La costruzione del Polo imperialista Europeo nella competizione globale
Seminario Nazionale promosso dalla Rete dei Comunisti
PADOVA
Sabato 19 Marzo 2016 dalle ore 10.00 alle ore 17.00
Sala Polivalente via Diego Valeri, 19 (a 400 metri dalla stazione FS)
L’attuale fase di crisi è il motore che alimenta costantemente l’aggressività militarista e le proiezioni di potenza, per affrontare la quale le borghesie continentali europee si stanno cimentando da anni nella costruzione di un polo imperialista, in grado di competere con il colosso statunitense e le altre economie “emergenti”.
Se, come riteniamo, l’imperialismo non sia una politica, ma uno stadio di sviluppo del capitalismo, si tratta di capire come nel nostro Continente questo processo materiale trasforma e piega alle esigenze del capitale finanziario e industriale la realtà politica, sociale, economica e militare all’interno e nel raggio d’azione dell’Unione Europea.
La nascita dell’Euro è stato un fatto economico nella forma dello strumento usato ma è stato in realtà il prodotto di una strategia politica che puntava, nella fase postsovietica, a dare vita ad un soggetto competitivo a livello mondiale assumendo il carattere di un polo imperialista; ovvero non uno Stato vero e proprio ma una formazione statuale in evoluzione rispetto alle condizioni che si andavano storicamente manifestando già dagli anni ’90.
Dal momento in cui è nata la moneta europea (l’Euro) si è incrementato un processo di ristrutturazione finanziaria e produttiva, e infine sociale e statuale, che sta portando a compimento la scelta di essere protagonisti nella competizione globale in atto. I processi d’integrazione finanziaria e i trattati via via stipulati tra gli Stati, i processi di centralizzazione e acquisizione delle imprese a livello continentale, la divisione del lavoro e la ristrutturazione sociale sempre in ambito comunitario sono tutti atti che procedono verso la costruzione organica di un polo che non ha ancora definito fino in fondo le forme statuali possibili ma che marcia con decisione in quella direzione.
Tutto ciò in un contesto storico che con le sue fasi di crisi sta producendo una accelerazione nella omogeneizzazione dell’area continentale; accelerazione che si sta manifestando in questo periodo, ad esempio, con l’aggressione sociale alla Grecia costringendola all’accettazione dei ricattatori Memorandum e con le vicende belliche in atto in Medio Oriente e nell’Africa del Nord, ma che ormai, con gli ultimi attentati a Parigi, tracimano sempre più dentro lo stesso spazio dell’Unione. Il massacro di Parigi si è trasformato, per l’establishment europeo, in un’ottima occasione per accelerare il processo di costruzione dell’esercito europeo, come atto decisivo per sancire l’Europa Superpotenza in possesso anche, con i soliti francesi, dell’armamento nucleare.
Ma la capacità egemonica del progetto europeo si sta misurando anche con quel processo migratorio messo in moto dagli stessi paesi europei con l’aggressione alla Libia e alla Siria, che sta portando nel continente milioni di persone. Anche qui la sfida per le borghesie è di integrare nuova Forza Lavoro nell’apparato produttivo europeo, riducendo il costo del lavoro sia per gli immigrati sia per i cittadini europei, rendendo complessivamente più competitivo a livello mondiale il sistema produttivo continentale e quello tedesco in primo luogo.
L’iniziale rappresentazione mediatica degli sfollati dalle guerre accolti a braccia aperte, deve fare i conti ora con le contraddizioni interne ai vari paesi europei, che chiudono le frontiere contraddicendo platealmente il trattato di Schengen. Le immagini dei migranti che passano le frontiere europee con la bandiera blu dell’UE e la fotografia della Merkel ricordavano scene di propaganda di altri tempi, sulle quali oggi la cancelliera si gioca una partita politica di primaria importanza, che ne nasconde una di ben più ampia portata, attinente appunto la trasformazione del mercato del lavoro ed alla competitività del più potente tra i paesi europei.
