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Sui nuovi termini della Questione Meridionale: le tendenze dello sviluppo capitalistico nel Mezzogiorno e le proposte dei comunisti

Pubblichiamo questo documento  redatto dalla federazione provinciale di Caserta del PCI sui "nuovi termini della questione meridionale". Rileviamo nell'analisi dei compagni alcuni interessanti spunti analitici circa il corso della crisi sistemica del capitale, l'accentuarsi dei fattori della competizione globale e la conseguente analisi sul polo imperialista europeo ma - soprattutto -  registriamo un approccio analitico al Sud originale e fuori da ogni sclerotizzata interpretazione (riformistica) del "problema Mezzogiorno" come "area di mancato sviluppo e/o sottosviluppo". 

           La redazione del sito della RdC

 

Sui nuovi termini della Questione Meridionale: le tendenze dello sviluppo capitalistico nel Mezzogiorno e le proposte dei comunisti

 

Crisi del capitalismo e sviluppo ineguale. Il caso del Meridione.

 

  • Il sottofondo strutturale dei nostri tempi è la crisi di sovrapproduzione, crisi sistemica e globale, nella quale il capitalismo imperialista si dibatte dalla metà degli anni ’70 del secolo scorso.

Il problema è quindi nel meccanismo profondo della produzione e non nelle distorsioni e polarizzazioni distributive o nello squilibrio finanziario, che semmai sono una conseguenza inevitabile.

L’andamento della crisi non è lineare: crolli, stagnazione, ripresine asfittiche stanno segnando da mezzo secolo il modo di produzione capitalistico, sempre più contraddittorio. L’andamento del saggio di profitto, in questi alti e bassi della produzione, è comunque rappresentato da una curva decrescente.

È dunque la crisi il potente motore dei cambiamenti, strutturali e geopolitici, continui e veloci che caratterizzano questi tempi.

  • La crisi ha determinato, a partire dagli anni ’70 del XX secolo, una profonda ristrutturazione negli apparati di produzione a livello mondiale, attuata combinando la delocalizzazione della produzione verso aree in grado di garantire bassi salari e disciplina produttiva all’automazione delle principali funzioni produttive.

Questo processo ha determinato il drastico ridimensionamento della classe operaia “fordista”, concentrata in grosse fabbriche ed estremamente omogenea dal punto di vista del ruolo produttivo. Il sistema informativo aziendale diventa il centro di regolazione e di coordinamento delle strategie produttive.

L’importanza, per il sistema produttivo, della risorsa ‘informazione’ ha, nel corso degli anni, determinato una profonda ristrutturazione del cosiddetto ‘terziario’, sia pubblico che privato, con una funzionalizzazione e subordinazione di ruoli e funzioni sociali alla catena del valore, sia tramite la salarizzazione (ovviamente al ribasso), sia tramite l’introduzione di metodi e ritmi più simili alla produzione di merci che all’amministrazione.

Si tratta dunque di un processo di proletarizzazione che però non unifica automaticamente le figure sociali coinvolte, ma crea piuttosto una molteplicità di ruoli e figure differenziate dal punto di vista salariale e anche fisicamente separate, persino nella stessa catena produttiva e/o amministrativa.

Con l’industria 4.0 questo processo investe, alla fine, i ruoli di progettazione/coordinamento, con l’applicazione di algoritmi di I.A. e la conseguente espulsione dai cicli produttivi di figure professionali già garantite e privilegiate in senso salariale e di gestione di tempi e ritmi.

  • Sempre la crisi ha profondamente rimodellato la gerarchia imperialistica: dal bipolarismo Usa/Urss derivato dalla seconda guerra mondiale, si è passati per breve tempo al predominio mondiale degli Usa, messo in crisi dalle resistenze alle aggressioni neocoloniali e dall’emergere di nuovi poli: Unione Europea, Cina, Russia, India.

Il progetto USA, subito dopo l’implosione dell’Urss, consisteva nell’abbattimento di qualsiasi barriera (nazionale, giuridica, etnica) al dominio delle multinazionali.

