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La Siria e il Medio Oriente nella 'terza guerra mondiale a pezzi'

Sulla tragica vicenda della guerra in Siria e sulla situazione in Medio Oriente come scenario della competizione globale e del conflitto tra potenze lo scorso 11 gennaio a Napoli la Rete dei Comunisti ha organizzato un partecipato ed interessante dibattito al quale hanno partecipato Marco Santopadre (Rete dei Comunisti), Gianmarco Pisa (Istituto italiano ricerca per la pace), Francesco Santoianni (Comitato contro le sanzioni alla Siria), Alfonso De Vito e Nicola Quatrano (Osservatorio internazionale per i diritti).

Quella di Napoli è stata una discussione approfondita e non formale. Di seguito riportiamo gli interventi di Marco Santopadre (aggiornato agli sviluppi più recenti), di Gianmarco Pisa e di Francesco Santoianni.

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La Siria e il Medio Oriente all’epoca della competizione globale

Marco Santopadre (30 marzo 2016)

 

Il Medio Oriente, e la Siria in particolare, rappresentano attualmente il principale il terreno di scontro tra forze, potenze locali, regionali e globali impegnate in quella che possiamo definire “una guerra mondiale a pezzi”.
Quella che all’inizio, nel 2011, è nata come la protesta di una parte della popolazione contro il regime non solo per motivi politici ma soprattutto economici – anni di siccità nelle campagne e l’avvio delle liberalizzazioni da parte del governo di Damasco, ricattato dalle istituzioni internazionali, avevano causato il peggioramento delle condizioni di vita per milioni di siriani – è sfociata ben presto in una guerra civile subito diventata una guerra per procura tra molti dei sempre più numerosi soggetti di una competizione globale resa sempre più feroce dalla continuazione e dall’inasprimento della crisi sistemica del capitalismo.
Poi la guerra per procura, in cui ogni potenza esterna appoggiava uno piuttosto che l’altro degli attori locali per imporre o difendere i propri interessi, ha visto l’intervento diretto di varie potenze regionali, poi degli Stati Uniti (con la cosiddetta ‘coalizione obamiana’ contro lo Stato Islamico), e poi anche della Russia.
Fino ad un certo punto le correnti armate fondamentaliste, salafite e jihadiste, che da subito hanno egemonizzato il cosiddetto fronte delle opposizioni, a lungo tollerate e sostenute da tutto il fronte occidentale oltre che da numerosi paesi sunniti del Golfo e dalla Turchia, hanno conquistato terreno e la caduta del governo di Damasco sembrava imminente. Gli Stati Uniti, le potenze sunnite riunite attorno all’Arabia Saudita, il regime di Erdogan e l’Unione Europea miravano esplicitamente alla destituzione violenta del regime siriano e alla sua sostituzione con un governo più docile, attraverso la ribellione armata dei settori più reazionari della componente sunnita della popolazione siriana, sostenuta da migliaia di combattenti fondamentalisti arrivati da praticamente tutto il pianeta, stipendiati, armati e coccolati dagli sponsor internazionali. Gli stessi Stati Uniti, insieme all’Unione Europea, hanno a lungo tollerato le milizie più radicali, comprese Al Qaeda e lo Stato Islamico, anche se ufficialmente tanto Washington quanto Bruxelles hanno attivamente sostenuto il cosiddetto Esercito Siriano Libero, dipinto come coalizione delle forze di opposizione moderate e tendenzialmente laiche, ma rivelatosi ben presto un prezioso bacino nel quale hanno pescato miliziani, armi e finanziamenti tanto al Qaeda quanto il sempre più potente Stato Islamico, sostenuti questi ultimi esplicitamente tanto dalle petromonarchie guidate da Riad quanto da una Turchia sempre più aggressiva.
Come detto, nonostante a fianco delle truppe lealiste siriane tanto l’Iran quanto le organizzazioni sciite di Libano e Iraq avessero schierato migliaia di combattenti, il conflitto sembrava volgere decisamente a vantaggio delle milizie jihadiste, con lo Stato Islamico che occupava porzioni crescenti del territorio siriano oltre che iracheno e con altre sigle fondamentaliste che si facevano spazio a scapito non solo dei combattenti lealisti ma anche di quel poco che rimaneva delle cosiddette ‘opposizioni moderate’ cavalcate inutilmente da Washington e dall’Ue. D’altronde gli Stati Uniti, dopo aver perseguito l’invasione della Siria insieme alla Francia – progetto bloccato dal deciso intervento di Russia e Cina a favore di Damasco – e aver quindi optato per l’utilizzo delle milizie della ‘opposizione’ ampiamente armate e foraggiate, nell’estate del 2014 decisero di entrare in campo direttamente attraverso una coalizione di paesi occidentali e arabi che ufficialmente intendeva contrastare l’espansione in Medio Oriente di Daesh (effettivamente divenuto incontrollabile e pericoloso per i suoi stessi sponsor internazionali) ma che in realtà mirava a mettere i piedi in Siria e Iraq continuando a perseguire lo storico obiettivo del rovesciamento del governo guidato da Bashar Assad. Questo mentre nel nord del paese le correnti politiche curde legate al Pkk, che inizialmente avevano aderito alla ribellione contro Damasco per poi tirarsene fuori quasi subito una volta chiaro il carattere reazionario e settario delle cosiddette ‘opposizioni’, lanciavano una vasta campagna di autorganizzazione politica e militare diretta all’autogoverno della regione e alla sua liberazione dai tagliagole di Daesh (contando su un sostanziale “patto di non aggressione” con le forze lealiste siriane).
Nel 2015, l’intervento massiccio delle truppe della Federazione Russa in Siria su richiesta del governo di Damasco ha in breve tempo completamente ribaltato lo scenario, costringendo alla ritirata e alla sconfitta in numerosi quadranti non solo Daesh ma anche al Qaeda, nel frattempo ribattezzatasi Fronte al Nusra. L’intervento russo è stato giustificato da numerosi fattori. Intanto dalla volontà di Mosca di impedire la caduta del regime di Assad e di impedire così l’indebolimento, perseguito tanto dal fronte sunnita quanto da Usa e Ue, dell’Iran e degli Hezbollah; poi per contrastare l’espansione del contagio jihadista in Medio Oriente e tendenzialmente entro lo stesso territorio della Federazione Russa, in particolare nelle repubbliche caucasiche; ovviamente per difendere la sua presenza militare nel Mediterraneo, principalmente la base navale di Latakia; ancora per inviare a Washington e Bruxelles, protagonisti tra il 2013 e il 2014 di un processo di destabilizzazione dell’Ucraina sfociato in un golpe, un chiaro avvertimento sull’esistenza di una linea rossa non valicabile e di un processo di rimilitarizzazione delle frontiere di Mosca con l’Europa Orientale e la Scandinavia.

Mentre scriviamo il conflitto sembra pendere decisamente a favore dell’asse sciita sostenuto da Mosca, che non solo ha eliminato la possibilità di un rovesciamento violento di Assad, ma si è assicurata la permanenza nel paese e nel Mediterraneo di basi navali e aeree anche più consistenti che in passato (alle quale si affianca un nuovo presidio navale in Libia nella porzione di territorio controllato dal generale Haftar) e il rafforzamento dell’Iran e dei suoi alleati in Iraq e Libano.

Il tutto con somma irritazione di Israele che non ha mai nascosto il suo sostegno ad al Nusra, recentemente trasformatasi in Fatah Al Sham, e la sua ‘non belligeranza’ nei confronti di Daesh, nonostante che a Tel Aviv il governo di Mosca abbia assicurato, al momento del suo massiccio intervento in Siria, il proprio impegno a impedire ogni eventuale minaccia da parte di Hezbollah e dell'Iran contro il cosiddetto 'stato ebraico'.
A rappresentare plasticamente i nuovi equilibri internazionali frutto della forse momentanea ma sicuramente cocente sconfitta degli Stati Uniti, dell’Unione Europea, del fronte sunnita e della Turchia in Siria basti vedere la composizione delle delegazioni protagoniste dei “colloqui di pace” che si riuniscono ad Astana da alcuni mesi. Nella capitale del Kazakistan sono Mosca, Teheran ed in subordine Ankara a dettare la tabella di marcia, con i rappresentanti occidentali ridotti al rango di comprimari e di “invitati”.
Un ragionamento a parte merita la Turchia: per anni il regime di Erdogan ha permesso a Daesh di stabilire nel paese la propria retroguardia, l’apparato logistico e i campi di addestramento; di inviare in Siria migliaia di combattenti attraverso la propria frontiera; di rifornirsi di armi e di vendere il petrolio sottratto dai jihadisti a Damasco e a Baghdad. Poi la Turchia ha scatenato un incidente con la Russia quando questa è entrata in campo direttamente a difesa della Siria, arrivando ad un passo dallo scontro diretto con Mosca; ancora, Ankara ha invaso sia il nord della Siria che dell’Iraq, accampando consistenti rivendicazioni territoriali risalenti agli anni ’20 del secolo scorso e desiderosa di spazzare via l’autogoverno costruito dai curdi del Pyd insieme ad altre comunità etniche e religiose del Rojava, considerato un possibile elemento di contagio per la consistente minoranza curda di Turchia.
Nel giro di pochi mesi Ankara ha però dovuto chinare la testa di fronte alla Russia, cercando un accordo subalterno con Mosca nel tentativo di rimediare al disastro erdoganiano in Medio Oriente; l’ennesimo, dopo il fallimento del progetto neo-ottomano che prometteva di rendere la Turchia il paese capofila di un’area governata dai Fratelli Musulmani che andasse dalla Tunisia alle repubbliche turcofone ex-sovietiche passando per Egitto e Gaza. Ankara ha accettato di ritirare i propri uomini dal nord dell’Iraq e di ridimensionare la propria missione militare nel nord della Siria, ribattezzata “Scudo dell’Eufrate”. Il regime islamo-nazionalista turco ha dovuto ingoiare il crescente sostegno statunitense alle milizie curde siriane - appoggiate del resto anche dal nuovo alleato russo - che oltretutto da tempo stanno attivamente collaborando con le forze lealiste di Damasco nella riconquista di Raqqa dopo aver contribuito alla liberazione di Aleppo.
Le forze curde, sottoposte a una brutale repressione in Turchia, tentano di sfruttare le contraddizioni tra le varie potenze intervenute nella regione, collaborando parallelamente tanto con Washington quanto con Damasco e Mosca, per stabilizzare ed allargare l’esperimento di autogoverno multietnico e confederale creato nel Rojava, ma devono fare i conti con la invasione turca (tollerata sia dalla Russia sia dagli Usa che si contendono i favori di Ankara pur tentando di ridimensionarne le ambizioni) che ha spezzato la continuità territoriale tra i tre cantoni a maggioranza curda, mentre l’establishment curdo dell’Iraq settentrionale continua ad essere fortemente vincolato ai non sempre coincidenti interessi di Turchia, Stati Uniti e Israele.
 Allo stato attuale i curdi siriani si trovano ad essere un vero e proprio 'vaso di coccio' in mezzo a numerosi e spregiudicati 'vasi di ferro'.
Come la Turchia, anche l’Arabia Saudita è uscita assai ridimensionata dalla vicenda siriana, con le organizzazioni jihadiste da essa sponsorizzate assai indebolite e ridotte all’angolo, mentre le truppe di Riad, affiancate da quelle di una consistente coalizione di paesi sunniti, nonostante la schiacciante superiorità militare non riescono da anni ad avere la meglio sulla ribellione sciita nello Yemen.

Questo mentre la nuova amministrazione statunitense, guidata da Donald Trump, ha affermato che la rimozione di Bashar Assad “non costituisce più la propria priorità” e di accettare un certo grado di collaborazione con la Russia, d’altronde imposto a Obama già dopo l’intervento diretto delle truppe russe nel Vicino Oriente. Questo non vuol dire che Washington abbia rinunciato ai suoi piani nella regione, solo che i ripetuti passi falsi hanno obbligato prima Obama e ora Trump a tirare parzialmente i remi in barca. D’altronde la vicenda siriana ha reso ancora più evidente il carattere declinante, sul piano economico e geopolitico, della  superpotenza statunitense la cui crescente debolezza in Medio Oriente ha lasciato spazio prima alla formazione di un polo sunnita con ambizioni egemoniche non solo locali ma globali e all’autonomizzazione di Israele e Turchia rispetto all’agenda di Washington, poi ancora alla reazione iraniana e infine al massiccio ingresso sulla scena della Russia.
Ma le continue minacce da parte di Washington nei confronti dell’Iran e l’annunciato sostegno incondizionato nei confronti di Israele promettono di attizzare di nuovo fortemente la tensione, mentre per ora Washington in Siria si limita ad aumentare il sostegno – armi e truppe speciali – alle cosiddette Forze Democratiche Siriane egemonizzate dalle Ypg curde nel tentativo di non essere esclusa del tutto dallo scenario. L’amministrazione Trump afferma di perseguire, quale suo obiettivo principale nell’area, la distruzione di Daesh, ma da varie parti all’interno dell’establishment statunitense si afferma l’utilità della sopravvivenza di organizzazioni jihadiste, per quanto ridimensionate, da utilizzare in futuro per continuare la tradizionale strategia del “divide et impera’ che negli ultimi decenni ha letteralmente mandato in frantumi gli stati nazionali, dal carattere spesso artificiale e arbitrario, creati dalle stesse potenze coloniali sulla base della spartizione dell’impero ottomano esattamente un secolo fa.
Daesh e al Qaeda – che contestano i confini dei paesi mediorientali creati dal colonialismo con i trattati di Sykes Pikot e di Losanna e combattono per la creazione di un unico Califfato su tutte le terre dove alberga l’Islam - sono state fortemente indebolite sia in Siria sia in Iraq, ma hanno cominciato ad espandersi in altre aree della regione, e non è detto che non rialzino presto la testa, magari con l’aiuto di coloro che prima le hanno tollerate o esplicitamente sostenute, poi le hanno combattute per giustificare un proprio intervento militare nella regione, e magari in un prossimo futuro potrebbero iniziare di nuovo a foraggiarle per colpire i propri avversari.

