme in Italia vanno fatte, non solo annunciate!”. Quali siano queste “riforme” lo sappiamo… Ma l’agguato vero e proprio a Renzi lo tende Manfred Weber, il presidente del gruppo del PPE al parlamento europeo, che si scaglia contro il presidente del Consiglio italiano ricordandogli che “ L’Unione europea si costruisce con i sacrifici di tutti, grandi e piccoli!”. Non sarà da meno, negli stessi giorni, Wolgang Schaeuble, il durissimo ministro delle Finanze del governo tedesco, che abbaia contro Renzi ricordandogli, letteralmente che “ L’Italia deve uscire dai debiti con i sacrifici, non con l’economia surreale”. Ancora sacrifici, ma questa è la vera Ue. Chi mette un po’ d’acqua e zucchero nel pane duro lanciato contro Renzi dalla Buba di Weidmann, dal Finanzminister del governo germanico e dal presidente del Partito popolare europeo ? Naturalmente la Merkel, che con un sorrisino e una pacca sulle spalle dispensati a Renzi ad Ypres, può far raccontare al segretario del PD, ai media italiani, che “Si, la Merkel è d’accordo su di una nuova flessibilità economica, e il pareggio di bilancio, in Italia, sarà rinviato al 2016. E’ una nostra vittoria”. In molti ci credono e in tanti altri ancora salgono sul carro “renziano”. Ma solo in Italia, poiché in Germania le cose vanno diversamente. Dopo il discorso del 2 luglio a Strasburgo, di fronte alla plenaria del parlamento europeo, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, nell’edizione online, mette il discorso di Renzi al ventesimo posto, dietro l’incontro ai mondiali tra Germania e Francia. E alcuni giorni appresso, dopo gli attacchi contro Renzi e le carezze finali della Merkel, Cerstin Gammellin, del “Süddeutsche Zeitung”, scrive chiaramente, “ Chi lavora davvero per l’Unione europea e sa che gli obiettivi si coglieranno solo attraverso i sacrifici e le riduzioni dei debiti non deve preoccuparsi. Non vi è nessuna divaricazione tra Weidmann, Weber, Schaeuble e la Merkel; solo che il nostro capo di governo, che rispetto agli altri deve fare qualche calcolo politico in più, ha ben presente la grave debolezza politica di Hollande e l’isolamento di Cameron e non può permettersi di aprire contraddizioni profonde anche con Renzi”. Realpolitik: siamo in Germania. In Italia, sarà Eugenio Scalari (oltre i dirigenti e gli economisti comunisti e di sinistra), in un editoriale de “la Repubblica” del 29 giugno dal titolo esplicativo “ Quanto è bravo il premier. Ma chi ripaga gli errori che sta facendo?”, a centrare l’obiettivo materiale: “Ascoltando il leader italiano appena tornato dalle esibizioni di Ypres e Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata… egli assicura che il pareggio di bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti sulla crescita saranno consentiti”. “ Ma è proprio così?”, si chiede Scalfari, proseguendo: “ Proprio così non è: il pareggio di bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015…quell’esercizio sarà in votazione già nell’autunno di quest’anno e si intravede una manovra di 12 miliardi e forse più”.
Il quadro è di una chiarezza estrema
Il quadro è dunque di una chiarezza estrema: lo scambio proposto da Renzi all’Ue tra la supposta flessibilità espansiva e le riforme in Italia si riduce ad una riassunzione di fatto delle politiche liberiste dell’Ue ( rivendute in un involucro di parole scarlatte) pagata all’Ue con la distruzione finale della democrazia in Italia. La nuova legge elettorale, peggiore di quella fascista di Acerbo, è una legge golpista, che esclude dal parlamento ogni pensiero critico, a cominciare da quello comunista. Il nuovo giro di vite sul lavoro e i nuovi processi di privatizzazione completano il quadro commissionato dalla BCE.