Le guerre scatenate in rapida successione in Europa (Jugoslavia), Asia Centrale (Afghanistan), Medio Oriente (Iraq, Siria) e nuovamente in Europa (Ucraina) hanno avuto precisamente questo scopo: rompere lacci e lacciuoli che impedivano l’espansione del cosiddetto ‘libero mercato’ (quando, in realtà, la libertà di cui si parla è quella delle multinazionali a stelle e strisce, con qualche briciola per gli alleati europei, mentre si può negare ogni “sacralità” al libero mercato per rispondere alla competizione globale con la Cina).

In questo intreccio geopolitico si pongono anche le contraddizioni del processo di integrazione europea consolidatosi nell’Ue e nell’Euro: si tratta di un progetto imperialistico, gerarchizzato al suo interno, e tendenzialmente competitivo con gli Usa, ma si tratta di un progetto che è ben lungi dal realizzarsi, permanendo contraddizioni di carattere globale (la competizione con gli Usa) legate a contraddizioni di carattere infraeuropeo (i rapporti economici tra i paesi del centro Europa con quelli della periferia; la diversità di orientamenti geopolitici tra ciascuno dei paesi membri).

  • L’emergere di paesi di nuova industrializzazione (India, Cina) e l’opposizione all’invadenza del capitalismo multinazionale (Russia), pur restando in un ambito assolutamente capitalistico e quindi connettendosi alle sue inevitabili contraddizioni, prefigura uno scenario multipolare, estremamente fluido e variabile nelle alleanze e nella costituzione di poli imperialisti.

  • Un risvolto storicamente riscontrabile della crisi sistemica è la guerra. Guerre neocoloniali, estremamente feroci, condotte con tutto l’arsenale tecnico messo a disposizione dallo sviluppo scientifico, ma anche forme di guerra non tradizionale: sovversione tramite reti internazionali legate ai servizi occidentali, terrorismo sotto falsa bandiera, guerra finanziaria, guerra economica, guerra virtuale (sabotaggio delle reti e rapina delle informazioni strategiche).

Una delle conseguenze di questi interventi criminali è la crisi migratoria, indotta da guerre, diktat spietati del Fmi, crisi climatiche e desertificazioni.

Anche su questo tema, l’umanitarismo generico, slegato da una critica al sistema imperialistico, o è imbelle o – peggio – è funzionale al dominio imperialista.

Di fronte alla potenza bellica, il pacifismo tradizionale, che pure si era espresso con la mobilitazione mondiale di milioni di persone in occasione dell’aggressione all’Iraq, ha definitivamente chiuso il suo ciclo, trasformandosi spesso in truppa di complemento nelle aggressioni contro quelli che, secondo gli Usa e i loro alleati europei, sarebbero ‘stati canaglia’.

Un ruolo centrale nelle aggressioni è svolto dalla Nato, camera di compensazione degli interessi Usa ed europei e quindi non priva di interne contraddizioni, ma in ultima analisi strumento dell’imperialismo Usa.

Un rilancio del movimento contro la guerra deve partire dall’aggiornamento della concezione stessa di tale fenomeno e da un aspetto che non ci pare banale: oggi la guerra può travestirsi da pace.

  • La costruzione di un polo imperialista europeo si fonda su un predominio progettuale ed operativo di un centro (Francia, Germania e Nord Europa) di massima concentrazione di capitali e risorse tecnologiche ed una periferia da sottomettere agli interessi del centro.

La funzione della periferia consiste nella riserva di manodopera a basso costo, nella sperimentazione della precarizzazione ricattatoria del lavoro e dei diritti.

Le politiche dell’Unione Europea, l’ossessione ordoliberista per i bilanci e l’arroganza dei padroni dell’Ue (manifestatasi pienamente durante la gestione della crisi greca) tendono a divaricare ancora di più il divario tra centro e periferia, nonostante la retorica di certa euromania “di sinistra”.

Questa analisi è tendenzialmente già patrimonio di larghe masse, in particolar modo dei paesi Piigs, sebbene essa abbia assunto spesso la forma rozza e criminale di chi fomenta la guerra tra poveri, come – nel caso italiano – la Lega.

  • Noi apparteniamo ad un Sud, un Sud non geografico, ma concettuale. Come italiani e meridionali, siamo parte della periferia europea e parte della periferia italiana, avendo subito un secolare sviluppo diseguale nell’ambito della costruzione nazionale e subendo, oggi, uno sviluppo diseguale nell’ambito della costruzione del polo imperialista europeo.