Come detto la Russia e i propri alleati hanno segnato vari punti a proprio favore, impedendo che la Siria venisse trasformata in una dittatura settaria sunnita e monoetnica, ma la situazione sul campo rimane decisamente incandescente e i presupposti per la continuazione, e forse per una nuova esplosione del conflitto su larga scala persistono tutti. Anni di guerre, invasioni, embarghi, destabilizzazioni “creative” perseguite dagli apprendisti stregoni dell’imperialismo occidentale e dalle nuove potenze sunnite hanno fomentato altissimi livelli di settarismo e di contrapposizione su basi etniche e religiose che non potranno certo essere cancellate dalla firma di un “trattato di pace”, ammesso che ci si arrivi. Intere città sono state distrutte, come del resto la maggior parte delle infrastrutture del paese, l’economia è in ginocchio, e milioni di persone sono state costrette a rifugiarsi nelle zone del paese più sicure oppure ad emigrare in altri paesi del Medio Oriente, mentre a centinaia di migliaia tentano di arrivare in Europa per trovare condizioni di vita e di lavoro dignitose. Di fatto una parte importante del territorio siriano è occupato ancora da forze militari controllate da potenze straniere, e il pericolo di una disintegrazione, o quanto meno di una cantonizzazione del paese su basi etnico-religiose è assai alto. Nessuna potenza può pensare oggi di sbaragliare completamente gli avversari, e quindi allo stato la cristallizzazione degli equilibri attuali sul campo potrebbe costituire il compromesso sul quale potrebbero convergere la maggior parte dei contendenti.

In uno scenario del genere, a nostro avviso, va rifuggita ogni visione di tipo campista che se era in qualche modo giustificata finché il mondo era diviso in due blocchi contrapposti non solo per interessi geopolitici ma anche dal punto di vista economico, politico e ideale, in un’epoca come quella attuale contraddistinta da una spietata competizione globale ed in assenza di un campo socialista non ha ragione d’essere. La vicenda siriana dimostra quanto relative, cangianti e a ‘geometria variabile’ siano le alleanze in corso tra i vari attori del conflitto e quanto le scelte delle varie potenze siano ben lontane dagli interessi delle popolazioni coinvolte. Ogni potenza mira innanzitutto alla difesa e all'affermazione dei propri interessi, e nessuna alleanza può durare a lungo, così come nessuna 'moralità' o 'organicità programmatica' può caratterizzare la politica estera di alcuno stato. Limitarsi quindi a ‘tifare’ per l’uno o per l’altro degli attori in campo senza comprendere il contesto che spinge le parti in causa al ‘tutti contro tutti’ può costituire sicuramente un esercizio rassicurante psicologicamente, ma non può certo rappresentare un valido strumento di intervento politico né il presupposto di una necessaria solidarietà internazionalista.

Evitare di limitarsi al tifo per uno o l’altro dei contendenti, riproducendo un atteggiamento passivo e subalterno rispetto alle potenze e agli interessi in conflitto, non vuol dire astenersi dal dare un giudizio sulla genesi degli avvenimenti e sugli attori coinvolti. Tra i soggetti in campo vanno individuate responsabilità maggiori e minori, torti e ragioni: non si possono mettere sullo stesso piano gli aggrediti e gli aggressori, coloro che hanno scientificamente operato per la destabilizzazione e per la guerra e coloro che invece sono stati costretti a reagire, anche se non per ragioni etiche, ma semplicemente perché attaccati. Non si tratta di sposare o identificarsi con qualcuno degli attori in competizione, ma sforzarsi di realizzare un’analisi la più oggettiva possibile della situazione che si tramuti in coscienza e mobilitazione di massa contro la tendenza alla guerra che anima l’attuale fase del capitalismo e contro l’intruppamento delle opinioni pubbliche occidentali nella logica del sostegno al proprio imperialismo, dell’Union Sacrée contro il nemico vero o presunto. Il principale compito delle forze anticapitaliste e antimperialiste dovrebbe essere, qui ed ora, quello di rompere, o quantomeno ritardare e inceppare, il meccanismo della competizione interimperialistica a partire dalla lotta contro l’imperialismo di casa nostra, quello rappresentato da una Unione Europea sempre più proiettata militarmente, e non certo mobilitare le residue forze di sinistra a favore di una o dell’altra potenza in campo.

La vicenda siriana, forse più di altre, insegna che non necessariamente le forze che si contrappongono ad un regime, soprattutto in una fase storica come questa, in mancanza di riferimenti internazionali di carattere antimperialista e in presenza dello spregiudicato attivismo di potenze reazionarie vecchie e nuove, vanno considerate una alternativa migliore da sostenere. Anzi. L’automatismo “masse rivoluzionarie vs dittature”, che è stato tendenzialmente valido fin quando il mondo vedeva il protagonismo di paesi e di correnti socialiste e progressiste, in questa fase storica va in buona parte abbandonato o comunque applicato con molta cura. Averlo riprodotto senza alcun senso critico prima in Libia e poi in Siria (e prima ancora nell’ex Jugoslavia) dimostra la limitatezza di una chiave di lettura ormai datata e inadatta a comprendere un quadro internazionale in rapido mutamento, e sovente strumentale agli obiettivi e alla propaganda dell’imperialismo.
Di carattere multipartitico e sostenuto da una fetta consistente della popolazione del paese, quello siriano è certamente un regime fortemente autoritario – ma non più di quanto lo siano tutti i regimi, nessuno escluso, della regione – ma che conserva alcuni elementi residui di economia e di pianificazione statale e socialista che fino all’inizio della guerra civile assicuravano standard di vita, di lavoro, di istruzione e di welfare assai superiori a molti di quelli garantiti negli stati confinanti. E, nonostante anche una certa sinistra continui a utilizzare la categoria della ‘rivoluzione siriana’ per descrivere la sollevazione contro Assad, la maggior parte delle forze che hanno dato vita alla ribellione militare contro il governo di Damasco erano e sono ferocemente settarie e reazionarie sia sul piano sociale che politico ed economico, animate soprattutto dalla volontà di imporre la versione più estrema ed intollerante dell’Islam sunnita e di distruggere un regime laico, multietnico e multireligioso assicurato finora, seppur con strumenti coercitivi, dal governo egemonizzato dalla componente alauita della popolazione.

In campo in Siria non c’è mai stata alcuna ipotesi concreta, reale e credibile di abbattimento del regime baathista da un punto di vista progressista, laico, multiconfessionale e soprattutto indipendente rispetto agli interessi e alle mire delle potenze occidentali, dalle petromonarchie e dalla Turchia, che invece hanno scientificamente lavorato alla destabilizzazione del paese esasperando le contraddizioni etniche, religione e claniche fino a precipitarlo in un disastroso conflitto. Le ridotte forze progressiste che si sono prestate all’operazione messa in campo da occidente e fronte sunnita credendo irresponsabilmente di poterne approfittare hanno commesso un tragico errore, e sono state immediatamente sconfitte e spazzate via e oggi dovrebbero assumersi le proprie responsabilità di fronte alla tragedia che sconvolge il proprio popolo.

Occorre dire chiaramente che alle potenze che hanno fin qui perseguito il rovesciamento del regime di Damasco – così come del resto a quelle che l’hanno difeso – importa assai poco del suo carattere più o meno democratico o liberale, del rispetto dei diritti umani ecc: la posta in gioco è sempre stata di natura geopolitica, legata agli interessi egemonici, militari ed economici delle varie forze in campo. Occorre denunciare e smontare la strumentalizzazione che imperialismo opera sistematicamente riguardo al tema del rispetto dei diritti umani, sull’altare dei quali vengono giustificati interventi e aggressioni militari che mirano a tutt’altro. Al leit motiv unilaterale della “difesa dei diritti umani a qualsiasi costo” tipico del discorso imperialista occorre contrapporre l’inscindibile e fondamentale legame tra i diritti individuali e quelli sociali e collettivi, oltre che il rispetto al diritto all’autodeterminazione dei popoli che le politiche di “ingerenza umanitaria” calpestano sistematicamente.

Allo stesso modo va respinta la propaganda di guerra utilizzata a piene mani in questi ultimi anni dalle potenze occidentali responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente e che oggi non hanno nessuna credibilità quando si ergono a paladine della democrazia e dei diritti umani nella regione; quelle stesse che prima hanno tollerato o addirittura fomentato l’affermazione delle correnti jihadiste e terroristiche per poterle utilizzare contro la Siria e che oggi si propongono come baluardo contro il pericolo del terrore fondamentalista che sempre più spesso colpisce anche in Europa oltre che in Siria, Yemen, Libano, Iraq, ecc.
Non è accettabile che le potenze imperialiste coinvolte nel conflitto mediorientale si descrivano come soggetti neutrali e super partes, così come occorre denunciare il ‘doppio standard’ utilizzato dall’Unione Europea per quanto riguarda i temi di carattere umanitario.
La vicenda legata alla liberazione di Aleppo da questo punto di vista è davvero esemplificativa. Per mesi i governi e la stampa di Londra, Parigi, Berlino, Washington, la stessa Onu e uno stuolo di organizzazioni internazionali hanno accusato il regime di Damasco e la Russia di aver compiuto massacri indiscriminati di civili e crimini di guerra durante la campagna militare per la liberazione di Aleppo. Media e governi occidentali, echeggiando quando diffuso da Al Arabiya (che non è un media obiettivo o neutrale bensì l’altoparlante di una delle parti coinvolte nel conflitto, lo strumento delle potenze sunnite) hanno parlato di “esecuzioni sommarie”, di “bambini e donne bruciati vivi” di proposito, di “civili in fuga costretti con la tortura ad arruolarsi nell'esercito lealista”.
Ovviamente, al di là delle dichiarazioni di circostanza dei governi siriano e russo, sono stati numerosi i civili rimasti uccisi sotto le bombe sganciate dai caccia o i colpi di mortaio sparati dai cosiddetti ribelli che hanno tentato di ritardare la loro sconfitta rifugiandosi negli edifici, nelle scuole, negli ospedali e nelle moschee. Quella siriana, d’altronde, è una guerra civile atroce, combattuta casa per casa, strada per strada. In una guerra del genere che coinvolge grandi città, non è pensabile che la popolazione civile venga risparmiata.
Ma salta agli occhi la intollerabile partigianeria delle versioni diffuse dai media e dalle classi politiche occidentali. Se le conseguenze sui civili degli attacchi e dei bombardamenti su Aleppo o prima su altre città da parte delle truppe siriane o delle forze russe sono state fedelmente riportate e spesso amplificate o addirittura inventate, le vittime degli analoghi e altrettanto sanguinosi raid compiuti dai caccia statunitensi o francesi o britannici o dalle artiglierie turche sono state sistematicamente ignorate, scomparendo quasi del tutto dalle cronache. Quelle stesse cronache in cui spesso i tagliagole di al Qaeda e di Daesh – fautrici di due versioni del Califfato concorrenti ma non dissimili - vengono raccontati come ‘ribelli’, ‘membri dell’opposizione’ o tutt’al più ‘guerriglieri’. Se è vero che una parte della popolazione di Aleppo ha reagito con terrore e preoccupazione all’ingresso nei quartieri orientali delle truppe siriane e degli alleati russi, iraniani e libanesi, temendo ritorsioni per aver collaborato con i jihadisti o aver apertamente parteggiato per loro, è altrettanto vero che una parte consistente degli abitanti della seconda città del paese è scesa in strada a festeggiare la tanto attesa liberazione dal giogo jihadista. Perché sostiene il regime, perché ritiene il regime il male minore rispetto al terrore jihadista, perché spera semplicemente che la Siria possa tornare presto alla normalità dopo anni di scontri feroci, di morti, di distruzioni.
E’ grave che un certo numero di organizzazioni e di media di sinistra, nei mesi scorsi, abbia abboccato alla becera e strumentale propaganda di guerra dei fautori del ‘regime change’ in Siria, facendosi portavoce di una solidarietà posticcia e a senso unico, di una “indignazione a orologeria” assai poco credibile, attraverso la campagna denominata “Save Aleppo” partita a tamburo battente proprio quando, dopo anni di occupazione violenta e criminale, nella città i jihadisti venivano cacciati dalle truppe siriane, dalle altre forze lealiste e dalle milizie curde. Per non parlare della vicenda dei cosiddetti ‘Caschi bianchi’ sui quali imprese di marketing di caratura internazionale e vari governi coinvolti nella destabilizzazione della Siria hanno creato una vasta operazione di manipolazione mediatica e politica.
E’ grave che a sinistra si sia accreditata la incredibile versione dei fatti per cui mentre i bombardamenti russi su Aleppo avrebbero causato sempre vittime tra i civili quelli statunitensi su Mosul o Raqqa si siano limitati a eliminare, sempre “chirurgicamente”, i capi di Daesh senza colpire coloro di cui i jihadisti si sono circondati per ritardare l’avanzata dei nemici. Una versione corroborata dal fatto che i media mainstream occidentali hanno occultato sistematicamente le notizie non conformi, come ad esempio l’uccisione, a dicembre, da parte dell’aviazione di Washington, di circa 90 soldati iracheni bombardati ‘per errore’ a Mosul. Oppure il bombardamento, sempre a dicembre, di un mercato nella città irachena di Qaim, da parte dei caccia Usa, che è costato la vita a decine di civili. O ancora i duecento civili ammazzati in un massiccio bombardamento Usa su Mosul, strage ammessa solo dopo che le stesse fonti di Baghdad avevano denunciato l’accaduto. Stragi che mai hanno conquistato la prima pagina di giornali e telegiornali occidentali, come invece era accaduto per mesi con gli eventi di Aleppo. Come d’altronde non le hanno mai conquistate le notizie che riguardavano la repressione brutale della popolazione sciita del Bahrein da parte del regime sunnita locale sostenuto dalle truppe saudite o le continue stragi compiute dalle forze di Riad in Yemen.

