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L’Ottobre è arrivato… a Napoli

Venerdì 14 aprile – a Napoli – presso il Civico 7 Liberato è stata effettuata la presentazione cittadina della campagna nazionale “L’Ottobre sta arrivando” in occasione dei 100 anni della Rivoluzione Bolscevica.

Un interessante dibattito ha preso il via dopo due relazioni introduttive effettuate da Castrese Palumbo, del Laboratorio Comunista Casamatta e da Giovanni Di Fronzo delle Rete dei Comunisti.

Pubblichiamo, di seguito, l’intervento del compagno della RdC

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La Rivoluzione di Ottobre è l’evento centrale nella storia da quando il capitalismo è diventato Modo di Produzione dominante; essa ci insegna in primo luogo una cosa: la rottura rivoluzionaria può arrivare dove e quando meno ce lo si aspetta (ciò significa avere nell’azione politica uno sguardo a tutto tondo evitando di ritenere che esiste una “modellistica del conflitto e dell’organizzazione” sempre uguale).

Ricordiamo, infatti, che la lettura marxista prevalente a inizio Novecento all’interno dei partiti della Seconda Internazionale comprendeva una lettura del marxismo secondo cui la rivoluzione sarebbe potuta avvenire solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico, quindi non nella Russia, ancora arretrata dal punto di vista dello sviluppo produttivo e ancora ampiamente imbrigliata in una struttura semi-feudale.

Lenin, invece, nella sua teorizzazione sull’Imperialismo, affermò che la rivoluzione sarebbe potuta avvenire nei punti deboli della catena imperialista e, in particolare, in Russia dove le condizioni erano particolarmente mature.

Nonostante tale posizione fosse netta minoranza ancora poco prima degli eventi dell’Ottobre 1917, sappiamo tutti come poi sono evoluti i fatti: a partire dall’acutizzarsi delle contraddizioni fra gli imperialismi culminate con l’esplosione della Prima Guerra Mondiale, si concretizzò la presa del potere da parte delle forze rivoluzionarie in un tempo ed in un luogo inatteso, ovvero la poverissima Russia del 1917.

Dopo la presa del potere, quello che era il primo tentativo di portare al potere il proletariato e, in generale, le classi oppresse di tutta la storia (la Comune di Parigi era durata troppo poco) e che, quindi, già non aveva altri esempi a cui rifarsi, si trovò immediatamente di fronte a sfide dalla difficoltà immensa date principalmente dal fatto che analoghi tentativi rivoluzionari fallirono nei punti alti dello sviluppo capitalistico.

Pertanto la neonata URSS - superata la guerra civile provocata dal tentativo degli imperialismi di cancellarla immediatamente dalla faccia della terra - si trovò rapidamente a dover contare esclusivamente sulle proprie forze, instaurando il socialismo in un paese solo. Questo stato di necessità provocò contorsionismi e cambi di linea continui, i quali marcarono la natura autenticamente rivoluzionaria del partito che dirigeva lo stato socialista: si passò nel giro di pochi anni dal “comunismo di guerra” proprio del periodo della guerra civile, alla NEP, fino al ritorno alla “socializzazione integrale” a partire del 1928.

Tali continui cambiamenti e tale perdurante stato di emergenza dovuto all’accerchiamento, fecero sì che tale percorso non fu lineare, ma fu costellato di strappi dolorosi e forzature continue (mutuando la famosa citazione di Lenin, la storia venne spinta più volte) con pesanti costi umani e materiali per taluni strati della popolazione (ad esempio, i contadini medi e grandi) e pezzi di apparato dello stato e del partito.

Tuttavia, i risultati furono senza precedenti storici: in circa un decennio venne colmato, attraverso la pianificazione socialista, un gap tecnologico con i paesi capitalisti più avanzati di circa un secolo in alcuni comparti e decine di milioni di persone uscirono dalla povertà per ascendere ad un livello di istruzione e ad un tenore di vita fra i più alti dell’epoca.

Questo proprio mentre, in contemporanea, il capitalismo era in preda alla più grande crisi fino ad allora conosciuta, la cosiddetta crisi del ’29, e si avviluppava nelle forme reazionarie del fascismo e del nazismo nel cuore dell’Europa.