1. Migrazioni bibliche verso l’Unione Europea. Inserimento nell’assetto produttivo e populismi come fenomeno di “normalizzazione” interna
I flussi migratori che caratterizzano l’attuale fase storica sono il più grande “effetto collaterale” delle guerre di aggressione degli ultimi 25 anni. Le conseguenze materiali di queste migrazioni bibliche sono ancora tutte da dispiegarsi nelle loro implicazioni economiche, sociali e politiche. L’impatto concreto di questi flussi sino a oggi ha prodotto grandi contraddizioni in seno ai paesi meta dei “viaggi della speranza”. I trattati europei e le norme nazionali selettive / discriminatorie sono proliferate, così come i movimenti populisti, xenofobi e razzisti.
Nel suo ultimo rapporto annuale, l’Alto Commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) parla di oltre sessanta milioni di persone costrette a fuggire dal proprio paese, per trovare scampo e riparo da guerre economiche e militari. Un fenomeno che interessa tutto il mondo, ma che nell’area geopolitica euromediterranea assume i connotati di un vero terremoto politico, sociale, economico e militare. Quali, quante e di che qualità saranno le trasformazioni indotte dall’immissione nell’apparato produttivo dell’UE di milioni di operai e tecnici specializzati è oggetto della riflessione, dell’analisi, dell’indagine e del confronto che iniziamo con questo seminario.
Certamente l’immissione di forza lavoro già qualificata e proveniente dagli ex stati laici arabi offre un’importante occasione competitiva per le caratteristiche del sistema produttivo della UE. Inoltre è un’immigrazione che si associa alla migrazione interna, ad esempio dai paesi PIGS verso quelli del Nord Europa, che crea le condizioni ottimali di sfruttamento, producendo un livellamento verso il basso dei salari e incrementando la precarietà, condizione permanente per i lavoratori europei ed immigrati messi in perpetua competizione tra loro.
Ci sono poi effetti non direttamente produttivi, come quello del sostegno al Welfare e al sistema pensionistico, che deriva direttamente dall’immissione nella produzione di fasce di popolazione ben al di sotto dell’età media degli europei. Ad esempio nel nostro paese, dove si registra praticamente l’equivalenza degli emigrati italiani (circa 4.500.000) con gli immigrati (poco oltre i 5.000.000), l’ISTAT ha comunicato che il sistema pensionistico di fatto si regge sui contributi degli immigrati. Così come gli effetti dell’immigrazione si vedono sia sui risultati del PIL sia in quelli demografici.
Altra fonte imprescindibile per l’analisi dell’impatto che la presenza dei migranti ha nel nostro paese è il Dossier Statistico Immigrazione della Caritas, in base al quale emerge come nel 2015 (http://www.dossierimmigrazione.it/docnews/file/Scheda%20Dossier%202015%284%29.pdf) l’incidenza sulla popolazione residente è dell’8,2%, che gli occupati sono 2.294.000, suddivisi in agricoltura per il 5,0%; nell’industria per il 29,2%, nei servizi per il 65,7%. Nel bilancio costi/benefici l’attivo che proviene da questi lavoratori e lavoratrici per le casse statali è di 2,9 miliardi di euro (+3,1 miliardi includendo i contributi previdenziali).
Da questi dati emergono le potenzialità di un settore importante del mondo del lavoro, che può uscire dalla marginalità imposta sia dalle campagne razziste e xenofobe funzionali alla divisione all’interno della classe, sia dal “buonismo” di una sinistra che sino a oggi non ha usato né un’analisi giusta del fenomeno, né un approccio di classe, in grado di inserire nei conflitti che vedono protagonisti anche gli immigrati elementi oggettivi di unificazione.
Inoltre in un’epoca di accentuazione dei conflitti internazionali, d’incertezza e di restringimento dei mercati di sbocco si crea l’opportunità di ricollocare le produzioni fino a ieri delocalizzate all’estero ma che oggi possono essere riportate nella dimensione continentale. Fenomeno che non sta avvenendo solo in Europa ma anche gli Stati Uniti, dove stiamo assistendo a un graduale rientro delle produzioni, grazie proprio alla modifica della situazione internazionale.