Sarebbe opportuno evitare di spegnere i nostri cervelli e il nostro senso critico così come il governo francese ha deciso di spegnere la Tour Eiffell durante la campagna per la liberazione di Aleppo. Quella stessa Francia che recentemente ha proposto un inaccettabile ricatto al governo siriano, legando la concessione di aiuti e corridoi umanitari destinati alle popolazioni colpite dalla guerra alla rinuncia al potere del presidente Assad. E’ questa la considerazione che le potenze ‘democratiche’ dell’Unione Europea hanno dei diritti umani e della solidarietà.

 

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La guerra alla Siria in 5 «C»:

categorie, coordinate e contesto, condivisione e complessità

Gianmarco Pisa, 30 Gennaio 2017

Sin dalla primavera del 2011, la guerra in Siria, nel contesto di guerra che attraversa il Mediterraneo  e sull'onda delle diffuse mobilitazioni che hanno attraversato il mondo arabo, costituisce un vero e proprio spartiacque: un “evento” storico e politico di grande impatto, dietro cui si manifestano i segni di un fenomeno epocale di più ampia portata. Provando a ricostruire, ex post e a distanza, quindi con tutti i limiti e le ambivalenze del caso, un profilo del conflitto siriano, della guerra, al tempo stesso, «civile e per procura», che sta attraversando la Siria, e, in definitiva, della aggressione profonda e della devastazione immane che stanno sconvolgendo il Paese, se ne ricava un'immagine, al contempo, vecchia e nuova: con un inedito tratto di novità, determinato dalla ridefinizione delle connessioni spazio-temporali cui la guerra in Siria ha dato corso; con un risaputo sapore di vecchio, causato dalla riproposizione di formule, tattiche e strategie, meccanismi e dispositivi, che hanno a lungo caratterizzato - e continuano in buona misura a caratterizzare - la guerra del tempo presente.

 

Categorie: alcuni elementi per comprendere la guerra alla Siria

Questi due elementi, di continuità ed innovazione, di vecchio e nuovo, dialetticamente connessi, riverberano, dal campo di battaglia siriano, echi impressionanti, dalla portata gigantesca, misurati non solo negli effetti diretti e indiretti, oggettivi e quantificabili, della guerra in Siria (la portata della devastazione, il numero delle vittime, l'ondata di profughi), ma anche alla stregua dei valori e dei significati, insieme simbolici e politici, cui rimandano, portando con sé l'esigenza di rotture epistemologiche, innovazioni interpretative e, talvolta, perfino veri e propri “cambi di paradigma”.

È questo terreno che rende giustizia dell'uso, apparentemente improprio e velatamente iperbolico, della categoria della “guerra mondiale” cui, talvolta, si accompagnano le letture e le analisi riguardanti la guerra alla Siria: da un lato, il riferimento alla Siria come epicentro di una vera e propria terza guerra mondiale “a pezzi” che, da un quadrante all'altro del Mediterraneo, a crocevia di tre continenti (Europa Meridionale, Africa Settentrionale, Asia Occidentale), sta concretamente assumendo una dimensione multi-regionale e una portata globale e sta effettivamente producendo un'onda lunga, politica e militare, qualitativa e quantitativa, di dimensioni inedite; dall'altro, il riferimento alla guerra alla Siria come cuore di uno scontro, politico e militare, di portata strategica, che impegna il Paese ed affligge le sue popolazioni, da oltre cinque anni a questa parte, che lo collega ai conflitti militari in corso, nella loro dinamica e nelle loro conseguenze, nell'intero contesto regionale (il Mediterraneo centrale e orientale), che lo trasforma in teatro della contesa per la supremazia sulla regione e, in prospettiva, sull'intero continente euro-asiatico, dalla valenza sempre più strategica, da parte delle maggiori potenze, regionali e globali, presenti ed attive nella guerra.

Vale la pena di spendere un'ultima parola, in premessa, su questa categoria della «guerra mondiale a pezzi», nel tentativo di sottrarla alla retorica, giornalistica o propagandistica, nella quale è tuttora, troppo spesso, avvolta, e di riguadagnarla ad una dimensione di pienezza e di efficacia politica: sia che la si legga (G. Sarubbi et al.) nel senso della dinamica di sviluppo della war on terror, della guerra al terrorismo di bushiana memoria, in base alla quale si è inteso, da parte dell' establishment nord-americano e - pur con accenni e sfumature diverse - euro-atlantico, attivare e sviluppare una duratura e continuativa risposta militare agli attacchi terroristici dell'11 Settembre 2001, dopo i quali è stata innescata una campagna militare, in effetti tuttora in corso, che ha portato gli Stati Uniti, con dispositivi di alleanza a geometria variabile, talvolta impegnando l'Alleanza Atlantica (Afghanistan), talaltra congegnando occasionali willing coalitions, coalizioni di volenterosi (Iraq), a proiettare la propria potenza militare, senza soluzione di continuità, lungo l'intero fronte di un cosiddetto «Medio Oriente più Largo» (Afghanistan, 2001; Iraq, 2003; Siria, 2011, e poi ancora il Sudan, la Libia, l'Ucraina, lo Yemen, il Mali... ); sia che la si interpreti (A. Zanotelli et al.) nel senso di una, attuale e pertinente, deflagrazione mondiale, che sta impegnando l'intero contesto mediterraneo, che sconvolge, in un inferno di guerra e di violenza, l'intero fronte Sud ed Est, che sfigura, attraverso l'esercizio delle armi e del terrore, l'intero contesto regionale, in un precipizio di militarizzazione (del Mediterraneo) e di riarmo (dell'Europa continentale e dell'Africa equatoriale), in un'ordalia di uomini e donne in fuga e di città e territori distrutti, una guerra di portata mondiale, che decuplica i traffici di armi e uomini, depaupera memorie e culture, segna il destino di interi popoli e paesi[1].

Pedro Garcia Hernandez, corrispondente in Siria di “Prensa Latina”, scrive: «La drammatica stele di morte, dopo poco più di cinque anni della guerra imposta alla Siria, costituisce un fatto senza precedenti nella regione del Medio Oriente, una delle regioni più convulse nel mondo. Gli angoli di questa terribile traccia di sangue sorpassano la raccapricciante cifra di più di 500 mila persone morte, mutilate o scomparse nelle peggiori condizioni di battaglia, descritte come “crimini di lesa umanità”. […] In Siria [questi] acquisiscono una dimensione poche volte vista e nella quale sono coinvolte, in forme differenti, le potenze internazionali, con responsabilità definite e dimostrabili nella triste ed obiettiva realtà. […] Cercare di distruggere una nazione con un costo umano così alto sorpassa […] qualsiasi altro olocausto promosso […] dai maggiori centri di potere del mondo occidentale».

 

Coordinate: la nuova dimensione del tempo e dello spazio indotta dalla guerra alla Siria

Giunti a questa altezza, in virtù della quale la Siria è oggi al centro di un conflitto internazionale di ampia portata e di lunga durata, all'interno del quale il coinvolgimento militare, diretto e indiretto, delle maggiori potenze, determinerà una nuova definizione degli equilibri regionali e internazionali e un nuovo rapporto di forze negli equilibri del Mediterraneo e, in particolare, del Vicino Oriente, la guerra alla Siria è anche l'annuncio del nuovo: la messa in opera di nuovi strumenti, codici e dispositivi, della guerra del nostro tempo e l'apertura di un orizzonte da leggere con occhi nuovi e categorie di interpretazione diverse da quelle cui siamo stati abituati in passato, per la quale schemi consolidati e chiavi di interpretazione rassicuranti possono non bastare più, non essere più sufficienti alla complessità della fase e al cambiamento dello scenario, o, semplicemente, non essere più adatti a contenere o, almeno, a rappresentare adeguatamente quella innovazione e quella complessità.

In questo, si annuncia, alla lettura del cambio di paradigma, anche lo svolgimento di un cambio di fase, in base al quale, ciò che l'Iraq del 1991 aveva rappresentato (in termini di superamento di fatto della contrapposizione bipolare e della “Guerra Fredda”) rispetto alla fine del «secolo breve», e la Jugoslavia del 1999 aveva mostrato (in termini di innovazione della dottrina strategica e della concezione bellica, di configurazione aggressiva della NATO e di concezione etno-politica della guerra) rispetto alla definizione di una, inquietante e minacciosa, «Nuova Europa» e di «intervento umanitario», la Siria del 2011, con sorprendente cadenza decennale, per la portata internazionale del coinvolgimento bellico e per le conseguenze impressionanti sugli equilibri internazionali, ci consegna perfino un assetto mondiale in rapida ridefinizione, a cavallo tra un'Europa periferica, ma non per questo meno minacciosa nella proiezione dei suoi imperialismi nazionali ed intenzionata ad un programma di riarmo, per molti aspetti, inquietante; un'America lontana, pur tuttavia aggressiva, sebbene ridimensionata nei suoi propositi di “coniugazione unipolare” di dominio, consenso ed egemonia; una Russia in ascesa, interessata a consolidare il suo ruolo, politico e militare, anche nel Mediterraneo; una Cina sempre più dinamica, non più esclusivamente orientata all'Asia e al Pacifico; un'Africa e un'Asia che tornano strategiche, e, in definitiva, un «ritorno al Mediterraneo».

Nuova è la fase che la guerra alla Siria inaugura; nuove sono le coordinate di analisi all'interno delle quali essa va inscritta. La guerra alla Siria impone, anzitutto, una ridefinizione delle categorie di approssimazione, del tempo e dello spazio, e, in seconda istanza, la riscoperta della centralità di uno scenario a noi prossimo, persino limitrofo, con effetti e conseguenze paradossali ed inediti rispetto anche al meno recente - gli ultimi trenta anni - passato. Sul piano dello spazio, la guerra alla Siria, soprattutto se letta in relazione allo scenario di ingresso (l'onda lunga delle mobilitazioni popolari nel mondo arabo, impropriamente definite «primavere arabe») e allo scenario di destinazione (l'esodo impressionante di uomini e donne in fuga dalla guerra), riporta la Siria nel cuore del Mediterraneo.

Laddove, storicamente, l'opinione pubblica era stata abituata a “visualizzare” la Siria su un quadrante asiatico di prossimità, al centro del Vicino Oriente, cui la relegavano i rapporti di prossimità e di vicinato, amichevoli o conflittuali, di volta in volta, soprattutto, con l'Egitto e con l'Unione Sovietica, all'epoca della R.A.U., la Repubblica Araba Unita, siro-egiziana, di ispirazione pan-araba, socialistica e nasseriana, e con Israele e l'Iraq, dopo le guerre dei Sei Giorni (1967) e dello Yom Kippur (1973), la militarizzazione del confine meridionale e l'occupazione israeliana del Golan (specie a partire dal 1973), e la contrapposizione con il Baath iracheno e l'alleanza siro-iraniana maturata sin dalla Prima Guerra del Golfo (1980), attualmente lo scenario di riferimento per la Siria diventa molto più quello del Mediterraneo Orientale e, in definitiva, del Mediterraneo.

Al Mediterraneo la riporta lo svolgimento stesso della guerra nella sua dinamica storica, di fase: gli sconvolgimenti nel quadro libanese all'indomani della morte di Rafiq Hariri e il conseguente ri-dispiegamento siriano dal “Paese dei Cedri” (2005); la rinnovata ostilità nei confronti di Israele dopo la fine dell'esperienza centrista di Ehud Olmert e l'inaugurazione di una nuova stagione politica della destra israeliana ispirata da Benjamin Netaniahu (2009); nuovi rapporti intentati con alcuni Paesi della UE prima della rottura unilaterale delle relazioni diplomatiche da parte europea, soprattutto con Italia e Francia, tra il 2008 ed il 2010; l'onda lunga delle mobilitazioni nel mondo arabo sulla scorta delle conseguenze della crisi economica e agricola del 2008-2010, la progressiva militarizzazione del conflitto e lo scoppio della guerra nel 2011, e l'intervento, diretto e indiretto, prima degli Stati Uniti, dal 2012, poi della Russia, dal 2015, sul teatro siriano, specificamente in relazione alla Russia che, proprio sul Mediterraneo, disloca la sua presenza militare aeronavale, con una base aerea a Latakia (Laodicea) e una servitù  navale a Tartus, negli omonimi distretti costieri[2].

 

Contesto: la Siria in un Mediterraneo nuovo e diverso, travagliato e tragico

In questo, nuovo e diverso, Mediterraneo, dagli scacchieri frantumati e turbolenti e dalle relazioni sempre più sconnesse e guerreggiate, la Siria - e la guerra alla Siria in particolare - diviene un vero e proprio paradigma, in cui si intrecciano conflitti e migrazioni, si dipanano strategie militaristiche e imperialistiche, si definisce il riarmo dell'Europa e la militarizzazione del limes, si alimenta il contrasto, anche militare, alle epopee migratorie, le espulsioni e le deportazioni forzate, si definiscono i rapporti di forza tra le maggiori potenze, regionali e internazionali, e si attivano nuove strategie, di sfruttamento economico e di riappropriazione neo-coloniale. L'Agenzia Europea della Guardia di Frontiera (Frontex) si militarizza in funzione del Mediterraneo, nel senso della «guerra agli scafisti», speculatori del transito dei migranti, o del «contenimento dell'immigrazione», e l'Italia, cui è demandato, per il suo ruolo e la sua collocazione, una funzione di punta in questo dispositivo, attiva periodiche missioni militari, di volta in volta per il «search and rescue» nel Mediterraneo o per la «proiezione militare» in Libia. Al punto che la Commissione Europea progetta un'alternativa “assertiva” tra il pattugliamento navale in acque libiche e il blocco navale sul limite delle stesse acque territoriali.