Tale fase, quella degli anni ’30, segnò un periodo in cui il sistema socialista palesò la propria superiorità rispetto all’anarchia produttiva del capitalismo e rende totalmente irricevibile l’ipocrisia del cosiddetto antistalinismo che pervade molte letture della Rivoluzione d’Ottobre. Inutile poi ricordare che tale fase di sviluppo intensivo fece sì che l’URSS si trovò pronta all’appuntamento con la Seconda Guerra Mondiale, dalla quale subì il maggior numero di morti e di danni e, nonostante ciò, si trovò nuovamente pronta di fronte alla successiva ricostruzione e all’inizio della Guerra Fredda contro uno stato, gli USA, che non avevano mai conosciuto la guerra sul proprio territorio.

Successivamente (non a caso dopo la cosiddetta “destalinizzazione”) cominciò un periodo di rapido degrado della qualità politica delle elaborazioni e, di conseguenza, dell’intero sistema socialista, che portarono all’implosione del 1989-1991 (non è questa la sede per un’approfondita disamina di tali processi).

I costi umani della restaurazione del capitalismo furono altissimi e videro un repentino abbattimento dell’aspettativa di vita media della popolazione che si tradusse in una mortalità senza precedenti in periodo di pace. La restaurazione del capitalismo, dunque richiese distruzione di forze produttive in eccesso, compresa la forza lavoro, che si tradusse nella distruzione di popolazione in eccedenza.

Tornando ora al periodo della Rivoluzione d’Ottobre, paragonato con oggi, non possiamo certo dire che l’attuale livello della competizione globale e delle contraddizioni interimperialiste sia tanto acuto quanto quello del 1917, dal quale scaturì la Rivoluzione Russa.

Sicuramente, però, molti parallelismi possono essere trovati con il periodo immediatamente precedente, quello della fine della prima globalizzazione di fine Ottocento, la quale fece posto alla competizione sfrenata fra le potenze imperialiste per accaparrarsi le colonie e ad una serie di guerre commerciali fra i vari monopoli imperialisti.

Tale scenario - al giorno d’oggi - è più attuale che mai ed è reso manifesto dalle mosse della nuova amministrazione americana.

In particolare, nelle settimane scorse il Presidente Trump, dopo aver apertamente ammesso di avere come obiettivo quello di favorire la dissoluzione del principale competitore imperialista, ovvero l’Unione Europea, ha firmato i primi provvedimenti volti ad imporre una politica protezionistica nell’ambito del commercio internazionale; durante lo show televisivo che trasmetteva in diretta l’evento, uno dei suoi collaboratori  ha apertamente affermato: ”Siamo in una guerra commerciale. Ci siamo da decenni, da 45 anni; l’unica differenza è che ora le nostre truppe stanno finalmente alzando le difese. Non siamo finiti in un deficit commerciale per caso”.

Se la linea sarà mantenuta, si passerà, così, dall’epoca della religione del libero mercato “dollarizzato”, inaugurata dall’abolizione unilaterale da parte di Nixon del golden exchange standard (scaturito dai trattati della Seconda Guerra Mondiale), 46 (non 45!) anni fa, a alla guerra commerciale aperta, necessitata dal fatto che il dollaro potrebbe perdere presto il primato mondiale per via dell’emersione di altre aree monetarie di ampi dimensioni come quell’Euro e quella del Renminbi cinese.

Stesso discorso riguarda l’avventurismo di Trump nell’ambito degli scenari di guerra guerreggiata seminati dai suoi predecessori in giro per il mondo: l’aggressione portata alla Siria nei pressi del fronte con l’Isis proprio mentre il presidente platinato era a colloquio con l’omologo Xi Jimping, le continue minacce d’intervento contro la Corea del Nord e la moab lanciata in Afghanistan a scopo dimostrativo (verso Russia e Cina) stanno lì a dimostrarlo.

Si manifesta, quindi, una tendenza alla guerra che per ora si traduce in una serie di conflitti locali i quali investono le martoriate popolazioni del Medio-Oriente e dell’Africa, ma che pericolosamente portano allo scivolamento verso conflitti di portata più ampia.