L’analisi dettagliata di questo fenomeno si rende indispensabile per capire come bisogna agire per non far divenire un’ulteriore occasione di guerra tra poveri quello che sta accadendo. Così come si deve rifiutare e combattere con determinazione la xenofobia che la destra propaganda e fomenta, occorre nello stesso tempo prendere le distanze dal buonismo della cosiddetta sinistra, che paventa soluzioni in base a una non definita disponibilità del popolo italiano, di cui i migranti devono essere passivi beneficiari. Una forma subdola di “razzismo alla rovescia” da rifiutare e combattere politicamente.
La contraddizione italiani/immigrati non esiste da un punto di vista materiale, non a caso gli emigrati italiani equivalgono nei numeri gli immigrati, né questi sono competitivi nel sistema produttivo poiché, di fatto, coprono lavori e funzioni diverse dagli autoctoni. Quello che la cultura dominante ci propone è dunque una visione ideologica che avvantaggia chi trae beneficio dalla lotta tra poveri, dal tutti contro tutti.
Dunque la battaglia da fare si deve misurare anche con il contrastare l’ideologia dominante proponendo un’altra visione delle cose per dimostrare con i fatti l’interesse di classe comune tra immigrati e italiani. Questo può avvenire solo con un protagonismo politico degli immigrati, se si porranno non solo dal punto di vista di migranti ma anche come parte della classe del nostro paese.
Non è certo la prima volta nella storia del movimento dei lavoratori e dell’Italia che gli “ultimi” agiscano non dal loro specifico ma da un punto di vista generale, rompendo così quell’isolamento che le classi dominanti vogliono imporre. È sufficiente citare l’impatto che ebbe nel conflitto di classe a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso il protagonismo dei migranti provenienti dal Sud Italia, “educati al conflitto” da una soggettività politica e sindacale formatasi al Nord nella lotta antifascista prima e nello scontro di classe di quegli anni.
Non sarà un terreno facile da praticare viste le contraddizioni materiali e culturali in campo ma un tale processo è possibile solo a condizione che le organizzazioni di classe politiche e sociali del nostro paese si porranno questo processo organizzato come obiettivo politico da raggiungere concretamente.
Le contraddizioni che si sono generate con l’inserimento della forza lavoro immigrata sono anche il risultato, voluto, di uno Stato che non è più al servizio della società ma a quello dei poteri finanziari e multinazionali dell’Unione Europea. Questo è un terreno unitario ed un problema che riguarda direttamente la condizione della classe lavoratrice nel suo complesso ed in tutte le sue articolazioni.
Non ci possiamo limitare a fare la sacrosante battaglia contro la destra e contro il razzismo. Se è vero che il sistema pensionistico ed il Welfare italiano è sostenibile grazie al lavoro degli immigrati, esistono oggettivamente terreni di battaglia comune. La contraddizione che ci viene rappresentata è solo una rappresentazione ideologica, che mira a rompere e frammentare un possibile fronte unitario.
2. Le forme delle guerre nel secolo XXI
I colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui, nel 1999 dettero alle stampe un testo di strategia militare in gran parte ancora attuale, dal titolo: “Guerra senza limiti – L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione”. Senza la pretesa di essere un testo complessivo, lo scritto continua a darci alcuni spunti di riflessione sul legame tra un dato stadio di sviluppo delle forze produttive e l’agire degli uomini organizzati in determinate strutture politico / militari, sia di carattere “tradizionale” (Stati, alleanze, Organizzazioni internazionali, coalizioni), sia di carattere “privato” o “informale” (banchieri, agenti di commercio, finanzieri, movimenti di guerriglia, hacker, terroristi singoli o organizzati). I progressi della tecnologia informatica, la velocità del flusso d’informazioni che ne è conseguito, la loro applicazione ai sistemi d’arma, hanno permesso un salto nella pratica militare di notevoli dimensioni. I primi bombardamenti “intelligenti” su Bagdad nel 1991, le profonde “proiezioni di potenza”, il lancio di missili balistici da migliaia di chilometri di distanza, l’uso di aerei a tecnologia stealth. Tutto questo abbagliò l’opinione pubblica mondiale ed ha paralizzato per molti anni gli avversari militari del colosso a stelle e strisce.