Gli Stati Uniti, se, da una parte, aderiscono agli strumenti del soft power per alimentare e condizionare, orientare e predefinire, gli esiti delle cosiddette «primavere arabe», dall'altra non rinunciano agli strumenti del tradizionale hard power per addestrare e finanziare, rifornire e armare, milizie irregolari, di volta in volta filo-turche o filo-saudite, per dare corso ai propri progetti strategici, divide et impera, sul terreno. La Russia consolida il proprio dispiegamento militare nel Mediterraneo Orientale (la provincia di Latakia, in Siria) ed afferma la propria presenza militare sul Mediterraneo Centrale (la provincia di Tobruk, in Libia), interviene militarmente, tra l'autunno 2015 e l'inverno 2016, in Siria, su richiesta del governo siriano, e agisce politicamente, almeno dall'autunno 2016, non solo in Siria, con il «percorso di Astana», con Iran e Turchia, ma anche in Libia, prendendo posizione in rapporto al governo parallelo, non riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma sostenuto dall'Egitto, di Khalifa Haftar, basato a Tobruk. Si ripropone quindi un rinnovato e composito «Big Game» nell'area vicino-orientale, questa volta però con protagonisti e alleanze inediti o rinnovati.

Il Mediterraneo torna così ad essere, con particolare violenza ed intensità, dal 2011, scenario delle migrazioni perché teatro di guerre e conflitti e, con essi, di violazioni e deprivazioni, di ordine culturale e materiale. Non è necessario risalire alla storia più remota per delineare la configurazione del Mediterraneo come spazio naturale di meticciato e di attraversamenti e come luogo originale dell'incontro e dello scontro tra popoli e culture, di una dimensione, cioè, ibrida e complessa, sfaccettata e multiforme, naturalmente declinata al plurale e contraddistinta dallo scambio culturale.

Per quanto possa risultare comunque difficile definire una specifica “complessità” mediterranea, non sembra ancora matura la consapevolezza di una vera e propria “dimensione mediterranea” non solo dell'Europa ma specificamente dei Paesi delle sponde Sud ed Est. Hanno inciso, per un verso, l'ampliamento ad Oriente della Unione Europea e le più recenti sfide dell'allargamento lungo il limes orientale e, per l'altro, le difficoltà in Medio Oriente, i tumulti nel Maghreb e nel Mashrek, la “compresenza” tra storiche lotte di auto-determinazione (Palestina e Sahara Occidentale) e nuovi fermenti popolari, per quanto distorti (le «primavere arabe»). L'Europa non può pensarsi come realtà separata dal Mediterraneo, né può pensare al Mediterraneo come una specie di «altrove esotico». È il Mediterraneo, anche per il senso e per l'impatto della guerra alla Siria, il luogo cruciale dell'Europa.

In tale contesto, ciò che è successo dal 2008, mobilitazioni e fermenti e, in particolare, dal 2011, con l'impatto della guerra e la deflagrazione in Siria, è stato, dal punto di vista storico, il presupposto e, dal punto di vista politico, il retroterra dello sconvolgimento che il Mediterraneo ha subito e continua a subire sino a questo punto: guerre, migrazioni, povertà. Il presupposto di quel diffuso movimento popolare che ha attraversato, prima, e incendiato, poi, i Paesi della sponda Sud e che, rapidamente, nella pubblicistica occidentale, è stato designato come la «primavera araba», alludendo, in analogia con la Primavera di Praga, ad una sorta di risveglio delle masse arabe (pur sempre nei limiti di uno sguardo occidentale), consiste nel precipitato della crisi capitalistica strutturale tra il 2008 e il 2010.

La «grande crisi» non ha solo deteriorato le ragioni della produzione e quelle dello scambio a livello internazionale, ma ha anche prodotto un peggioramento delle condizioni di approvvigionamento, sia in termini di risorse energetiche, sia in termini di risorse alimentari. Si è assistito all'implosione di intere architetture finanziarie ed alla destabilizzazione di interi comparti produttivi, a partire dalle automobili e dalle costruzioni, veri e propri “pilastri” delle economie occidentali; si è assistito ad iniziative straordinarie da parte dei governi più forti per salvaguardare la produzione e per tutelare le architravi finanziarie, con nazionalizzazioni “di fatto” delle produzioni strategiche ed esborsi eccezionali per la tenuta del sistema finanziario; si è assistito alla riduzione del prezzo delle risorse energetiche, in primo luogo del petrolio e del gas, ed all'aumento dei prezzi delle derrate alimentari.

Vari osservatori hanno posto in correlazione la sofferenza sociale che si è manifestata, specificamente nella sponda Sud, a cavallo tra il 2009 ed il 2011, alla crisi alimentare degli anni precedenti, quella del 2007 e 2008, senza spingersi a compararne gli effetti, ma mettendo in luce, tuttavia, in maniera accorta e lucida, le ragioni della protesta ed i motivi del malcontento. Uno degli indicatori più significativi, in tal senso, è costituito dall'avanzo delle partite correnti che, in Siria, se nel 2010 raggiungeva il valore di 1.2 miliardi di dollari, ancora nel pieno della crisi, nel 2009, si fermava a 362 milioni di dollari, e nel 2008, ad appena 66 milioni di dollari[3]. Sin dal 2011, tra gli analisti più avvertiti, Jeffrey Sachs ha messo in chiaro che la diffusione, a macchia di leopardo, delle rivolte e delle sollevazioni in tutto il mondo arabo, che sin dall'inizio sono state denominate come “Primavere Arabe”, ha rappresentato poco più che un assaggio della instabilità cui gli Stati della sponda Sud sono esposti di fronte alla crisi economica ed alimentare. L'aumento dei prezzi delle derrate, la crescita dei prezzi al consumo dei generi alimentari, la spinta inflazionistica e la corrosione del potere d'acquisto reale, uniti alla disparità sociale e alla corruzione diffusa in questi Paesi (e non solo questi), hanno rappresentato un propellente esplosivo per quel vero e proprio mix di proteste e rivendicazioni, prima soprattutto di carattere economico e sociale, poi anche di tipo politico ed istituzionale, che hanno innescato la caduta dei leader in Egitto ed in Tunisia e poi hanno messo sempre più pressione anche sull'Algeria e la Siria, fino allo scoppio della guerra nel corso del 2011.

Secondo Jeffrey Sachs, le cause profonde del malcontento e del disagio, basate nella povertà diffusa e nella differenziazione sociale, si sono esercitate, in particolare, su una cintura già instabile di Stati che si estende dall'Iraq, attraverso il Sahara, fino alle coste dell'Africa Occidentale. Nella terminologia con cui vi si riferiva la amministrazione statunitense, sotto la presidenza di Bush jr., si tratta del «Grande Medio Oriente» ovvero della premessa di un «Medio Oriente più Largo» da mettere - secondo i piani dell'imperialismo statunitense - sotto pressione, per rovesciare governi infedeli o addirittura ostili, insediare forze collaborative e poteri filo-occidentali, e promuovere, con nuove leadership, i «valori americani» e rinnovati patti di amicizia o di collaborazione. Seguendo Jeffrey Sachs: «Non si tratta solo della Fratellanza Musulmana e non si tratta solo di politica. Si tratta di fame, povertà, emarginazione; sulla produzione alimentare si gioca un vero e proprio cambiamento dell'economia mondiale».

Non a caso, i prezzi dei prodotti alimentari hanno registrato proprio nel corso del 2010-2011 il livello più alto mai registrato nel corso degli ultimi anni; nel 2008 la Siria aveva registrato uno dei peggiori raccolti di grano della sua storia recente, con appena due milioni di tonnellate, al punto da dovere importare, nel successivo 2009, ben 1.5 milioni di tonnellate; nello stesso arco di tempo, la possibile, inedita, affermazione della Cina come importatore di cibo di primaria importanza avrebbe peggiorato ulteriormente la situazione degli Stati africani, soprattutto quelli più poveri, già fortemente dipendenti dalle loro importazioni di prodotti alimentari, a causa di settori agricoli deboli, arretrati e frammentati[4].

Sono state, dunque, tali condizioni, eminentemente di natura economica e sociale, a creare terreno fertile per l'insicurezza, l'instabilità e la radicalizzazione, da un lato alimentando tensione, collera e indignazione popolare, dall'altro radicalizzando la separazione tra le élite e le masse, tra i vertici istituzionali e le masse popolari, creando, dialetticamente, contraddizioni rivoluzionarie, ma anche innescando la spirale della radicalizzazione e aprendo inediti spazi di azione per le forze estremiste, terroristiche, come mostrano sia le vicende che hanno riguardato le fazioni di al Qaeda in Niger, in Mali ed in Mauritania, sia la comparsa di un fronte estremista radicale in Libia, in Siria ed in Iraq.

Il ruolo delle istituzioni occidentali, segnatamente euro-atlantiche, della sponda Nord, nello scenario, è stato negativo: dapprima non sono state coinvolte in maniera paritaria le autorità legittime dei Paesi in questione in un programma globale di contrasto alla crisi alimentare che non si traducesse, di fatto, in occasionali aiuti emergenziali; quindi si è soffiato incautamente sul fuoco delle rivendicazioni, della collera e della protesta, per innescare una spirale di regime change, inizialmente rivolta soprattutto all'Algeria, all'Egitto e alla Siria; infine, ci si è trovati a fare i conti con le implicazioni della «State Failure», della condizione di Stati in bilico in cui diversi di questi si sono venuti a trovare, specie dopo la grave ingerenza occidentale in iniziative militari che hanno fatto precipitare la situazione.

La transizione della protesta, dal piano economico e sociale al piano politico e istituzionale, e la militarizzazione dello scontro, con le sempre più smaccate ingerenze imperialistiche e le sempre più devastanti condizioni militari, avviene nel volgere di pochi mesi, coinvolge nuovi attori e comporta un mutamento dello scenario, che assume i contorni del Mediterraneo più largo e più minaccioso con cui siamo oggi chiamati, soprattutto di fronte al teatro siriano, a fare i conti. In questa fase, nuova e inedita per molti aspetti, il Mediterraneo sembra tornare ad una sua vocazione, antica e storica, di “nesso” tra i continenti: conflitti e migrazioni, nel Mediterraneo, interrogano, al tempo stesso, la consistenza della politica internazionale dell'Europa, la capacità di trasformazione e di rigenerazione della prospettiva strategica di Stati Uniti e Russia, le potenzialità di affermazione, quali attori relativamente autonomi sullo scenario internazionale, dei soggetti emergenti dell'Asia e dell'Africa.

Come ha scritto Ahmed Bensaada, infatti: «Prima di questi avvenimenti, i Paesi arabi erano in una situazione di autentica decrepitezza: assenza di alternanza politica, disoccupazione diffusa, democrazia embrionaria, bassi livelli di vita, diritti fondamentali violati, assenza di libertà di espressione, corruzione, favoritismi, fuga dei cervelli... Tutto ciò rappresenta un “terreno fertile” per la destabilizzazione. Nonostante, però, l'assoluta fondatezza delle rivendicazioni sociali della piazza araba, ricerche approfondite hanno dimostrato che i giovani manifestanti e i cyber-attivisti arabi erano stati formati e finanziati da organizzazioni statunitensi specializzate nella «esportazione della democrazia», USAID, NED, la Freedom House o la Open Society del miliardario George Soros. E, tutto ciò, già molti anni prima che Mohamed Bouazizi si immolasse con il fuoco in Tunisia».

D'altro canto, gli effetti della radicalizzazione si sono visti sia in termini di precipitazione nella guerra, sia nelle forme della interruzione della stessa continuità dello Stato, della amministrazione, dei servizi. Continua Ahmed Bensaada: «Gli imponenti rivolgimenti, che i benpensanti occidentali hanno precipitosamente ed erroneamente battezzato come una «primavera», hanno provocato caos, morte, odio, esilio e desolazione in molti Paesi arabi. Bisognerebbe chiedere ai cittadini dei Paesi arabi «primaverizzati» se la disastrosa situazione in cui si trovano attualmente possa definirsi come una “Primavera”. In proposito, i numeri sono eloquenti. Uno studio recente ha dimostrato che questa funesta stagione di guerre e di fughe ha provocato, in soli cinque anni, più di 1.4 milioni di vittime (tra morti e feriti), cui occorre aggiungere più di 14 milioni di profughi e rifugiati. La “Primavera” è costata ai Paesi arabi più di 830 miliardi di dollari, di cui più di 460 miliardi in perdite per infrastrutture distrutte e per siti storici devastati. L'intera regione  -  il Medio Oriente e il Nord Africa  -  ha perso oltre cento milioni di turisti, un'autentica calamità per l'economia»[5].

Le responsabilità occidentali nel precipizio dello scenario sono notevoli: la guerra in Libia del 2011, il sostegno occidentale alla medesima sollevazione egiziana ed al regime change di ispirazione islamica in Egitto, tra il 2011 ed il 2012, l'intervento militare, sempre più attivo e sempre più devastante, in quella vera e propria guerra «civile e per procura» che continua ad infiammare la Siria dal 2011 a oggi, la permanente instabilità dell'Iraq, distrutto all'indomani della guerra bushiana del 2003, subito dopo la tragedia afghana del 2001, e la continua e pervicace indisponibilità a mediare positivamente nel contenzioso israeliano-palestinese, da una parte ignorando le ripetute violazioni delle risoluzioni delle Nazioni Unite da parte di Israele, dall'altra abbandonando di fatto a sé stessa la popolazione palestinese, in particolare a Gaza, sono solo i titoli principali di una narrazione crudele di guerra, di devastazione e di violenza che è oggi il centro del Mediterraneo.