Del resto, questa serie continua di scaramucce e di provocazioni (nelle quali ci inseriamo anche quella del Regno Unito nei confronti della Spagna, dove si è addirittura giunti ad evocare scenari di conflitto armato sul possesso di Gibilterra) richiamano alla mente molti episodi simili intercorsi negli anni precedenti allo scoppio della Prima Guerra Mondiale (ad esempio, il famoso incidente di Fascioda fra Francia e Gran Bretagna nel 1898). Pertanto, ancora una volta, il capitalismo potrebbe confermare la sua assoluta irrazionalità portando l’umanità ad una guerra devastante, la quale porrebbe ancora una volta la necessità assoluta di un’alternativa di sistema.

Vi è un’ulteriore questione riguardo la quale il capitalismo potrebbe ben presto mostrare la corda rendendo manifesta la propria irrazionalità rispetto alla sopravvivenza dell’umanità: si tratta dell’incombente disoccupazione tecnologica di massa.

Mesi fa, il capo del personale della Volkswagen ha affermato:  ”Nei prossimi 15 anni andranno in pensione 32mila persone; non verranno rimpiazzate”, ”Oggi il costo di un sostituto meccanico per lavori di routine in fabbrica si aggira intorno ai cinque euro. E con la nuova generazione di robot diventerà presumibilmente ancora più economico. Dobbiamo essere in grado di sfruttare questo vantaggio economico”.

A tal proposito, qualche settimana fa Bill Gates, utilizzando toni compassionevoli e allarmati come solo un filantropo come lui sa fare, non ha trovato di meglio che proporre di tassare i robot come antidoto al problema della dilagante disoccupazione tecnologica.

In buona sostanza, l’incombente robotizzazione dei cicli produttivi comporterà, per dirla alla Marx, un impetuoso aumento della composizione organica del capitale ad un livello tale da generare disoccupazione di massa.

Quindi, se in corrispondenza dei salti tecnologici che hanno avuto luogo durante il ‘900 (ad esempio, il salto dal carbone al petrolio, la prima informatizzazione, ecc.) il capitalismo è sempre riuscito a sostituire le produzioni decadenti con nuove produzioni in grado di riassorbire tutti i posti lavoro o di crearne nuovi e anche ad operare potenti e profittevoli riorganizzazioni produttive (ad esempio, ne paesi occidentali il salto dal fordismo alla produzione flessibile), è opinione comune fra i padroni stessi che i venturi processi di robotizzazione avranno l’effetto di far perdere migliaia di posti di lavoro senza che vi sia all’orizzonte alcun nuovo settore produttivo in grado di riassorbirli. Ciò prevedibilmente, potrebbe portare ancora una volta a nuove guerre devastanti per la distruzione di forze produttive in eccesso, ivi compresa la forza-lavoro, quindi gli esseri umani.

Pertanto, in una situazione di sviluppo delle forze produttive che consentirebbe all’intera umanità di vivere in maniera agiata, dividendosi egualmente un blando carico di lavoro, la divisione capitalistica del lavoro porterà, al contrario, disoccupazione di massa, guerre e distruzioni. Ecco, allora, che si pone all’ordine del giorno ancora una volta e, speriamo definitivamente, la necessità di superare il capitalismo e il dominio di classe della classe borghese parassitaria a favore della ben più razionale alternativa socialista.

Ovviamente, il cammino politico e organizzativo per giungere a poter praticare una simile prospettiva tocca a noi e, al momento, pare lunghissimo e inafferrabile; ma la Rivoluzione di Ottobre e le vicende che l’hanno preceduta ci insegnano che i punti di rottura nel sistema borghese sono imprevedibili nel tempo e nel luogo in cui si producono e che la storia, alle volte, subisce accelerazioni impreviste cui bisogna saper dare la giusta spinta verso il cambiamento.

Come la tremenda prima Guerra Mondiale mandò milioni e milioni di operai e contadini al macero per gli interessi di una poco numerosa classe borghese parassitaria, allo stesso modo tendenza alla guerra e disoccupazione tecnologica di massa incombono sulla testa del moderno proletariato.

Avanti sull’esempio della Rivoluzione di Ottobre verso il nuovo Assalto al Cielo!

 

Napoli, 14/4/2017

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