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8 dicembre: in gioco a Torino non c’è solo la Tav

La manifestazione torinese del 10 novembre dei sostenitori del TAV ha inevitabilmente richiamato in molti commenti e con diversa pertinenza, la “ marcia dei 40.000”, uno degli eventi, a buon diritto, divenuti simbolo della storia del ‘900 e della sconfitta del movimento operaio in Italia.

Tentare un parallelo con i fatti del 1980, la drammatica fine dell’occupazione della Fiat e la conseguente ristrutturazione con decine di migliaia di licenziamenti, di fatto il primo squillo dell’offensiva padronale che nei decenni a seguire avrebbe assunto la fisionomia del neo-liberismo, è stato per taluni l’espediente per una operazione di bassa mistificazione: il sussulto orgoglioso di una “società civile” operosa soffocata dalle pretese conservatrici di valligiani incapaci di cogliere le opportunità di crescita di una grande opera quale la TAV.

Tanto gli operai Fiat furono negli anni ‘80 l’ostacolo da rimuovere per riaffermare il primato incontrastato della cultura aziendale, quanto il movimento No TAV è l’intralcio oggi per la realizzazione di una grande opera infrastrutturale, in realtà un esempio di devastazione speculativa del territorio, all’altezza delle esigenze del modello produttivo europeo.

Un breve inciso, la storia dei decenni successivi ha fatto strame delle ragioni dei sostenitori Fiat e il declino inarrestabile della città simbolo dell’industrializzazione, con l’abbandono scientificamente programmato del territorio, è tuttora un dato che pesa come un macigno sulla città.

Tuttavia, se la storia ha reso abbastanza chiaro cosa prevalentemente rappresentasse la piazza torinese dei 40000 (in realtà molti meno): componenti dell’aristocrazia operaia, ceto impiegatizio, settori della distribuzione, piccola borghesia, terrorizzati dalla prosecuzione di un conflitto che ne ridimensionava il peso specifico in azienda e sociale nella città, sostenuti dall’illusione di trovare nelle ragioni del grande capitale industriale, la Fiat, e per questo foraggiati, le condizioni per il riprodursi della loro esistenza sociale.

Va compiuto, allora, un tentativo di interpretazione della cronaca della piazza dei sostenitori della TAV.

Abbandonata la suggestione di luoghi e simboli, che pure hanno un loro peso, la piazza del 10 novembre ha messo in campo una rappresentazione delle difficoltà dei settori produttivi, del mondo delle imprese e delle professioni, che hanno affrontato la deindustrializzazione, la disgregazione della città fabbrica concepita intorno al polo trainante dell’automobile, a trovare una propria collocazione negli spazi sempre angusti di una competizione in cui il ruolo delle aree territoriali nell’attrazione di capitali per investimenti è decisivo.

La prospettiva di perdere gli investimenti della linea TAV Torino-Lione, la cui funzionalità ed utilità come ormai dimostrato è sostanzialmente nulla, allontanerebbe, forse in modo definitivo, la metropoli torinese dall’orbita del centro finanziario e produttivo della Unione Europea. Appare evidente come in assenza di alternative la perdita degli investimenti provenienti dalla TAV, sarebbe un segnale inequivoco di autoesclusione dalle relazioni del mondo imprenditoriale torinese, produzione, servizi, turismo, con il sistema di relazioni finanziarie globali. La necessità dell’investimento e di capitali sempre più consistenti per garantirne la redditività è il fondamento delle economie cosiddette di mercato e l’impossibilità di garantire un adeguato finanziamento pubblico per i noti vincoli di bilancio imposti dai trattati europei rende decisive le relazioni del territorio con i flussi del sistema finanziario globalizzato. Un territorio attrattivo e ben disposto ad accettare le modalità dell’investimento privato, al di fuori di una programmazione definita sulla base delle necessità urbane, o nella migliore delle ipotesi, in cui le necessità urbane operano come mezzo per la redditività dell’investimento rappresenta una necessità strutturale.

La perdita delle Olimpiadi invernali, i rischi del Salone del libro (depotenziato dalla concorrente Fiera dell’editoria avviata recentemente a Milano), la vicenda TAV, non sono incidenti di percorso ma possono decidere la marginalizzazione della metropoli di Torino dal giro degli affari per un futuro non breve.

In gioco non vi è solo la collocazione dell’area territoriale torinese nelle relazioni con i paesi core dell’Unione Europea, ma la crescente subalternità nella competizione con l’area territoriale milanese ormai organicamente legata al sistema finanziario, produttivo e commerciale dell’Europolo.

La necessità di costruire un sistema di sostegno intorno agli interessi delle aziende, con un rappresentanza politica, come nel caso lombardo, che indipendentemente dalla guida piddina o leghista garantisca l’imprenditoria territoriale con una capacità forte di interlocuzione delle istituzioni locali con il governo nazionale, è il tema politico posto dalla piazza torinese.

Gli atteggiamenti ondivaghi della giunta pentastellata, la rinuncia alla candidatura per le Olimpiadi invernali a vantaggio di Milano, (anche la gestione della candidatura indipendentemente dall’assegnazione è un affare), rendono ancora più stridente il confronto con Milano, che nel binomio grandi opere/eventi garantisce l’incontro, a connotati affaristico-speculativi, del sistema di imprese del territorio con il capitale multi-trans nazionale, Expo docet.