Ecco, nel suo profilo complessivo, la dinamica che attraversa il Mare Nostrum. Per comprenderla basta lanciare lo sguardo al suo epicentro e alla forza dei numeri, spesso assai più eloquenti di mille parole: sebbene le cifre varino tra le fonti, è accettata la stima di almeno 275.000 vittime in Siria in cinque anni di guerra, tra cui almeno 80.000 civili. Tra le assai variegate fila dell'opposizione armata, sono morti almeno 45.000 combattenti e miliziani, delle frange armate, delle fazioni islamiche o delle milizie curdo-siriane; altrettanti, almeno 45.000 terroristi militanti dello Stato Islamico (IS), del fronte al-Nusra e di altre organizzazioni radicali. Tra le fila del governo, almeno 55.000 uccisi tra le forze regolari e almeno altri 38.000 miliziani inquadrati con le forze regolari dell'Esercito Siriano, per un totale di almeno 93.000 militari uccisi; almeno 1.000 le vittime tra gli Hezbollah; circa 4.000 i combattenti sciiti di altre nazionalità. In aggiunta, ci sono almeno  5.000 sequestri da parte dello Stato Islamico; 6.000 prigionieri e dispersi; 2.000 ostaggi nelle mani delle fazioni islamiste.

È uno scenario, quello del rinnovato Medio Oriente di guerra e di violenza, che condensa, in questo precipitato di violazioni e di devastazioni che è quella autentica «guerra mondiale del terzo millennio» che si sta combattendo in Siria, tutta la panoplia delle tragedie e dell'orrore: un contesto in cui tutti i diritti umani fondamentali e universali sono violati (dal diritto alla vita a quello alla sicurezza personale, dal diritto al lavoro e all'istruzione, a quello alla salute e alla protezione sociale, in un contesto così segnato dalla guerra, sconvolto dalla violenza e funestato dal terrorismo) ed in cui le condizioni minime della sicurezza personale e dell'incolumità fisica sono assai spesso violate e a repentaglio.

 

Condivisione: il primato della umanità sulla geopolitica

È bene tenere in considerazione, per delineare le caratteristiche della guerra alla Siria e definire la portata di questo volume di guerra sul Mediterraneo, le ulteriori questioni aperte che radicalizzano la situazione interna, accentuano la destabilizzazione regionale e peggiorano le condizioni di vita e di sopravvivenza di milioni e milioni di persone: il conflitto in Ucraina, la crisi in Grecia, il volume di profughi siriani in Libano e Turchia, che nel 2014 è diventato il Paese che accoglie più rifugiati al mondo, con 1.6 milioni di rifugiati siriani alla fine dell'anno, in un contesto peraltro - quello turco - a propria volta di guerra, sia al confine con la Siria, sia nella regione del Kurdistan anatolico, che a sua volta produce, a causa della repressione anti-curda delle autorità turche, una quantità notevole di profughi che si riversano soprattutto verso l'Europa, attraverso la cosiddetta “rotta balcanica”.

Alla fine del 2014, il numero di profughi in Europa è stato pari a 6.8 milioni, su una popolazione complessiva della Unione Europea pari a circa 500 milioni di abitanti. La quota di rifugiati in Europa, alla fine del 2014, è quindi pari al 1.5% della popolazione diffusa tra i 27 Paesi Membri dell'Unione Europea; tuttavia impatta in misura molto significativa soprattutto sui Paesi di approdo, in primo luogo la Grecia e l'Italia. Non si tratta, al di là delle percezioni locali e della propaganda politica di segno xenofobo, di una “invasione”; bensì di un fenomeno socio-politico di carattere epocale, dal significativo impatto sociale e politico, legato alle condizioni di guerra e di povertà.

Si tratta di cifre in continua evoluzione, i cui aggiornamenti si rincorrono a ciclo continuo: l'epopea dei migranti segue l'andamento delle guerre e della povertà lungo le sponde del Mare di Mezzo e le cifre fotografano, come in una sequenza di fotogrammi cangianti, la dinamica di una tragedia, allo stato, in continuo sviluppo. Le cifre dell'UNHCR, aggiornate alla fine del 2015, parlano di 65 milioni di persone in fuga dalla guerra e dalla violenza; una persona ogni 113 è costretta alla fuga e, solo nel 2015, secondo i dati disponibili, ogni minuto 24 persone sono state costrette all'esilio. Di questi 65 milioni, 21 milioni sono i profughi, 41 milioni sono gli sfollati interni; ebbene, 65 milioni significa l'equivalente della popolazione dell'Italia: il livello più alto mai registrato in tempi recenti.

Peraltro, ciò che ancora di più importa in questo scenario, è la dimensione umana della tragedia che spesso, soffocata dai numeri e dalle statistiche, viene smarrita: una dimensione umana costellata sia dalle violenze ripetute e dalle violazioni diffuse, dalle inenarrabili sofferenze che questo flusso di migranti, profughi, sfollati è costretto ad attraversare e, troppo spesso, ad abitare; sia dal precipitato della sofferenza sui più deboli ed i più esposti, soprattutto le donne ed i bambini, prime e più dimenticate tra le vittime di queste vere e proprie epopee migratorie. Come ricorda Mauro Armanino:

«Erano sedici e sono passati un giorno qualunque. Giovani, donne e bambini, che, prima di partire, avevano venduto tutto, anche la vita. [...] Nel Sahel i tempi sono immensi come il deserto e pazienti come un tramonto. Erano sedici e almeno tre donne erano incinta al momento di partire. Secondo le statistiche delle Nazioni Unite, [...] sono sedici migranti al giorno. Sedici al giorno è la media dei decessi quotidiani da metà del 2014 ad oggi. Il tutto porta alla cifra dei 10.000 silenzi che le zolle del mare hanno contato con attenzione. Non sapevano, i sedici, che quello era il primo e l'ultimo viaggio che pure avevano sognato. [...] Dall'altra parte del mare di sabbia e di tradimenti a cui erano stati abituati sin dall'infanzia in patria. Avevano commesso il reato di immaginare che altrove il mondo era differente. Rei del delitto di fare del viaggio la loro patria e della patria il loro viaggio»[6].

Il ranking dei Paesi che ospitano il maggior numero di profughi al mondo nel 2014 vede in primo luogo la Turchia con 1.6 milioni di persone accolte, seguita da Pakistan (1.5 milioni), Libano (1.2 milioni), Iran (1 milione), Etiopia (660.000), Giordania (650.000). Sommando tali volumi, risulta che circa il 45% dei rifugiati di tutto il mondo è accolto da questi sei Stati, e che, in particolare, il Libano, su una popolazione di 4.5 milioni di abitanti, tra sfollati delle guerre arabo-israeliane e profughi degli ultimi conflitti nel Vicino Oriente, ospita una percentuale di profughi e di rifugiati pari a circa il 45% della sua popolazione complessiva. Le cifre, in Europa, sono ben diverse, dal momento che il numero di richiedenti asilo all'interno dei Paesi Membri della Unione Europea nel 2014 è stato pari a circa 626.000, di cui 202.700 in Germania, 81.200 in Svezia, 64.600 in Italia.

Considerando, inoltre, che più del 52% dei rifugiati nel mondo sotto mandato UNHCR proviene da solo tre Stati, Siria, Afghanistan e Somalia, si vede bene che il Medio Oriente è l'area geografica più esplosiva e il Mediterraneo è la regione sulla quale maggiormente impatta il fenomeno: la Turchia, il Libano, la Giordania, l'Iraq e l'Egitto ospitano da soli quasi il 98% dei rifugiati siriani; quattro su cinque di tali Paesi ospitanti (Turchia, Libano, Iraq, Egitto) sono, a loro volta, Paesi in conflitto o a forte rischio di tensione. I rifugiati sotto mandato UNHCR provengono per oltre la metà da questi tre Paesi (la Siria con 5 milioni di rifugiati, l'Afghanistan con quasi 3 milioni e la Somalia con poco più di 1 milione) e il numero di sfollati interni è salito, per limitarsi allo spazio di prossimità, in Siria a 6.6 milioni e in Iraq a 4.4 milioni. Nel complesso, il 90% dei rifugiati viene da Paesi del Sud del mondo, a medio, basso o bassissimo reddito e in condizione, spesso, di instabilità e di conflitto[7].

Come è stato giustamente messo in evidenza, le violazioni dei diritti umani a cui vanno incontro i profughi, sia attraverso la Libia (provenendo dall'Africa centrale e sub-sahariana e diretti quindi verso la rotta migratoria del Mediterraneo Centrale che li porterà, presumibilmente, dopo avere attraversato il deserto ed inenarrabili violenze e difficoltà, verso Malta o l'Italia), sia attraverso la Turchia (provenendo dal Medio Oriente, soprattutto dalla Siria, e diretti quindi verso la rotta migratoria dei Balcani Occidentali, quindi verso l'Austria, l'Ungheria o l'Italia), sono drammatiche e inquietanti, sia alla frontiera (la polizia di frontiera o i militari a guardia dei confini aprono spesso il fuoco contro chi cerca di attraversare i cosiddetti «valichi non ufficiali») sia all'interno dei confini (secondo varie fonti, ampia parte dei rifugiati siriani sono letteralmente abbandonati a loro stessi).

È proprio questa dimensione umana a rappresentare una delle cifre della guerra alla Siria, nonché un fattore dirimente della lettura (sintetica) e della valutazione (politica) che si dà della gigantesca transizione di fase da quest'ultima - insieme con gli altri fenomeni ad essa collegati - innescata. Detto con una formula: «meno geopolitica, più umanità». Espresso in termini argomentativi: il modo più efficace per comprendere non solo la portata della guerra alla Siria ma anche gli effetti complessivi del suo svolgimento, sulla scorta delle cosiddette «primavere arabe» e alla stregua di una vera e propria «terza guerra mondiale a pezzi» in corso, è quello di evitare l'eccesso di geo-politica o, peggio, un approccio geo-politicistico alla questione, orientato esclusivamente ai rapporti di forza tra le potenze e alle dinamiche della proiezione militare su scala regionale (sebbene la dimensione “per procura” del conflitto siriano, come proxy war, sia a tutti gli effetti decisiva) e di privilegiare, viceversa, la centralità delle persone e, complessivamente, delle composizioni sociali dei territori di riferimento, e il primato dei diritti umani, secondo la logica di «tutti i diritti umani per tutti e per tutte» in base alla quale trasformare la potenza di analisi, sintetica, in capacità di proposta, politica, in coerenza con i principi di giustizia internazionale e dalla parte degli ultimi.

È appena il caso di ribadire con forza, appunto, questa centralità: una dimensione umana costellata sia dal furore delle armi sia dal gioco sporco delle potenze, dalle violenze ripetute e dalle violazioni diffuse, dalle inenarrabili sofferenze che le popolazioni, e poi questo vero e proprio esodo di migranti, profughi, sfollati è costretto ad attraversare e, troppo spesso, ad abitare; infine dal precipitato della sofferenza sui più deboli e sui più esposti, quanti hanno subito con più violenza gli effetti della crisi economica ed agricola, abitativa ed alimentare, nel Maghreb e nel Mashrek, e soprattutto le donne ed i bambini, prime e più dimenticate tra le vittime di queste vere epopee.

La dimensione del nuovo si coniuga ancora una volta con la dimensione del vecchio: «responsabilità di proteggere», costruzione dell'immagine di nemico, strumentalizzazione dei diritti umani. Tutti elementi del “dispositivo” proprio della guerra etno-politica del tempo presente, che, inaugurato in grande stile in occasione della guerra alla Jugoslavia degli anni Novanta e poi, in particolare, nel biennio kosovaro 1998-1999, trova nella Libia e soprattutto nella Siria del 2011 e oltre, una propria eclatante conferma e una propria impressionante riedizione. Oggi, a quasi sei anni di distanza, quasi sei milioni di rifugiati e quasi 300 mila morti, la Siria continua ad essere sconvolta e devastata da una guerra terribile: una guerra che, all'inizio, pareva assumere le sembianze di una guerra civile tra opposte fazioni, ma che sempre più si è trasformata, nel corso del tempo, prima in una guerra per procura e, da almeno due anni a questa parte, in una guerra a tutto campo, un componente cruciale ed esemplare di quella «terza guerra mondiale a pezzi» cui si è già fatto riferimento in precedenza.

Giustificata, al suo esordio, con il sostegno alle forze della società siriana che rivendicavano più democrazia, più libertà civili, più libertà di espressione, sulla scorta di una presunta «primavera siriana», sebbene manifestazioni e scioperi di sincero carattere democratico non siano mancati a cavallo tra il 2010 e il 2011, la guerra ha finito, mano a mano che si polarizzavano le posizioni e si aggravava lo scontro, con il mostrare il suo volto più autentico: una vera aggressione di natura imperialistica, volta al rovesciamento di un governo inviso alle potenze occidentali, quello del Baath, e allo smembramento del Paese, per impossessarsi delle risorse strategiche, impadronirsi dei canali di approvvigionamento e ridisegnare complessivamente i rapporti e la mappa del Vicino Oriente.

Da un lato, le formazioni terroriste e separatiste, dei diversi fronti riconducibili prima ad Al Qaeda poi ad Al Nusra e al sedicente “Stato Islamico”, hanno preso il sopravvento, sfigurando il profilo delle iniziali proteste contro il governo; dall'altro, quelle stesse forze sono state ampiamente armate, addestrate e finanziate dal blocco di potenze, in primo luogo gli Stati Uniti e la Turchia, il blocco euro-atlantico e le petro-monarchie, che ne hanno fatta la propria longa manus. Sempre più debole, fino quasi a scomparire, è diventata l'eco delle iniziali manifestazioni non violente contro il governo siriano; sempre più forte è diventata l'ingerenza delle potenze occidentali che, ora condizionando i tavoli negoziali, ora sviluppando la propria ingerenza, attraverso la rottura delle relazioni diplomatiche, l'imposizione di sanzioni contro la Siria ed il suo popolo, le vere e proprie azioni di guerra contro il Paese, stanno contribuendo ad una “catastrofe umanitaria” di gravi dimensioni.