L’abbaglio si è trasformato in assuefazione, indifferenza quando non in consenso. Il movimento pacifista d’inizio secolo, definito “seconda potenza mondiale” dai mass media, si è dissolto e la paralisi delle altre potenze nucleari si è trasformata in una nuova corsa agli armamenti.
Dopo la fine della “guerra fredda” la deterrenza nucleare pareva aver assunto un ruolo secondario, a causa della spinta unilaterale e incontrastata della potenza uscita vincitrice dal confronto con il colosso sovietico: gli Stati Uniti d’America. La distruzione sistematica di Stati facenti parte dell’area afferente al blocco sovietico o ai paesi “non allineati”, Il bombardamento dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999, l’espansione della NATO a Est, davano l’idea di un avanzata incontrastata ed incontrastabile dell’imperialismo statunitense, che trascinava dietro a se coalizioni “internazionali” a geometria variabile, determinate dalla transitoria incapacità delle altre potenze di svincolarsi dal dominio militare USA.
L’emergere con sempre più forza del polo imperialista europeo mette in costante fibrillazione l’Alleanza Atlantica, storica camera di compensazione tra interessi sempre più divaricanti in ogni scenario geopolitico e bellico, come dimostrano i contrasti sotto traccia in Ucraina oggi come in Georgia nel 2008, così come nel recente e attuale scenario libico, dove un’autonoma manovra militare dell’Unione Europea (EUNAVFOR MED) pianifica il prossimo intervento armato.
Questa nuova realtà, insieme ai BRICS e al polo islamico (paesi del Golfo e il loro uso strategico dell’ISIS), ma soprattutto il nuovo protagonismo militare russo e cinese, impone agli statunitensi, così come a tutti i soggetti in campo di ponderare con estrema attenzione ogni passaggio nei conflitti locali in corso. Il bisogno di espansione dell’economia capitalistica deve fare i conti con un limite a oggi invalicabile, che aumenterà esponenzialmente le contraddizioni di una crisi che, per essere risolta, avrebbe bisogno di distruzioni ben più ampie di quelle determinate in questi anni nei paesi della periferia del mondo.
Il genio della guerra è di nuovo uscito dalla bottiglia e per gli “apprendisti stregoni” sarà molto difficile farcelo rientrare, poiché la capacità di controllo dimostrata nel sistema bipolare del ‘900 oggi non è riproducibile in un mondo multipolare, messo alle corde da una profonda crisi strutturale.
Ma stanno emergendo anche forme inedite di guerra per il nostro continente. La strage a Parigi del 13 novembre scorso, così come il massacro di Madrid dell’11 settembre 2004 e di Londra del luglio 20005, sono epifenomeni di un conflitto asimmetrico iniziato oltre 25 anni fa, che sempre più frequentemente torna nelle metropoli imperialiste europee dopo aver devastato interi Stati, con un costo umano incommensurabilmente superiore ai pur gravissimi episodi menzionati.
Alla luce delle risposte confezionate dal governo Hollande dopo la strage nella capitale francese, questi “effetti collaterali” si ripeteranno in dimensioni probabilmente ancor più devastanti, in una spirale funzionale alla continuità delle politiche imperialiste europee, sulla quale concentrare l’attenzione, evitando di perdere il filo conduttore dell’analisi delle cause di fondo dell’attuale competizione internazionale, di cui la guerra guerreggiata è una delle espressioni.
La guerra contro i tanti “Stati canaglia” creati ad arte in questi anni è stata vinta, con tutta evidenza, dalle coalizioni militari costruite di volta in volta alla bisogna. Il “caos creativo” pianificato e ottenuto dagli strateghi del Pentagono e di Bruxelles nei vari paesi investiti dalle operazioni “di pace”, ha determinato la distruzione sistematica delle formazioni statuali pre esistenti. Una condizione ideale, per il controllo “a distanza” d’immense aree geografiche, risorse energetiche e umane. In queste condizioni, la presenza militare delle truppe imperiali in loco è ridotta a poche truppe molto specializzate, i picchi d’instabilità che di volta in volta si determinano vengono smussati da “operazioni di polizia” in coordinamento e a sostegno dei pretoriani locali, addestrati e armati dalle potenze occidentali. Una soluzione ideale, per massimizzare i profitti e minimizzare i costi (per i paesi aggressori, ovviamente).