La piazza Si TAV è, allora, il contenitore degli interessi di classe del mondo delle imprese territoriali alla ricerca di una collocazione nella gerarchia dei rapporti con il centro del sistema economico europeo. L’atteggiamento del governo e della giunta pentastellata, arroccata dietro ragionamenti di utilità ed opportunità dell’opera è fuori sintonia con le esigenze stringenti del processo di valorizzazione, di cui l’apparato infrastrutturale, e il relativo modello di business, è componente essenziale.

L’ingresso in campo dell’intero mondo dell’associazionismo padronale nel sostegno alla TAV, con il manifesto delle imprese, è un ulteriore segnale della posta in gioco: i 451 milioni di fondi europei messi a disposizione per la realizzazione dell’opera sono linfa vitale; così come, su scala nazionale, l’intero piano di 27 grandi opere, con pratiche già istruite, per un ammontare di oltre 24 miliardi sono il punto cruciale della relazione del governo con il sistema delle imprese e della sua possibile tenuta politica.

Insomma, la definizione di una borghesia organicamente legata alle dinamiche del processo di costruzione economico europeo, alle sue infrastrutture e gerarchie, impegnata in una competizione interna per la conquista dei propri spazi di valorizzazione, si palesa in tutte le sue sfaccettature economiche, sociali e politiche.

Intorno al tema delle grandi opere si costruisce una cornice ideologica “dell’interesse nazionale” coincidente con quello delle imprese, con una visione del paese totalmente assoggettata agli interessi dell’appropriazione privatistica come unico veicolo per l’ammodernamento del paese.

La condizione di conclamato degrado in cui versano interi territori e aree metropolitane, è l’evidente risultato di un progressivo annullamento del ruolo di programmazione del pubblico dello sviluppo dei territori, della fine della centralità dell’intervento pubblico, ridimensionato a ruolo sussidiario rispetto al capitale privato.

La logica del profitto e il modello di business non possono sostenere progetti che per loro natura sono collocati nel lungo periodo, il finanziamento privato, quando arriva, rivela sistematicamente la propria logica speculativa, contraria e opposta alla pianificazione dello sviluppo dei territori.

Al contrario, la necessità di recuperare un ruolo strategico all’interno del soggetto pubblico nella definizione e valorizzazione del territorio, rappresenta un aspetto decisivo per recuperare una visione di interesse generale nel sistema di relazioni: le privatizzazioni delle strutture e delle funzioni pubbliche, sono stati all’origine del declino e in molti casi dell’abbandono dei territori.

Affidare allora ai privati un piano di grandi opere - di cui non si esclude in taluni casi la necessità – per l’ammodernamento del paese, la cui ragione portante è però fuori dalla sfera dell’interesse generale e della maggioranza dei cittadini, significa perseverare in una concezione della crescita dell’economia affaristica sganciata da una prospettiva di reale sviluppo.

La condizione generale del paese indica nella mancanza di intervento pubblico la vera emergenza nazionale. Una funzione resa impraticabile dagli obblighi imposti dai trattati sui cosiddetti Patti di di Stabilità finanziaria a cui è urgente rispondere con un recupero di sovranità popolare.

I teatrini sulla legge di stabilità in corso a Bruxelles, sono l’ennesima conferma che nell’orizzonte imposto al nostro paese non esiste possibilità di riattivare un riqualificato circuito economico di investimenti pubblici adeguato alle emergenze strutturali del paese.

Per sottrarci ad un destino di declino e stagnazione indefinita è decisivo porre il tema dell’intervento pubblico in economia attraverso la nazionalizzazione delle aziende strategiche del paese.

Raccogliere intorno a un nucleo di aziende infrastrutturali pubbliche le risorse per una programmazione degli interventi per il territorio, con un grande piano di rilancio garante della coesione sociale e dell’occupazione, è l’unica possibile alternativa ad un modello di business e di devastazione del territorio.

Il territorio e le sue esigenze sono il fine dell’intervento economico non lo strumento per una sistematica spoliazione di risorse.

La nazionalizzazione non è solo l’alternativa al modello di business connaturato alla privatizzazione e alle grandi opere, ma evidenzia i contenuti sociali di classe rispetto all’orizzonte di subalternità proposto dai sostenitori della irrinunciabilità all’Europolo.

Il tema della nazionalizzazione è un terreno dello scontro sociale e politico. Acquisirne consapevolezza arricchendolo di tutte le implicazioni è un compito da assumere nell’immediato.

La partecipazione alla manifestazione a sostegno del movimento NO TAV con la parola d’ordine delle nazionalizzazioni è un passaggio importante per una vertenza che ha assunto una chiara valenza politica generale.

La piazza dei NO TAV non è la generica piazza dei contrari, presenti, secondo la narrazione ufficiale, sempre e comunque , ma è la piazza di chi pone al centro un modello di sviluppo che allude ad un modello di relazioni fuori e contro il ricatto del profitto.

 

di Mauro Luongo (Rete dei Comunisti)

 

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