E’ a partire da ciò che la vittoria del PD inizia ad assumere alcuni aspetti che hanno connotato la tenuta della Cdu-Csu e della Spd in Germania: Renzi si candida ad interpretare un ruolo ambiguo, volto ad incarnare, da una parte, lo spirito di Maastricht, facendo credere, d’altra parte, di essere colui che si batte per una diminuzione del rigore e per una redistribuzione del reddito ( gli 80 euro in busta paga...). Con una differenza non da poco, tuttavia, dalla Grossa Coalizione tedesca: mentre la Coalizione guidata dalla Merkel può davvero redistribuire, in virtù del saccheggio imperialista tedesco sul resto dell’Ue e sul piano internazionale, il PD di Renzi non ha alcuna possibilità reale di redistribuzione né di riaprire il mercato interno, essendo la politica salariale governativa e confindustriale nelle mani della BCE .Tuttavia, le parole scarlatte del “renzismo” sembrano ora essere un vero oppio per l’organizzazione del consenso di massa, capaci di incantare a destra e a sinistra, da Forza Italia al centro, dalla sinistra moderata agli elettori “grillini”.
L’unione europea e il ruolo dei comunisti e della sinistra di classe
Il processo violento con il quale capitale europeo tende a costruire l’unità europea delle banche e del capitale deve porci un problema di importanza strategica, quasi del tutto ignorato nella discussione tra i comunisti e a sinistra: tale processo, per essere sospinto in un contesto storico che non produce autonomamente l’unità degli stati e dei popoli europei, non potrà che essere temporalmente lungo ( decenni e decenni) e segnato da politiche antisociali continue. In questo quadro l’attualità e l’esigenza di partiti comunisti dal carattere antimperialista e anticapitalista è oggettivamente ( oggettivamente, diciamo) più centrale che mai e l’arrendevolezza di alcuni comunisti, schiacciati dalle grandi difficoltà di fase, è funzionale allo stesso disegno capitalista dell’Ue.
Il Partito comunista è dunque storicamente necessario e occorre trovare le giuste coordinate per il suo rilancio. Anche in questo caso partendo, implacabilmente, dalla messa a fuoco dell’analisi concreta della situazione concreta. A partire dall’individuazione chiara dei tre macigni che ci sovrastano: la crisi del movimento comunista in Italia; l’illegalità politica oggettiva dei comunisti in virtù della distruzione finale della democrazia che lo stesso Renzi sta portando avanti; dalla fine del centro-sinistra così come lo abbiamo conosciuto negli ultimi anni e in virtù della mutazione genetica dello stesso “PDR”, renziano.
Alla crisi del movimento comunista in Italia ( che è tale per motivi certo non totalmente attribuibili ai pur devastanti disegni di Occhetto e Bertinotti) non si potrà che rispondere con un’analisi finalmente profonda e priva di indulgenze sulla storia dell’intero comunismo italiano; un’analisi scevra da mitizzazioni e che cerchi le ragioni della crisi ben prima della “Bolognina” e che affronti con lo stesso spirito le esperienze successive. E nel rilancio, determinato e tenace, di un partito comunista all’altezza dei tempi e dello scontro di classe, tanto impermeabile (osiamo dire) alle difficoltà che il movimento comunista vive in Italia, quanto permeabile all’avanzamento epocale dei fronti antimperialisti, comunisti e di sinistra in tutti i continenti del mondo: è, questo, il valore dell’internazionalismo, nella sua spinta materiale, nella sua passione contaminante e nella sua prassi. Altre vie, come quella di “parcheggiare” i comunisti all’interno di una sinistra vaga, come pensa di fare parte di “Essere Comunisti”, o come quella che vede la risposta nel ritorno delle braccia protettive del PD, con conseguenti e “sicure” alleanze di tipo strategico, non sarebbero altro che il de profundis della stessa esperienza comunista nel nostro paese. Ma per rilanciare un partito comunista all’altezza dei tempi occorre, innanzitutto, un cambiamento di 360 gradi rispetto alle pratiche e alle politiche dei partiti comunisti che hanno lottato sinora in Italia, un cambiamento profondo delle pratiche e delle politiche in relazione al totalmente mutato contesto in cui i comunisti sono chiamati,oggi, a lottare. A partire, appunto, dalla illegalità politica oggettiva nella quale i comunisti sono stati gettati ( soppressione del finanziamento pubblico e leggi elettorali dalla natura antidemocratica, dal Parlamento agli Enti Locali).