Il “dispositivo”, per di più, costruito intorno alla strumentalizzazione della questione dei «diritti come pretesto», che distorce e ridicolizza la portata autentica, universale e profonda, dei diritti umani o, per meglio dire, di «tutti i diritti umani per tutti e per tutte», nonché la disinformazione strategica con un'accurata costruzione dell'agenda (agenda setting) ed una precisa “costruzione dell'immagine di nemico”, tornano ad essere, anche e soprattutto nel caso siriano, tra gli strumenti più potenti della guerra etno-politica del nostro tempo e tra gli elementi più distorsivi di una corretta concatenazione di cause e di effetti, necessaria, quest'ultima - e proprio per questo così alterata e mistificata - per ricostruire gli eventi, comprenderne le motivazioni e innescare le mobilitazioni.

Vale la pena richiamare la recente affermazione del papa Bergoglio, in occasione della Giornata delle Comunicazioni Sociali 2017, nella sua semplicità e nella sua potenza, esemplificativa della responsabilità che grava sui costruttori di opinione pubblica (opinion makers): «La vita […] non è solo una cronaca asettica di avvenimenti, ma è […] una storia che attende di essere raccontata attraverso la scelta di una chiave interpretativa in grado di selezionare e raccogliere i dati più importanti. La realtà, in sé stessa, non ha un significato univoco. Tutto dipende dallo sguardo con cui viene colta, dagli “occhiali” con cui scegliamo di guardarla: cambiando le lenti, anche la realtà appare diversa»[8]. La costruzione di immaginari negativi è utile all'esercizio della guerra e della violenza. False Flag, espedienti e manipolazioni, tornano utili per imbastire campagne mediatiche, mobilitare le coscienze per “compattare” il fronte interno, determinare un emotivo “consenso di guerra”, alimentare lo sciovinismo militare e la riduzione dell'opposizione alla guerra; quando non per fare fallire opportunità negoziali o per fare scattare il conto alla rovescia per imporre no-fly zone e corridoi pseudo-umanitari, embarghi e sanzioni, interventi e campagne, azioni e bombardamenti.

In tal senso, dopo il Kosovo del 1999, l'Iraq del 2003 e la Libia del 2011, la Siria rappresenta un nuovo, tragico, capitolo della guerra del nostro tempo: laddove i principi di non-ingerenza e non-aggressione lasciano sempre più il posto all'interventismo umanitario e alla prassi, ambigua e pericolosa, della «responsabilità di proteggere»; laddove, al rispetto della auto-determinazione, della scelta dei popoli di liberamente orientare la propria articolazione politica e la propria organizzazione sociale, si sostituisce adesso il privilegio neo-coloniale di coartare le scelte ed imporre le decisioni.

 

Complessità: la Siria quale è, e noi contro la guerra e per la pace

La Siria è un Paese grande e complesso, con una composizione sociale articolata e un pluralismo religioso variegato; un Paese in cui si parlano cinque lingue, oltre all'arabo (il curdo, l'armeno, il circasso, l'aramaico, il turcomanno) ed in cui si professano, oltre alla islamica sunnita, una miriade di religioni, dagli alawiti ai drusi, e una moltitudine di riti cristiani, cattolici occidentali e orientali (latini e siriaci, caldei e maroniti, melchiti e armeni) e ortodossi (greco-ortodossi e siro-ortodossi).

Nella Siria contemporanea - ancora alla vigilia della guerra - abitano diciotto milioni di persone, arabi (74%), curdi (9%), turcomanni (5%); assiri, circassi, armeni; e ancora, in proporzione minore, georgiani, persiani, pashtun, nonché ebrei; gli assiri, o siriaci, hanno proprio in Siria la comunità più rilevante, ed ancora in Siria si trovano la quarta più ampia comunità curda (almeno due milioni di persone), la settima più grande comunità armena (sessantamila persone) e seicentomila palestinesi. In Siria sono presenti quasi tutte le religioni dell'area mediterranea e vicino-orientale: sunniti (60%) e sciiti (13%), tra i quali gli alawiti e gli ismailiti; drusi (3%) e cristiani (10%), tra i quali le grandi confessioni d'Occidente e d'Oriente, di cui la Siria è, storicamente, naturale ponte e connettore: cattolici melchiti, armeni, siriaci, maroniti, caldei; ortodossi armeni, greci, siriani, assiro-orientali.

Se non altro per questo, i destini della Siria non possono essere rinchiusi nella gabbia degli opposti oltranzismi: quello di chi intende “identificarsi” nel governo siriano, da un lato; quello di chi pretende di ridurre l'intera società siriana a un gruppo di ribelli, magari filo-occidentali, dall'altro. È necessario articolare una proposta di soluzione costruttiva della crisi siriana e di superamento positivo della guerra alla Siria all'altezza della vastità della sfida e della complessità dello scenario. Può offrire un contributo significativo, in tal senso, l'apertura del «percorso di Astana», frutto della mediazione “a tre” (Russia, Iran e Turchia), in occasione della Conferenza di Astana (del 23-24 Gennaio 2017).

Nella risoluzione finale, infatti, gli attori «ribadiscono che il conflitto in Siria deve essere risolto pacificamente, in base a quanto disposto dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, affermano di rispettare la sovranità, l'indipendenza e l'integrità territoriale della Siria, annunciano di sostenere i colloqui intra-siriani... a Ginevra (8 Febbraio 2017), di essere pronti a combattere insieme contro i gruppi terroristici presenti in Siria come lo “Stato Islamico” e il Fronte Fatah al Sham (ex al Nusra), e di premere per la separazione dei gruppi dell'opposizione armata dai qaedisti di Fatah al Sham»[9].

Condivisibile appare, di questo quadro, la lucida analisi di Janiki Cingoli, direttore del CIPMO (Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente): «La Conferenza di Astana […] segna un punto di svolta nelle vicende mediorientali. I tre promotori, Russia, Turchia ed Iran, per la prima volta, sono riusciti a riunire insieme i rappresentanti del regime di Assad ed i gruppi armati dei ribelli, ad esclusione di ISIS e dei gruppi legati a Al-Qaeda, ed a raggiungere un accordo di tregua tra le parti, che sarà seguita da un “Comitato di Monitoraggio” costituito dai tre organizzatori […].

«Da notare che alla Conferenza hanno “partecipato” l'Ambasciatore USA in Kazakistan, George Krol, e l'inviato speciale ONU, Staffan de Mistura. L'UE non è stata menzionata […]. Il traballante regime di Assad ne esce consolidato, come partecipante indiscusso al processo di transizione; i cosiddetti ribelli moderati si aggregano al carro dei vincitori, ricercando una soluzione di compromesso con il regime, mentre ISIS e Qaedisti … devono ora attendere l'attacco concentrico dei tre alleati, cui si aggiungerà la coalizione guidata dagli USA, secondo le nuove priorità indicate dal Presidente Trump».

Passi da intraprendere - contro la guerra e per la pace - che possano creare presupposti per una piattaforma minima, pur tra le differenze del movimento, in particolare italiano, «per la pace e contro la guerra» e che, soprattutto, possano rappresentare un contributo costruttivo per fermare la guerra, alimentare opzioni di pace e rispettare i diritti del popolo siriano, possono essere, tra gli altri:

  • Ricostruire relazioni diplomatiche e revocare le sanzioni contro la Siria. L'Unione Europea è artefice di una politica di embargo contro la Siria che sta aggravando la crisi umanitaria. Oggetto di sanzioni (2016) sono 217 persone e 69 enti; esse includono l'embargo sul petrolio, restrizioni su diversi investimenti, restrizioni all'esportazione di strumenti “dual use”, tecnologie per comunicazioni e informatica.
  • Contrastare il terrorismo e il separatismo, rispettando l'integrità territoriale e la sovranità popolare; orientare le opzioni alla prospettiva della “pace positiva”, coniugando diritti e prerogative delle componenti nazionali con l'opzione per una Siria unita e multiconfessionale; cessare le forniture militari in Siria, in coerenza con la l. 185/1990 che vieta l'esportazione di armi verso Paesi in stato di conflitto armato.
  • Fermare la guerra e aprire canali umanitari in forma legittima, aderendo ai principi umanitari di terzietà, imparzialità e non-intromissione, a sostegno della popolazione, a partire dagli strumenti esistenti dell'ingresso protetto e dei corridoi legittimi, come nella risoluzione della Assemblea Generale delle Nazioni Unite 45/100 (1990)[10] Costruire la pace, coinvolgendo gli attori legittimi, ribadendo i principi di non-ingerenza e auto-determinazione, coniugando, in forma avanzata, diritto e giustizia internazionale.

Contribuire alla costruzione, in definitiva, di opportunità per la pace e contro la guerra, cessando la logica della militarizzazione e aprendo spazi alla mediazione, al dialogo, in definitiva, alla politica.

 


[1]     Cfr. G. Sarubbi, Più dialogo, più pace, più vita, “Il Dialogo”, 11 Settembre 2016: www.ildialogo.org/editoriali/ direttore_1473592888.htm);  A. Zanotelli, Non possiamo rimanere in silenzio, “Mosaico di Pace”, 13 Gennaio 2017: www.mosaicodipace.it/mosaico/a/43964.html

[2]     Sulla dinamica economica e l'impatto della crisi, in termini agricoli e produttivi, in Siria, cfr. B. Rocchi - D. Romano - R. Hamza, Crisi economica e impatto nei paesi meno sviluppati: il caso della Siria, “Agriregionieuropa”, a. 7, n. 24, Marzo 2011: agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/24/crisi-economica-e-impatto-nei-paesi-meno-sviluppati-il-caso-della-siria; sulla presenza militare russa e la dislocazione strategica mediterranea, cfr. Redazione, Mosca: due basi permanenti in Siria e un aumento della presenza nel Mediterraneo, “Askanews”, 10 Ottobre 2016: askanews.it/esteri/mosca-due-basi-permanenti-in-siria-e-aumento-della-presenza-nel-mediterraneo_711914300.htm.

[3]     Cfr. il Documento ICE, Siria, Congiuntura Economica, Investimenti e Commercio Estero 2010-2011, Aprile 2011: www.laziointernational.it/files/stories/Siria_Congiuntura_Economica.pdf.

[4]     Cfr. M. John, Arab protests show hunger threat to world-economist, “Reuters”, 12 Febbraio 2011, pubblicato sul sito: af.reuters.com/article/egyptNews/idAFLDE71B0A820110212.

[5]     Cfr. N. Azzouz, La fregatura delle “primavere arabe”, in Osservatorio Internazionale, OSSIN, Gennaio 2016, sul sito: ossin.org/uno-sguardo-al-mondo/analisi/1910-la-fregatura-delle-primavere-arabe.

[6]     Cfr. M. Armanino, Diecimila silenzi nel mare, “Nigrizia”, 13 Giugno 2016: nigrizia.it/notizia/diecimila-silenzi-nel-mare.

[7]     Cfr. UNHCR, Global Trends Report: World at War, 18 Giugno 2015, pubblicato sul sito: unhcr.org/556725e69.pdf.

[8]     Cfr. il testo del messaggio per la 51. Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali: w2.vatican.va/content/francesco/it/ messages/communications/documents/papa-francesco_20170124_messaggio-comunicazioni-sociali.html.

[9]     ANSA, Siria: Astana, Russia Siria e Iran monitoreranno tregua, 24 Gennaio 2017: www.ansamed.info/ansamed/it/ notizie/stati/siria/2017/01/24/siria-astana-russia-siria-e-iran-monitoreranno-tregua_3b8b3f26-2ac3-47e6-aeb5-4972c203dd5c.html Cfr., J. Cingoli, Medio Oriente. I vincenti e i perdenti, “Huffington Post”, 27 Gennaio 2017: www.huffingtonpost.it/janiki-cingoli/medio-oriente-i-vincenti-e-i-perdenti_b_14439350.html.  

[10]    Il testo della risoluzione 45/100 del 1990 è al sito: www.un.org/en/ga/search/view_doc.asp?symbol=A/RES/45/100

 

 

 

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Cosa sono davvero le Sanzioni alla Siria

Francesco Santoianni – Comitato italiano contro le sanzioni alla Siria

 

Anche nella sinistra antagonista è sottovalutato – se non , addirittura ignorato - il ruolo avuto finora dall’Italia nella guerra alla Siria (250.000 morti, 6 milioni di profughi). Eppure il nostro paese (che già nel 2012 negava il visto di ingresso a parlamentari siriani invitati dai loro colleghi italiani, mentre accoglieva con tutti gli onori il capo dei “ribelli siriani” Burhan Ghalioun, il giorno dopo l’esplosione di una sua autobomba a Damasco che aveva ucciso 400 persone) è stato tra i primi a rompere le relazioni diplomatiche con Damasco, a riconoscere i “ribelli” del Consiglio Nazionale Siriano quali “unici rappresentanti del popolo siriano”, a promuovere il “Gruppo Amici della Siria” (oggi “Small Group”, e cioè la coalizione di paesi occidentali e petromonarchie che hanno finanziato e armato i “ribelli siriani”) e, soprattutto, a promuovere nell’Unione Europea le sanzioni alla Siria.

Sanzioni contro le quali è stato costituito un Comitato (il suo sito è www.bastasanzioniallasiria.org) anche in appoggio all’Appello promosso da autorevoli esponenti del mondo cattolico siriano e dal Premio Nobel per la Pace  lanciato un appello Mairead Maguire).