Questa strategia oggi rischia di ritorcersi contro chi l’ha promossa e in particolare verso gli europei, la cui instabilità non dispiace agli Stati Uniti. La guerra contro i “dittatori” e gli islamisti rischia di venir combattuta sul territorio dell’ Unione Europea.
Lo stanno dimostrando sia il sostegno del governo USA ai nazisti ucraini che va ben oltre le volontà dei governi europei e la “moderazione” con cui hanno colpito per un anno e mezzo l’ISIS, nonostante l’alleanza contro il terrorismo in cui sono presenti Turchia ed Arabia saudita, essi stessi sponsor dei terroristi islamisti.
Tutto il resto è propaganda, finalizzata a legittimare la continuità delle missioni militari, nella quale sono impegnate h 24 le cosiddette “armi di distrazione di massa”, maneggiate magistralmente da un esercito di giornalisti e intellettuali “embedded” che martellano l’opinione pubblica con una propaganda bellicista a 360 gradi, rivolta sia alla pancia del paese, sia a fasce di popolazione definibili come “coscienza critica” della società.
Dai trogloditici messaggi che trasformano il cosiddetto “scontro di civiltà” in banale odio verso i disperati che fuggono dalle guerre, sino alla retorica del “peace keeping”, si è costruita progressivamente un’egemonia culturale trasversale che legittima e sostiene gli interventi militari all’estero, creata ad arte dalle classi dominanti europee per piegare alle esigenze di costante ristrutturazione produttiva interna le contraddizioni che le guerre generano.
3. Dal Neocolonialismo del ‘900 alle terre di nessuno del secolo XXI
Le trasformazioni strutturali degli ultimi venticinque anni e lo sviluppo di nuove forme d’intervento militare stanno ridisegnando la mappa della competizione globale.
A ogni fase di sviluppo del capitalismo sono corrisposti modi specifici di “proiezione militare”, comando e dominio. Colonialismo e neo colonialismo sono stati modi concreti di un processo storico in pieno svolgimento. La vicenda del ‘900, con le grandi rivoluzioni proletarie (il ‘17 bolscevico e il ‘49 maoista) che ne ha condizionato profondamente la dinamica, ha costretto per una lunga fase le grandi potenze capitalistiche e l’imperialismo anglo/americano a dover riadattare il modello di sfruttamento delle risorse energetiche e dei popoli del terzo mondo.
Il passaggio avuto all’epoca dal colonialismo al neo colonialismo sintetizza quindi sia un avanzamento complessivo dei sistemi produttivi raggiunti in Occidente, sia il bisogno di rispondere a un antagonista che aveva assunto caratteristiche e dimensioni potenzialmente mortali per la continuità stessa del modello capitalistico, in termini di alternativa sistemica. Parallelamente a quei processi di vera emancipazione, molti paesi furono “accompagnati” all’indipendenza nazionale dalle stesse potenze coloniali, che evitavano così di recidere il cordone ombelicale con borghesie locali funzionali alla continuità dello sfruttamento, attraverso i meccanismi di sviluppo ineguale che ben conosciamo.
L’89 e il rovinoso crollo del muro di Berlino ha chiuso una intera parabola storica, determinando le condizioni per nuove forme di dominio del capitale a livello internazionale. Nel giro di pochi anni, grandi processi di emancipazione economica, politica, sociale, culturale e di costumi, che avevano permesso a tanti popoli africani, mediorientali e asiatici di uscire da una condizione spesso sub umana, sono stati interrotti con la forza delle armi. La distruzione scientifica d’intere strutture statuali (parlamenti, eserciti, strutture amministrative), ha determinato le condizioni di un’instabilità perenne, funzionale al controllo sulle risorse e sui territori. Un micidiale tritacarne, che ha devastato Iraq, ex Jugoslavia, Afghanistan, Sudan, Ucraina, Libia e che continua a macinare vite umane e interi Stati, come possiamo osservare nello scenario siriano e yemenita.