Che partito comunista occorre, oggi, dunque, nella fase data?
Innanzitutto un partito che prenda completamente coscienza del fatto che il finanziamento pubblico sarà chiuso per una lunga fase temporale ( se non si interiorizza questo non si capisce nulla della fase, dell’esigenza che ha il capitale europeo, e di conseguenza quello italiano, di procedere speditamente e senza intralci nell’annientamento di ogni avversario), che, dunque, ogni operazione “politica” ( di quelle che si autodefiniscono con i piedi per terra e che non sono che forme diverse della resa) tendente a recedere, per “motivi materiali”, dalla ricostruzione del partito comunista è da smascherare e combattere. Come occorre interiorizzare una volta per tutte che la ricerca ossessiva della presenza nelle istituzioni (nelle quali, certo, dobbiamo cercare di esserci; che, di certo, sono molto importanti) non può più, pena la nostra fine, essere considerata la strada unica e maestra per la nostra sopravvivenza, per la quale ogni prezzo può essere pagato, anche la subordinazione allo spettro di un centro sinistra che non c’è più. Chi si attarda ancora su queste due diverse posizioni è già al funerale del partito comunista.
Bisogna stare attenti alle parole abusate, ma è palese che, specie in questa fase, la prima parola d’ordine non può essere che questa: occorre, innanzitutto, un partito comunista di lotta, che faccia cioè della lotta antimperialista ( l’Ue è per noi, oggi, il campo di battaglia, ma certo centrale rimane l’aggressività economica e militare dell’imperialismo USA) e anticapitalista lo strumento principe per l’organizzazione del consenso. Sapendo che non ci vorrà poco tempo per riallacciare i legami di massa recisi e recuperare la credibilità perduta. Ci vorrà tempo, ci vorranno anni di lotta e non dovremo essere impazienti, né valutare il lavoro col solo strumento dell’ultimo dato elettorale. Tanto abbiamo disperso, e nessuna scorciatoia sarà utilizzabile per ricostruire legami e credibilità. Dopodichè, sappiamo anche che la lotta, la coerenza, la dimostrazione sul campo di una natura politica anticapitalista e popolare sono qualità che pagano. Fosse anche alla lunga, ma pagano. Ciò che invece ammazzano sono le scorciatoie. Abbiamo bisogno di tempo e di sacrifici, ma non ci sono alternative.
I comunisti, in virtù delle nuove leggi elettorali, sono dunque nell’illegalità politica oggettiva e la difesa della Costituzione e della democrazia sono obiettivi centrali: è tempo, e siamo in grande ritardo, che essi svolgano un ruolo di sollecitazione e di collante unitario per avviare le dovute lotte contro la distruzione (ora “renziana”) degli assetti democratici nati dalla Resistenza. Non si può più attendere: già ora, di fronte a tutte le prefetture d’Italia, di fronte al Senato, alla Camera dei deputati e sotto il Quirinale dovevano esserci, sostando a lungo, anche con le tende, picchetti di denuncia, con tutte le bandiere comuniste e di sinistra.