 

Le Sanzioni alla Siria

Il 9 maggio 2011, Il Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione 2011/273/PESC  dava il via alle sanzioni contro della Siria. Le motivazioni di queste sanzioni (purtroppo, rinnovate il 27 maggio 2016): “…la grave preoccupazione per gli sviluppi della situazione in Siria e per lo spiegamento di forze militari e di sicurezza in diverse città siriane (e la condanna della) violenta repressione, effettuata anche con l'uso di pallottole vere, delle pacifiche manifestazioni di protesta avvenute in varie località della Siria (…)”

Sarebbe opportuno domandarsi perché mai l’Unione Europea, prima di parlare di repressione di pacifiche manifestazioni di protesta (che certamente, in Siria, come in tutti i paesi arabi c’erano state) non abbia preso in esame il perché e il come della loro trasformazione in sparatorie. Ci riferiamo, ad esempio, alla presenza di anonimi cecchini che, dai tetti, colpivano indiscriminatamente sia la folla sia la polizia; cecchini che per i media occidentali non potevano che essere “agenti di Assad” nonostante che, sin dai tempi della prima “rivoluzione colorata”, quella contro Ceaușescu del 1989 (come quella in Ucraina del 2013) l’impiego di cecchini per trasformare i cortei in massacri è stato appannaggio di forze antigovernative, molto spesso foraggiate da potenze straniere.

Parimenti, appare significativo che gli efferati episodi che segnarono il punto di non ritorno della situazione in Siria, come l’incendio del Palazzo di giustizia di Daraa (avvenuto tre ore dopo che l’emittente araba al-Arabiya ne avesse dato “notizia”)  o l’assalto alla stazione di polizia a Lattakia (10 poliziotti trascinati per strada e lì uccisi) non videro come protagonisti i partecipanti alle manifestazioni ma, piuttosto, “uomini mascherati venuti dal nulla e scomparsi nel nulla, assolutamente sconosciuti dagli organizzatori delle manifestazioni”. La stessa dinamica, del resto, che nel gennaio 2011 caratterizzò l’assalto alla caserma di polizia di Misurata in Libia come ebbe a dichiarare uno dei leader delle manifestazioni di allora.

Questo, ovviamente, non significa che dietro ogni manifestazione di protesta ci debba essere, per forza, lo zampino di qualche potenza straniera. In Siria c’era, certamente, un diffuso malcontento, dettato da una crisi economica e climatica e aizzato da campagne mediatiche veicolate, soprattutto da network televisivi come al-Jazeera. Quello che, comunque, qui ci preme sottolineare è che – a nostro avviso - in Siria non fu (come molti pensano ancora oggi) il progressivo inasprimento della contrapposizione tra “pacifici manifestanti” e forze governative a determinare i primi morti ma l’attuazione di un preciso disegno, dettato da potenze straniere, che da almeno un decennio avevano pianificato, sommosse, omicidi, assalti a stazioni di polizia... per fare precipitare la Siria nella situazione nella quale si trova oggi.

Le Sanzioni dell’Unione Europea del 2011 alla Siria (che riproponevano pedissequamente quanto già stabilito dalle sanzioni USA del 2007) sembrarono essere per l’opinione pubblica una legittima, quanto pacata, risposta alle repressioni di un “regime” già crocifisso su tutti i mass media. L’articolo 4 del documento infatti si limitava a: “(congelare) tutti i fondi e le risorse economiche appartenenti, posseduti, detenuti o controllati dai responsabili della repressione violenta contro la popolazione civile in Siria e dalle persone fisiche o giuridiche o dalle entità ad essi associate, elencati nell'allegato.” Allegato che elenca, tra dirigenti dei servizi di sicurezza e della polizia siriani, stranamente, anche un banchiere, tale “Rami Makhlouf (...) Uomo d'affari siriano. Associato a Maher Al-Assad; finanzia il regime che permette la repressione dei manifestanti.” Al di là delle accuse dell’Unione Europea è da evidenziare che Rami Makhlouf gestiva numerosi business tra i quali una compagnia telefonica; la quale, ovviamente, a seguito delle sanzioni, non avrebbe più potuto avere alcun contatto con le aziende europee, neanche per la fornitura di pezzi di ricambio.

Cominciò così una davvero subdola strategia perpetuatasi nelle successive sanzioni che - al di là del dichiarato embargo sul petrolio e sulle attività della Banca centrale siriana – non vietano esplicitamente di esportare in Siria generi o attrezzature indispensabili per la vita delle popolazioni (quali, ad esempio, sementi o generi alimentari). Ma se si ha la pazienza di leggersi gli innumerevoli allegati alle sanzioni (una serie di elenchi continuamente aggiornati e approvati non dal Consiglio d’Europa ma da anonimi funzionari dell’Unione Europea, quali, ad esempio quelli del “Gruppo Mashreq/Maghreb (MaMa)”, si scopre che le sanzioni applicate “ad personam” riguardano “uomini di affari” presentati come “sostenitori di Assad” (a febbraio del 2015 erano 211) che provvedevano, a vario titolo, alla commercializzazione di innumerevoli generi o attrezzature. E così, anche i pezzi di ricambio indispensabili per far funzionare, ad esempio, un forno per il pane, una rete elettrica, un acquedotto, una attrezzatura medicale... non possono essere più esportati in Siria. L’allegato 2014/C 373/06, poi, chiude il cerchio elencando non solo operatori economici (“uomini di affari”) ma ministri (tra i quali quello per le Risorse idriche e quello della Sanità) che – per fare nostri i termini del documento del maggio 2011 - certamente “controllano” l’approvvigionamento e la manutenzione dei servizi ad essi affidati.

Un altro escamotage dell’Unione Europea per condannare la Siria alla fame, pur mantenendo un alone di “rispettabilità”, è l’embargo (oltre che su attrezzature finalizzate alla repressione che, difficilmente, un qualsiasi “stato canaglia” acquisterebbe all’estero, come ghigliottine, sedie elettriche, catene per contenzione, serrapollici…) di prodotti e tecnologie Dual Use utilizzabili, cioè, per costruire manufatti sia ad uso civile che militare ed elencati nel Regolamento N. 1334/2000 del Consiglio dell’Unione Europea (e successivi aggiornamenti di questo).

Regolamento che oltre a contemplare prodotti chimici indispensabili per attività che dovrebbero essere perfettamente lecite (è, ad esempio, il caso di alcuni nitrati indispensabili per la produzione di fertilizzanti) comprende anche alcuni tipi di circuiti elettronici e di software un tempo utilizzati prevalentemente in ambito militare ma oggi comunemente installati su apparecchiature elettromedicali o su dispositivi di controllo per la produzione industriale. Per di più, chi scrive queste righe ha svolto una piccola inchiesta sull’odissea che devono subire le aziende che chiedono al Ministero dello Sviluppo Economico l’indispensabile Nulla Osta per potere esportare loro manufatti (in questo caso, alcuni relais per una centrale elettrica danneggiata e disinfettanti) in Siria. Nonostante questi relais e questi disinfettanti non figurassero affatto negli elenchi allegati al Regolamento N. 1334/2000, la Commissione che doveva concedere il Nulla Osta, verosimilmente subodorando la possibilità che quanto attestato dalle aziende (tra l’altro, di primissimo piano) che li avevano prodotti non fosse veritiero, ha imposto talmente tante verifiche e lungaggini burocratiche che hanno, infine, determinato l’annullamento della vendita.

Ma se anche una azienda europea, per commerciare con la Siria, volesse bypassare l’embargo (un reato penale punito, ai sensi del D.Lgs 96/2003, con la reclusione da due a sei anni e, tra l’altro, una multa fino a 250.000 euro) effettuando, ad esempio una “triangolazione” (utilizzare un paese terzo come fittizio destinatario) come potrebbe essere pagata? Ci riferiamo ad un aspetto della sanzioni alla Siria particolarmente devastante: il blocco delle transazioni finanziarie, stabilito dal Consiglio dell’Unione Europea, con la Decisione 878 del 2 settembre 2011. Anche questa decisione, ipocritamente, si maschera come una provvedimento ad personam: “(…) il congelamento dei fondi e delle risorse economiche di altre persone e entità che ricevono benefici dal regime o lo sostengono. L’elenco aggiuntivo delle persone, delle entità e degli organismi a cui si applica il congelamento dei fondi e delle risorse economiche è riportato in allegato di detta decisione.” E sulla scia della 273, anche la Sanzione 878 contempla un lungo elenco di operatori economici (direttori di Camere di commercio, di società di intermediazione…) etichettati come “sostenitori del regime siriano” da punire. Ne seguiranno altri con altri allegati.

Gli effetti del blocco delle transazioni finanziarie sono così sintetizzati nell’Appello degli esponenti cattolici siriani: “(…) La situazione in Siria è disperata. Carenza di generi alimentari, disoccupazione generalizzata, impossibilità di cure mediche, razionamento di acqua potabile, di elettricità. Non solo, l’embargo rende anche impossibile per i siriani stabilitisi all’estero già prima della guerra di spedire denaro ai loro parenti o familiari rimasti in patria. Anche le organizzazioni non governative impegnate in programmi di assistenza sono impossibilitate a spedire denaro ai loro operatori in Siria. Aziende, centrali elettriche, acquedotti, reparti ospedalieri sono costretti a chiudere per l’impossibilità di procurarsi un qualche pezzo di ricambio o benzina. (…) “Oggi i siriani vedono la possibilità di un futuro vivibile per le loro famiglie solo scappando dalla loro terra. Ma, come si vede, anche questa soluzione incontra non poche difficoltà e causa accese controversie all’interno dell’Unione europea. Né può essere la fuga l’unica soluzione che la comunità internazionale sa proporre a questa povera gente. (…) E la retorica sui profughi che scappano dalla guerra siriana appare ipocrita se nello stesso tempo si continua ad affamare, impedire le cure, negare l’acqua potabile, il lavoro, la sicurezza, la dignità a chi rimane in Siria. (….)”

 

Il 2 settembre 2011 una nuova decisione del Consiglio dell’Unione Europea (la 2011/522/PESC) inasprì le sanzioni alla Siria imponendo, tra l’altro, il divieto di acquistare, importare o trasportare dalla Siria petrolio greggio e prodotti petroliferi.

Per comprendere la gravità di questa misura basti un dato. Nel 2010 la Siria (le sue riserve di petrolio sono stimate in 2,5 miliardi di barili) estraeva ogni giorno 375mila barili di petrolio al giorno, di cui circa 150mila destinati all’export. Con il prezzo del barile sul mercato che superava i 100 dollari, ciò si traduceva in un’entrata fissa pari a circa 16 milioni di dollari al giorno, vale a dire quasi 6 miliardi di dollari l’anno. Una risorsa che insieme al Turismo (6 milioni di turisti stranieri nel 2010) e all’industria farmaceutica (la Siria esportava farmaci in più di 50 paesi) aveva permesso a questo Paese di raggiungere un relativo benessere e il raggiungimento di significativi standard di vita (tra cui un buon sistema sanitario e la scomparsa dell’analfabetismo). In più il petrolio alimentava una notevole produzione elettrica (nel 2010 46 miliardi di Kilowatt all'ora) che riforniva anche il Libano.

Ma l’embargo petrolifero alla Siria ha conosciuto clamorosi risvolti. Intanto, entrò in vigore non il 2 settembre ma solo due mesi dopo, a seguito della richiesta italiana di rispettare alcuni contratti, firmati da aziende italiane con la Siria, che prevedevano forniture di petrolio fino al 30 novembre. Al di là di un polverone mediatico-giudiziario, non è noto (sono andate a vuoto le nostre richieste di un comunicato ufficiale) se questi contratti prevedessero (come è prassi) il pagamento a 30-60 giorni dopo la consegna o se, il pagamento (o un congruo anticipo di questo) era stato versato alla stipula dei contratti; e così non è noto se le aziende italiane abbiano onorato questi contratti o se si siano tenuti sia il petrolio siriano sia i soldi. Di certo l’atteggiamento del governo italiano provocò l’irritazione dei più agguerriti fautori delle sanzioni alla Siria, come la City di Londra e i suoi (consapevoli o no) sponsor.

 D’altro canto, i (consapevoli o no) sponsor degli interessi di altre aziende italiane - forse perché memori dei danni all’economia italiana conseguenti alle sanzioni prima e alla guerra poi alla Libia - hanno evidenziato come il nostro paese, tra quelli della UE, risulti essere il più penalizzato dalle sanzioni alla Siria costringendoci a rinunciare ad un interscambio commerciale annuo di 2,3 miliardi di euro e ad accordi già stipulati nel campo dell’estrazione del petrolio e della realizzazione di infrastrutture.

Ma queste polemiche passano in secondo piano di fronte alla davvero scandalosa decisione dell’Unione Europea che permette ai cosiddetti “ribelli siriani” di bypassare le sanzioni potendo così, nelle aree da essi “liberate”, esportare petrolio e importare armi.

Il 13 Dicembre 2012 l’Italia riconosceva come “unica legittima rappresentante del popolo siriano” la “Coalizione nazionale degli oppositori siriani”. Questa decisione – presa, ovviamente, senza alcuna votazione né, tantomeno, discussione in Parlamento: solo una fugace audizione del ministro degli Esteri Terzi, il 12 dicembre, alla Commissione Esteri della Camera – discendeva dall’adesione dell’Italia, avvenuta, anch’essa alla chetichella, già nel luglio 2012 il Gruppo “Amici del popolo siriano” dove l’Italia si impegnava a garantire “un aumento massiccio degli aiuti all'opposizione al regime di Bashar Al-Assad”. Questo Gruppo, del resto, vedeva , tra gli altri, la partecipazione dei rappresentanti dell’Arabia Saudita e del Qatar i quali, già da tempo, stavano inviando in Siria le loro bande di tagliagole autoproclamatesi “Coalizione nazionale degli oppositori siriani”.