La domanda emersa in questi anni - alla quale di sovente abbiamo risposto con prese di posizione dettate dalla contingenza piuttosto che da una riflessione profonda e ponderata - è se siamo di fronte alla riedizione di forme classiche di colonialismo o seppure stiamo osservando fenomeni completamente nuovi di dominio capitalistico a livello globale.
Come in ogni processo storico, il vecchio e il nuovo convivono e la Storia procede con fatica, attraverso continui strappi, cesure, balzi indietro e in avanti. La vicenda irachena è, per il nostro tentativo di analisi e comprensione dei processi in atto, paradigmatica. In quel martoriato paese si è passati dal pro console statunitense Paul Bremer imposto nel 2003 con le baionette dei marines all’attuale avvicinamento del governo a guida sciita alla Russia di Putin sul fronte siriano.
Nell’arco breve di 25 anni si è così riproposto, in una vastissima area geografica, un meccanismo di aggressione, occupazione e rapina devastante che in precedenza si era dispiegato in un arco storico ben più ampio, con una novità, indotta dall’incapacità da parte dei paesi imperialisti di occupare e gestire direttamente i territori, come dimostrato in Afghanistan, in Iraq e ora in Libia. Si è andati così alla creazione di “terre di nessuno” dove prima esistevano Stati indipendenti e sovrani.
Le terre di nessuno ipotizzate dall’imperialismo USA e della UE rischiano cosi di divenire velocemente, nella ferrea competizione globale terre “degli altri”, ingenerando nuovi conflitti ed amplificando quelli già esistenti. Situazione esplosiva per tutti, poiché il processo militare messo in moto non è più governabile ne sul piano della guerra “classica”, tantomeno su quello di un confronto nucleare, in una condizione nella quale i possessori di ordigni nucleari si sono moltiplicati.
In sintesi, possiamo dire che siamo dentro un gorgo dove gli interventi militari portano alla disarticolazione e tribalizzazione dei vecchi Stati, e questo a sua volta produce emigrazione, che impatta direttamente sul polo imperialista europeo, che usa questa dinamica per poter partecipare con più forza alla competizione globale aumentando le divisioni e lo sfruttamento della classe lavoratrice.
4. Imperialismo e “sinistra imperiale”
La principale “vittima” dello scontro in campo e dell’egemonia esercitata dal polo imperialista europeo nella società è la sinistra europeista, che in questi anni non si è mai misurata con le vere contraddizioni che si andavano manifestando a livello mondiale. Ancorata alla visione mitologica di un’Europa dei Popoli, questa sinistra ha attraversato tutte le fasi dell’opposizione e di governo “possibili”, utilizzando i sempre più residui spazi di manovra di sistemi istituzionali in rapida trasformazione iper-autoritaria.
Un’ipotesi, quella della riformabilità dall’interno dell’Unione Europea, che si è evidentemente esaurita, come dimostra la recente esperienza greca di Syriza, più in generale l’etero-direzione da parte della Troika delle politiche interne dei paesi con meno capacità contrattuale. Nonostante l’evidenza, questa sinistra continua a ipotizzare percorsi di autoriforma della UE, sintomo evidente, più che di una subalternità, di una introiezione delle regole e degli orientamenti di fondo che governano e guidano la costruzione del polo imperialista europeo, i quali trasudano eurocentrismo, colonialismo, razzismo e guerra.
Come nei primi anni del secolo scorso, quando il movimento operaio si divise sul voto ai crediti di guerra, questa sinistra è di fronte a scelte ineluttabili, che la posizionano sempre più al fianco di una classe dominante determinata ad utilizzare ogni rappresentanza politica che si mette a disposizione, per affrontare la feroce competizione in atto per il dominio dei mercati e delle aree geografiche dove risorse energetiche e umane si trovano in abbondanza.
Rete dei Comunisti, 23 Febbraio 2016