Lotta antimperialista: esemplare è stata l’azione che il PdCI ( a cominciare dal suo Dipartimento Esteri e dalle sue Federazioni, che hanno trovato ausilio nel sito “Marx XXI” e nel sito nazionale del Partito) ha condotto contro il golpe nazifascista in Ucraina. Lungo quella battaglia si è constatato sul campo quanto un impegno di questo tipo abbia la forza di unire le parti più avanzate della sinistra e dei movimenti radicati nel sociale, del movimento contro la guerra e gli intellettuali e quanto prestigio e consenso quest’azione possa portare al partito che la traina, in questo caso il PdCI. Lo stesso ruolo d’avanguardia, in questi giorni di luglio 2014, il PdCI lo sta svolgendo in relazione all’aggressione israeliana a Gaza e di nuovo, nelle piazze, si constata l’unità prodotta ed il prestigio ottenuto dal Partito. La lotta antimperialista, dunque, non solo come questione “giusta in sé”, ma anche quale importantissimo strumento di organizzazione del consenso delle avanguardie e di massa. Nella fase forse più alta della crisi del movimento italiano per la pace, centrale è il compito d’avanguardia dei comunisti e centrale, dunque, è il ruolo del Dipartimento Esteri, che anch’esso deve attualizzare il proprio ruolo in relazione al cambiamento di fase: non solo un ruolo di diplomazia internazionale ma, soprattutto, quello volto alla costruzione dell’iniziativa sociale attorno ai temi e alle crisi mondiali scottanti. E volto alla circolazione delle idee e al rafforzamento della coscienza internazionalista e antimperialista attraverso un tipo di lavoro nuovo per il Partito: il lavoro di diffusione della cultura politica che i dirigenti del Dipartimento Esteri acquisiscono attraverso i loro contatti diretti con i partiti comunisti, antimperialisti e rivoluzionari del mondo. In che modo? Ad esempio attraverso un semplice bollettino internazionale interno al Partito in cui vi siano i resoconti dei congressi, degli incontri, dei summit ai quali i compagni del Dipartimento Esteri partecipano, e attraverso la disponibilità degli stessi compagni a tenere incontri nelle Federazioni sui temi internazionali, sullo “stato delle cose” nel mondo comunista e antimperialista. Da parte degli iscritti e dei militanti vi è un gran bisogno di cultura politica internazionale e anche una gran fame di notizie. E i compagni del Dipartimento Esteri conoscono la natura dei dibattiti in seno alle forze comuniste mondiali, le discussioni di natura politico-teorica, le problematiche geopolitiche…Ebbene, tutto questa ricchezza non può rimanere nelle teste di pochi: tutto il Partito deve usufruirne. Occorre trovare, anche in questo caso, una nuova prassi della democrazia e della costruzione della coscienza di classe.
La fase in cui viviamo ha bisogno di un partito comunista con quadri e militanti dalla forte coscienza politica e teorica, dalla forte tempra e di un’etica superiore. La coscienza di classe si conquista con la lotta e con lo studio: un partito comunista, dunque, che sia in prima fila nelle battaglie anticapitaliste, contro le guerre e il disarmo, a fianco dei lavoratori, ma che, nel contempo, si dia il compito di innalzare le coscienze, far studiare i propri quadri e i militanti, rilanciando le scuole di partito, scuole aperte, antidogmatiche, volte ad arginare e combattere l’oceano oscuro e dilagante della cultura dominante.
E occorre una forte tempra, per resistere e rilanciare la nostra opzione rivoluzionaria; ma la tempra dei quadri non la si può solo attendere, come un dono del destino: la si costruisce anche attraverso una severa selezione che escluda nepotismi e amicalità, escluda ogni tipo di corruzione, non solo quelle palesi ma anche quelle che si annidano nei processi perversi di promozione dei quadri, nella subordinazione ai “capi”, nel “leaderismo”, nel bonapartismo di partito, nei cerchi magici che si costituiscono nella debolezza, non solo politica ma anche morale, dei gruppi dirigenti. Tutte esperienze che abbiamo vissuto, dai processi di involuzione del PCI ai nostri giorni.