Il 31 maggio 2013, il Consiglio dei Ministri degli Esteri dell’Unione Europea con la Decisione 2013/255/PESC toglieva l’embargo del petrolio dalle aree “liberate dai ribelli” i quali, da allora, vendono “legalmente” il petrolio siriano alle compagnie petrolifere occidentali. Avendo già distrutta, nel febbraio del 2012, la raffineria di Bab Àmro (la più grande della Siria, nei pressi di Homs) e ucciso quasi tutte le maestranze, i “ribelli” si affrettarono a far giungere lì tecnici provenienti dall’Arabia Saudita e, soprattutto, autobotti (l’oleodotto dalla raffineria sfocia nel porto di Tartus) per trasportare i prodotti petroliferi in Turchia. Da lì il petrolio dei siriani, certamente, (anche se nessuna informazione ufficiale viene fornita su questo; vedi più avanti) arriva ad aziende europee e i soldi di questo ai “ribelli”.

Ancora peggio un altro punto della Decisione che toglieva l’embargo alle armi destinate ai “ribelli”. E ciò nonostante la protesta di paesi quali Austria, Repubblica Ceca, Finlandia, Olanda e Svezia, sintetizzata dall’allora ministro degli Esteri austriaco: “inviare armi è contro i principi dell’Europa, che è una comunità di pace.” A neutralizzare le proteste per la deroga sulle armi fu certamente l’ambigua posizione di Germania e Italia, finalizzata a “favorire un compromesso”. “Compromesso” che fu interpretato da Francia e Gran Bretagna come un via libera alla fornitura di armi ai ribelli.

Al di là della spaccatura nel Consiglio dell’Unione europea (pudicamente sottaciuta dai mass media) - dettata, verosimilmente, da Francia e Gran Bretagna che speravano di riproporre lo stesso blitz da essi effettuato in Libia nel 2011 e dall’esigenza di Germania e Italia di non trovarsi, ancora una volta, alla finestra – ci sarebbe da domandarsi perché mai l’“elasticità” di allora nel derogare, per le armi, le sanzioni contro la Siria non sia stata poi concessa per altri aspetti di queste. Comunque sia, l’ambiguità tenuta allora dall’Unione europea si è tradotta in un guazzabuglio nella conseguente Decisione che così si esprime:

“Rispetto alla possibile esportazione di armi alla Siria, il Consiglio ha preso nota dell’impegno da parte di alcuni Stati membri di procedere nelle loro politiche nazionali come segue:

- la vendita, la somministrazione, il trasferimento e l’esportazione di attrezzature militari che potrebbero essere usate per la repressione interna saranno per la Coalizione nazionale siriana delle forze rivoluzionarie e dell’opposizione e destinate alla protezione dei civili; (ma che vuol dire??)

- gli Stati membri dovrebbero richiedere, prima di autorizzare, adeguate salvaguardie, in particolare informazioni importanti che riguardano l’uso e la destinazione finale della consegna;

- gli Stati membri dovrebbero valutare le domande di licenza di esportazione caso per caso, tenendo pienamente conto dei criteri indicati nella Posizione comune del Consiglio 2008/944/CFSP dell’8 dicembre 2008 che definisce regole comuni che reggono il controllo dell’export di tecnologia e attrezzature militari. Gli Stati membri non procederanno a questo stadio alla consegna di tale materiale. Il Consiglio rivedrà la propria posizione entro il 1 agosto 2013 sulla base di un rapporto da parte dell’Alto rappresentante, dopo essersi consultato con il segretario generale dell’Onu, sugli sviluppi legati all’iniziativa Usa-Russia e all’impegno delle parti siriane.”

Va da sé che di queste “valutazioni” e di questi documenti che avrebbero dovuto far “rivedere” la posizione dell’Unione europea non si trova traccia in nessuno dei successivi documenti elencati nel, pur ponderoso, dossier inerente le sanzioni alla Siria, nè, tantomeno, nell’ultima Decisione dell’Unione europea che il 31 maggio 2016 ha prorogato le sanzioni alla Siria.

A tal proposito, il giornale on line L’Antidiplomatico ai primi di giugno scriveva all’Ufficio Stampa del Consiglio dell’Unione Europea per chiedere il perché di queste clamorose omissioni (che, tra l’altro, contrastano con la pignola precisione vantata dai burocrati di Bruxelles) e, in particolare domandava se fosse stata confermata o, in qualche modo, regolamentata la revoca delle sanzioni sul petrolio e le armi ai “ribelli”. La risposta è stata, a dir poco, evasiva. Sulla deroga alle sanzioni alle armi non c’è stata data nessuna risposta; peggio ancora sulle modalità della deroga inerente la commercializzazione del petrolio rubato dai “ribelli: Per quanto riguarda le restrizioni all'importazione del petrolio siriano, a certe condizioni e previa consultazione con la Coalizione nazionale delle forze dell'opposizione e della rivoluzione, gli Stati membri possono autorizzare deroghe a questo divieto".

E così, alla faccia della “trasparenza” nella quale pretende di ammantarsi l’Unione Europea, non si può sapere né chi sono gli stati europei che importano oggi petrolio siriano né chi sono i “ribelli” che lo vendono o che lo barattano con armi. Di certo sappiamo che dall’approvazione della sanzione 2013/255/PESC la fornitura di armi pesanti e sistemi missilistici ai “ribelli” siriani sono aumentate in maniera esponenziale , sopratutto da parte della Francia. Non caso, considerato che, già nel 2013, il ministro Laurent Fabius affermava che Al Nusra (una filiale di al Qaeda) “in Siria faceva un buon lavoro"

 

Ma occupiamoci delle conseguenze delle della sanzioni sulla popolazione siriana.

Quante le vittime delle sanzioni imposte dall’Unione Europea? Ci sono già – oltre ad innumerevoli, toccanti, testimonianze di siriani e di giornalisti – alcuni esaustivi studi (leggibili nella versione ipertestuale di questo documento riportata nel sito wwww.bastasanzioniallasiria.org) sul come le sanzioni si impattano sula società siriana e altri che analizzano alcuni aspetti della disastrata situazione della Siria; ma, al momento, nessuna letteratura scientifica sugli effetti delle sanzioni sulla popolazione. Per comprenderli può, comunque, essere utile un raffronto con le sanzioni inflitte all’Iraq (idem wwww.bastasanzioniallasiria.org)  che, secondo un Rapporto Unicef, provocarono, tra l’altro, la morte per denutrizione e malattie di 500.000 bambini.

Ma cerchiamo di delineare gli effetti delle sanzioni sulla popolazione siriana, suddividendoli per settori colpiti. Intanto quello medico-sanitario.

Uno dei principali effetti delle sanzioni alla Siria è oggi il dilagare di infezioni che non possono essere adeguatamente affrontate. La Siria, prima del 2012 aveva una fiorente industria farmaceutica (con l'eccezione di quelli per il cancro, la Siria era autosufficiente al 95% in termini di produzione di farmaci) ed un soddisfacente sistema ospedaliero, il cui “fiore all’occhiello” era certamente, il Centro oncologico “Al Kindi” di Aleppo, il più grande del Medio Oriente (e fatto saltare dai “ribelli” con un camion bomba).

Oggi, senza elettricità e con i gruppi elettrogeni anch’essi privi di combustibile, (e quindi con frigoriferi e apparecchiature di sterilizzazione fuori uso) quello che resta della rete di presidi ospedalieri scampati alle distruzioni è praticamente al collasso. Ne consegue un numero elevatissimo di infezioni ospedaliere che, tra l’altro, non possono essere affrontate per la mancanza di antibiotici.

Ancora peggio per altre infezioni quali tetano e il morbillo. Nel dicembre 2012, una epidemia di morbillo, nonostante l’intervento di mezzi dell’Unicef, si portò via migliaia di bambini; da allora sono state registrate altre epidemie che non è stato possibile affrontare adeguatamente, soprattutto per la mancanza di carburante. Poi ci sono le infezioni gastrointestinali determinate dalla impossibilità di ripristinare acquedotti ed impianti di sollevamento idrico danneggiati dalla guerra o dall’usura. Sulle persone decedute in Siria negli ultimi anni a seguito di infezioni (anche per quelle che in Occidente non costituiscono un problema) non si hanno stime e così pure per persone morte per l’impossibilità di seguire determinate terapie (prime tra tutte quelle contro il diabete o il cancro) come documenta un articolo della rivista medica “The Lancet”.

Poi, c’è il dramma della denutrizione. Secondo alcune stime pubblicate nell’articolo del “The Lancet”, oltre l'80% della popolazione siriana vive oggi in condizioni di povertà, di cui un terzo in condizioni definite di estrema povertà, (impossibilità ad ottenere prodotti alimentari di base); l'aspettativa di vita si è ridotta, quindi, da 75-79 anni del 2010 (uno tra i più alti del Medio Oriente) a 55-57 anni del 2014. Intanto, il tasso di disoccupazione è salito dal 15% del 2011 a 57% del 2014, mentre il costo dei prodotti alimentari di base è aumentato di sei volte dal 2010.

In questa tragica situazione risulta beffarda l’impossibilità per i siriani che vivono all’estero di potere inviare danaro ai loro cari rimasti in patria. E così, bloccato dalle sanzioni il circuito bancario internazionale che serviva la Siria, per molti – anche per alcune ONG - non resta che nascondere un po’ di banconote tra i vestiti e attraversare la frontiera dal Libano sperando di non essere depredati da bande di rapinatori o da disperati alla fame.

 

Il testo completo di questo documento, completo di rimandi ipertestuali, può essere letto al sito:

wwww.bastasanzioniallasiria.org 

 

Appello

Basta sanzioni alla Siria e ai siriani

Nel 2011 l’Unione Europea, varò le sanzioni contro la Siria, presentandole come “sanzioni a personaggi del regime”, che  imponevano al Paese l’embargo del petrolio, il blocco di ogni transazione finanziaria e il divieto di commerciare moltissimi beni e prodotti. Una misura che dura ancora oggi, anche se, con decisione alquanto inspiegabile, nel 2012 veniva rimosso l’embargo del petrolio dalle aree controllate dall’opposizione armata e jihadista, allo scopo di fornire risorse economiche alle cosiddette “forze rivoluzionarie e dell’opposizione”.

In questi cinque anni le sanzioni alla Siria hanno contribuito a distruggere la società siriana condannandola alla fame, alle epidemie, alla miseria, favorendo l’attivismo delle milizie combattenti integraliste e terroriste che oggi colpiscono anche in Europa. E si aggiungono a una guerra, che ha già comportato 250.000 morti, sei milioni di sfollati e quattro milioni di profughi.

La situazione in Siria è disperata. Carenza di generi alimentari, disoccupazione generalizzata, impossibilità di cure mediche, razionamento di acqua potabile, di elettricità. Non solo, l’embargo rende anche impossibile per i siriani stabilitisi all’estero già prima della guerra di spedire denaro ai loro parenti o familiari rimasti in patria. Anche le organizzazioni non governative impegnate in programmi di assistenza sono impossibilitate a spedire denaro ai loro operatori in Siria. Aziende, centrali elettriche, acquedotti, reparti ospedalieri sono costretti a chiudere per l’impossibilità di procurarsi un qualche pezzo di ricambio o benzina.

Oggi i siriani vedono la possibilità di un futuro vivibile per le loro famiglie solo scappando dalla loro terra. Ma, come si vede, anche questa soluzione incontra non poche difficoltà e causa accese controversie all’interno dell’Unione europea. Né può essere la fuga l’unica soluzione che la comunità internazionale sa proporre a questa povera gente.

Così sosteniamo tutte le iniziative umanitarie e di pace che la comunità internazionale sta attuando, in particolare attraverso i difficili negoziati di Ginevra, ma in attesa e nella speranza che tali attese trovino concreta risposta, dopo tante amare delusioni, chiediamo che le sanzioni  che toccano la vita quotidiana di ogni siriano siano immediatamente sospese. L’attesa della sospirata pace non può essere disgiunta da una concreta sollecitudine per quanti oggi soffrono a causa di un embargo il cui peso ricade su un intero popolo.

Non solo:  la retorica sui profughi che scappano dalla guerra siriana appare ipocrita se nello stesso tempo si continua ad affamare, impedire le cure, negare l’acqua potabile, il lavoro, la sicurezza, la dignità a chi rimane in Siria.

Così ci rivolgiamo ai parlamentari e ai sindaci di ogni Paese affinché l’iniquità delle sanzioni alla Siria sia resa nota ai cittadini dell’Unione Europea (oggi assolutamente ignari) e diventi, finalmente,  oggetto di un serio dibattito e di conseguenti deliberazioni.

 

Firmatari:

Padre Georges Abou Khazen – Vicario apostolico dei Latini ad Aleppo

Padre Pierbattista Pizzaballa  – Emerito Custode di Terrasanta

Padre Joseph Tobji  – Arcivescovo maronita di Aleppo

Padre Boutros Marayati – Vescovo armeno di Aleppo

Suore della Congregazione di San Giuseppe dell’Apparizione dell’Ospedale “Saint Louis” di Aleppo

Comunità Monache Trappiste in Siria

Dottor Nabil Antaki – Medico, ad Aleppo, dei Fratelli Maristi

Suore della  Congregazione del Perpetuo Soccorso – Centro per minori e orfani sfollati di Marmarita

Padre Firas Loufti – Francescano

Monsignor Jean-Clément Jeanbart – Arcivescovo greco-cattolico di Aleppo 

Monsignor Jacques Behnan Hindo – Vescovo siro-cattolico di Hassakè-Nisibi

Padre Mtanios Haddad – Archimandrita della chiesa Cattolica-Melchita e Procuratore patriarcale

Mons. Hilarion Capucci – Arcivescovo emerito della Chiesa greco-cattolico melchita

S.B. Ignace Youssef III Younan Patriarca di Antiochia dei Siri

Mgr.Georges Masri, Procuratore presso la Santa Sede della Chiesa Siro-cattolica

S.B. Gregorio III Laham – Patriarca dei Melchiti

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