E occorre un’etica superiore: l’etica non può più essere considerata una qualità relativa, un’inclinazione idealistica. Ci serve Spinoza: un’etica come anticipazione di una nuova società; per noi, del socialismo. L’etica è il primo collante di ogni comunità sana, specie di una comunità rivoluzionaria. Nulla è più nefasto, all’interno del “partito comunista di guerra” di cui oggi più che mai abbiamo bisogno, delle lotte intestine fratricide, della rimozione timorosa delle divergenze politiche, della lotta interna condotta come “sommergibili”, della denigrazione occulta dei compagni e dei dirigenti, della volontà di escludere e “far fuori” compagni attraverso modalità tanto oscure quanto meschine. Un partito comunista che continuasse con queste pratiche,nella terribile fase in cui viviamo, sarebbe a priori condannato all’inerzia e alla morte e mai più sarebbe in grado di conquistare le nuove generazioni, che vivono senza più miti storici e credono solo in quel che vedono. E poiché è la legge che crea la morale, l’etica va conquistata, attraverso l’emarginazione di chi la viola.
Occorre affrontare la nuova fase con una nuova, completamente nuova, forma mentis. Dobbiamo vivere, abbiamo bisogno di autofinanziamento e per tale obiettivo occorre costruire, dalla radice, una nuova cultura, una nuova prassi. Anche in questo caso occorre studiare, studiare la storia complessiva del movimento operaio, dalle prime Leghe contadine e operaie sino alla cattività durante il fascismo. Dobbiamo sperimentare e dotarci, in ogni sezione, in ogni federazione, di commissioni che svolgano precipuamente il lavoro dell’autofinanziamento. Il tesseramento, che certo va fatto con la consapevolezza che, oggi, non è più solamente un allargamento sociale e militante del partito, ma anche una fonte materiale importante, tuttavia, da solo, non può più bastare per l’autonomia. Bisogna studiare forme nuove, recuperando le antiche, di autofinanziamento.
Centrale è la questione del lavoro. Ce lo diciamo da sempre, sino alla retorica; ma il punto è che a tale asserzione corrisponde raramente la pratica conseguente. Per affrontare la questione del lavoro non si può più improvvisare o fare le mosche cocchiere di altre improvvisazioni, anche quando esse, prese una per una, sono giuste in sé. Occorre lavorare per progetti, per campagne di massa che rendano omogeneo il lavoro del partito sull’intero territorio nazionale. Per questo, abbiamo bisogno di un grande sforzo analitico, di una riflessione profonda, che parta da un punto: quali sono, oggi, i problemi più sentiti dalle masse lavoratrici? Una, certamente, socialmente esplosiva, è quella della sottosalarizzazione di massa. Ebbene: la questione del salario appare essere quella che hanno principalmente in testa le forze comuniste, di sinistra, sindacali? No, incredibilmente no! Persino la FIOM, che pure è la punta di diamante della lotta, non sembra fare del salario la questione centrale. Dunque, è su questo terreno che i comunisti , per recuperare senso e legami di massa, debbono innanzitutto muoversi. Occorre una campagna di massa mirata, continuata nel tempo, che incida anche sulle altre forze di sinistra e sulla CGIL e le coinvolga nel lavoro. Non più mosche cocchiere, dunque, ma avanguardia, unitaria e propositiva.
E qual è un’altra questione che tocca tutti i giorni la vita concreta dei lavoratori, degli operai? La delocalizzazione, ormai assunta dalle imprese, dai padroni, su scala nazionale, come azione primaria per il mantenimento del profitto. Non esiste un territorio, in tutta Italia, in cui almeno una fabbrica, un’azienda, non sia stata delocalizzata, con centinaia di migliaia di operi e impiegati gettati improvvisamente sul lastrico. Anche in questo caso: vi è una risposta all’altezza? No. Che siano dunque i comunisti a rispondere, trasformando le vertenze da aprire in ogni territorio in una vera e propria campagna di massa. Ma contro la delocalizzazione occorre ormai una legge nazionale. Che siano i comunisti a chiamare a raccolta, dunque, tutte le forze della sinistra, sindacali e di movimento per promuovere una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare. E siamo di fronte ad una disoccupazione e ad una precarizzazione di massa dei giovani. Impegnarsi in questa battaglia ( inventando e sperimentando anche forme inedite della denuncia e della lotta, forme che conquistino, anche rompendo con tradizionali stili di lavoro, l’attenzione dei media) vuol dire anche gettare un’opa sulle nuove generazioni, far vivere, soprattutto per il domani, il partito comunista.
Vi sono questioni che sembrano ormai, anche per noi, rimosse: la scala mobile, ad esempio. La forbice ormai spalancata tra valore reale del salario e caro-vita dissangua i lavoratori, le famiglie: possiamo, dobbiamo, rimettere al centro tale questione, non accettandone la fine storica decretata dal capitale.
Ma dobbiamo avere anche il coraggio di esplorare nuovi terreni, porre altre questioni, in special modo quelle che, per egemonia della cultura dominante, noi comunisti stessi finiamo per interiorizzare come ormai immodificabili. E anche qui a partire dalle esigenze quotidiane delle masse. I ticket della sanità pubblica sono ormai così pesanti che tanta parte della popolazione rinuncia ai servizi, alle cure, alla diagnosi preventiva: centinaia di migliaia sono le donne che rinunciano ormai ad un’ecografia delle mammelle come prevenzione del tumore. Ebbene, su questo terreno i comunisti possono e debbono proporre alle altre forze di sinistra iniziative nazionali per l’abolizione dei ticket. Tuttavia, non solo una raccolta di firme per un referendum abrogativo, ma anche iniziative di denuncia, rottura, capaci di far risuonare la grancassa mediatica. Un esempio: insieme alle altre forze della sinistra politica e sindacale si sceglie una giornata per organizzare contemporaneamente sit-in in una ventina di grandi città italiane di fronte alle sedi delle Regioni e sotto gli sportelli per il pagamento ticket. Ma al lotta contro i ticket, anche se non si sta facendo, rimane un terreno in qualche modo più consueto da praticare. Ma vi sono questioni che noi stessi, accettando il potere cristallizzato delle corporazioni, non riusciamo più a mettere in discussione. Tra le tante, c’è una questione che più di altre terrorizza i lavoratori, i pensionati. Dovremmo conoscerla, con tutta probabilità la viviamo, ma non sappiamo politicizzarla. La questione è quella delle patologie dentarie, odontoiatriche. Qui, siamo di fronte ad un paradosso inesplorato: nella sanità pubblica quasi tutte le cure e gli interventi chirurgici sono ancora a carico delle Regioni. La cura dei denti, l’applicazione di una dentiera (problema enorme per tanti lavoratori in pensione, che ci rischiano la liquidazione) no. E’ come se per un’appendicectomia dovessimo andare da un chirurgo privato. I lavoratori, se debbono ricorrere a un dentista, debbono spesso accendere un mutuo. E sempre più raramente possono farlo. Perché non riusciamo più a mettere a fuoco queste gravi contraddizioni sociali e aprire le lotte necessarie? Perché la corporazione dei dentisti gode di questi sfacciati privilegi ? Per un intervento serio sulle arcate dentarie occorrono anche 30/ 40/ 50 mila euro. Tra i lavoratori nessuno li ha più. Spuntare le unghie alla corporazione privata dei dentisti, riconsegnare ai lavoratori il diritto di curarsi. Come fare? Vediamo un possibile itinerario, da delineare nella fase dell’illegalità politica dei comunisti: il partito comunista pone il problema, poi coinvolge nella lotta le altre forze della sinistra ( la CGIL, SEL, il PRC…); assieme a queste forze si lancia una denuncia pubblica e sulla scorta di essa si elabora unitariamente una proposta di legge che viene presentata in una conferenza stampa al Senato o alla Camera, con la presenza del dirigente comunista “illegale”; quindi, un senatore o un deputato di SEL presenta, a nome di tutte le forze che hanno lottato, il disegno di Legge in aula. Se il partito comunista ha svolto un ruolo di traino dell’iniziativa, anche senza essere in Parlamento ne diviene protagonista. Poi, sia un articolo sulla stampa nazionale che la Rete raccontano l’impresa… Non sarebbe questa ( e come questa ve ne sono tante da fare, tanti problemi “cristallizzati” che pesano sulle spalle dei lavoratori) una battaglia importante da condurre? Eppure non ci abbiamo mai pensato. Forse la riteniamo assurda, troppo lontana dalla tradizione? Ecco il punto: l’esigenza di un cambiamento di paradigmi nella fase iperliberista nella quale organizzare il nuovo conflitto sociale.
Ma per pensare in questo modo occorre uno stile di lavoro che da decenni non ci appartiene più. Apparteneva al PCI delle cellule nei condomini e di quartiere. Noi dobbiamo recuperarlo. Anche stando al di fuori del Parlamento.
Sono esempi, poiché solo un lavoro collettivo potrà dividere il grano dal loglio e far maturare il grano. Ciò che occorre è rimettere davvero, e non a chiacchiere, il lavoro, le nuove forme del lavoro, gli orari di lavoro, le forme di reddito garantito a chi lavoro non ce l’ha, al centro dell’iniziativa politica e sociale. E culturale: poiché su questo terreno occorre davvero studiare, per poi proporre seriamente, senza massimalismi ma anche senza pigrizie concettuali, paure.
Occorre una forma mentis nuova, dicevamo, per tutto l’agire comunista: se, ad esempio, troviamo nei dettami di Maastricht le basi materiali della sofferenza sociale di massa, perché non pensare ad una campagna informativa estesa e mirata, in modo che almeno nelle metropoli, nelle grandi città, nelle grandi fabbriche, nelle università si presenti pubblicamente un’analisi, una vera e propria lettura critica di fronte agli studenti e ai lavoratori di quel manifesto del liberismo che è il Trattato di Maastricht, tanto citato, orecchiato, ma da pochissimi davvero conosciuto?
E ancora: dobbiamo far si che tutti i militanti comunisti siano in grado di capire l’importanza del nuovo terreno di organizzazione del consenso di massa rappresentato dalla Rete, che è stato la fortuna del M5 Stelle. Abbiamo, a volte, un rapporto o pigro o “aristocratico” con questo nuovo strumento, un rapporto che ci sospinge a non utilizzarlo, a rinunciare ad organizzare il consenso di massa. Dobbiamo cambiare, a partire però da una proposta centrale che si ponga il problema di una nuova alfabetizzazione organizzativa, da calare nei territori, sezione per sezione, valorizzando,in questo tipo di lavoro, soprattutto i giovani. Occorre far lievitare uno stile di lavoro,una forma mentale legata ai tempi e che sappia trasformare in senso rivoluzionario i prodotti del capitale, la sua tecnologia ( è uno dei temi centrali del pensiero marxista). A cominciare dalla messa in campo di un giornale nazionale on line del partito comunista, obiettivo che si può cogliere anche con bassissimi costi (a condizione, appunto, di mettere a valore le giovani energie) e attraverso la più vasta rete possibile di relazioni col mondo operaio, intellettuale, sindacale, artistico. Per un giornale aperto, non autoreferenziale, sociale, popolare, la cui spina dorsale comunista e di classe non sia d’impedimento per l’allargamento delle stesse relazioni, ma un impulso alla costruzione di esse. Una capacità di costruire e allargare le relazioni che sia anche la nuova cifra del partito comunista.
La selezione severa dei quadri, l’espulsione dalla vita del partito di ogni forma di degenerazione e immoralità, il recupero della cultura leninista e gramsciana sono i prodromi imprescindibili anche per l’organizzazione di ferro di cui abbiamo bisogno, del rifiuto severo di ogni sciatteria organizzativa (a cominciare dalla cancellazione della pratica nefasta di dare compiti e responsabilità per “riconoscenza” o in virtù dei maledetti “manuali cencelli”), del ritorno all’organizzazione nei luoghi di lavoro e di studio, del ritorno della presenza comunista organizzata all’interno del mondo sindacale. E occorrono gruppi dirigenti ristretti, dalla segreteria nazionale al comitato centrale, compagni e compagne sottoposti a verifica del lavoro fatto, senza indulgenze, se prioritaria è la costruzione del partito e non le relazioni personali o la commiserazione; pochi compagni e poche compagne nei gruppi dirigenti, ma che godano davvero della fiducia del partito e che sappiano promuovere, prioritariamente, la lotta e la costruzione del partito, anche attraverso una forte e nuova democrazia interna, il coinvolgimento vero di tutto il partito nelle decisioni. Democrazia, trasparenza, abolizione culturale e pratica del leaderismo. A nessun giovane, infatti, interessa entrare in una caserma, in una casa senza finestre o dentro un ring che vede soprattutto svilupparsi la lotta tra compagni, succedaneo storico della lotta ai padroni.
E occorre dotarsi di un profilo politico e teorico all’altezza delle nuove contraddizioni, senza indulgenze rispetto alle elaborazioni stantie, evitando accuratamente, rispetto alle questioni politiche e teoriche da rilanciare, ogni dogma e ogni coazione a ripetere, a cominciare dal mettere in discussione la gerarchie delle libertà: la libertà dai bisogni è certamente decisiva, ma dobbiamo imparare a mettere sullo stesso piano le libertà dai bisogni e le libertà umane, individuali. Togliatti aveva già preso le distanze e confutato un’analisi di Galvano Della Volpe tutta intenta a ristabilire, dogmaticamente, la gerarchia ferrea della libertà dai bisogni su quella delle libertà personali. Solo con questa rottura, già togliattiana, potremmo intrecciare tra loro i valori del lavoro con quelli della liberazione dal lavoro, con quelli della differenza di genere, dei diritti delle diverse sessualità, della difesa di un ambiente snaturato dal “sansimonismo” imperante e da ripensare strategicamente in relazione ad una concezione del mondo rivoluzionaria, legata alla qualità della vita dei lavoratori e degli individui e non più succube della maledizione del profitto. Un impegno che, non a caso, sta portando avanti, al di là della denigrazione imperialista, il più grande partito comunista al mondo: quello cinese.
Se l’intreccio tra tali questioni viene fatto a partire da una cultura marxista, comunista e rivoluzionaria i pericoli del “particulare”, delle “questioni in sé”, mancanti di contesto, si evitano e “il tutto che si tiene”, può divenire pensiero e azione dell’azione politica concreta, a tutto raggio. Un profilo politico e teorico all’altezza che segni di sé anche il Programma Generale di cui il partito deve dotarsi e che dovrebbe essere presentato nei convegni pubblici, nelle piazze, in assemblee di lavoratori e studenti, anche senza la pretesa che, all’inizio, tali assemblee siano di massa. L’obbiettivo è la disseminazione e la circolazione delle idee. Un Programma Generale al quale chiamare al confronto le altre forze della sinistra, gli intellettuali, i lavoratori, gli studenti. Attraverso il quale presentare la nuova identità dei comunisti, così da provare a respingere le demonizzazioni che contro di essi, in questi ultimi decenni, in Italia, sono state lanciate.
Solo con un partito comunista di questo tipo “nuovo” potremmo affrontare i temi politici centrali che sono sul tappeto e che oggi rappresentano l’abbrivio per ripartire: unire i comunisti che intendono consapevolmente unirsi per ricostruire il partito comunista in Italia e unire la sinistra di classe.