Una caratterizzazione di questo sviluppo diseguale è espressa dalla desertificazione produttiva (ma solo nel senso del lavoro stabile), nel ruolo di discarica, di riserva di manodopera disponibile a basso costo e di sperimentazione sociale ed ecologica.

  • Bisogna smettere di pensare al Sud ed ai Sud (non geografici, ma concettuali) come a zone di mancato sviluppo capitalistico (cui consegue l’inevitabile corollario ‘sviluppo vs. sottosviluppo’). Le aree periferiche sono esattamente il risultato storico dello sviluppo capitalistico, molto spesso sono state e continuano ad essere aree di sperimentazione e di laboratorio sociale. Basti pensare alla precarizzazione dei rapporti di lavoro: per gli sfruttati del Sud non è assolutamente una novità

  • Questo ci pone dei compiti urgenti di analisi e di riconsiderazione dei classici strumenti di intervento: non basta più chiedere lo sviluppo, l’investimento, la riproposizione di modelli industriali-assistenziali come quelli della Cassa del Mezzogiorno e delle fabbriche degli anni ’60, ma va impostata una strategia basata sulla qualità e l’integrazione dello sviluppo, per impedire che eventuali investimenti possano provocare ulteriore devastazione sociale, ambientale, antropologica.

  • Una specificità del ‘nostro’ Sud è la presenza, capillare e socialmente radicata, delle cosiddette mafie, che sarebbe meglio chiamare “capitalismo criminale”.

Lungi dall’essere contraddittorie con lo sviluppo capitalistico, infatti, tali strutture criminali, intrecciate con la cosiddetta “economia sana” (fondata sulla violenza dell’estorsione di plusvalore) e con gli apparati burocratici statali (è esemplare a tale proposito la vicenda della “Terra dei fuochi”), svolgono un ruolo di accumulazione velocissima di capitali (riversati nel gigantismo finanziario globale e perciò depersonalizzati) e di controllo sociale.

La lotta contro le mafie, cioè contro il capitalismo criminale, o è lotta anticapitalistica tout court oppure è mistificazione consolatoria.

  • Non c’è nessuno stato o sistema democratico da difendere: si tratta di progettare e radicare nelle masse la necessità storica del socialismo.

Noi viviamo, da quando Tangentopoli ha sepolto i partiti di massa, in un regime che molti definiscono post-democratico, un regime nel quale le élites finanziarie e burocratiche sono impermeabili alla volontà popolare.

La democrazia moderna, come è stata conosciuta nello scorso secolo (democrazia che era pur sempre democrazia borghese), è tramontata.

La difesa delle parti progressive della Costituzione deve fare i conti con questa sostanziale discontinuità, altrimenti si corre il rischio di essere il belletto di una situazione di sostanziale dittatura autoritaria del capitale.

 

Prospettive attuali e brevi cenni sulle nuove figure della produzione.

Abbiamo affermato come sia fuorviante interpretare gli attuali termini della questione meridionale in termini di sottosviluppo o di ritardo rispetto al resto dell’economia nazionale: no, è proprio un certo sviluppocapitalistico ad essere causa della situazione che abbiamo davanti.

Questo determinato sviluppo capitalistico è stato ed è segnato da una compenetrazione di elementi arcaici con elementi di modernità e tali elementi arcaici sono stati e sono funzionali (e non di ostacolo) alla riproduzione sociale e politica sistemica.

Il documento politico che guida la nostra discussione congressuale, rivolgendo l’attenzione alla regressione sul piano della produzione industriale ed il depauperamento dell’Italia intera, sottolinea come il Mezzogiorno paghi «il conto più salato». «Il Mezzogiorno d’Italia è divenuto un territorio deprivato, terra di conquista per speculatori», «rafforzando anche per quella via il potere delle mafie, sempre più organicamente» (ma sarebbe più corretto dire “costitutivamente”) «connesse ai poteri economico-finanziari».

Se lo sviluppo capitalistico del Sud è stato all’insegna – come sottolineato da Emiliano Brancaccio – di un ossequio agli interessi delle classi possidenti mediato in termini di consenso dalla distribuzione di prebende, è bene tenere presente il legame di questi due elementi per non degradare ad un parassitismo di carattere magari razziale la ricerca di strumenti di sussidio dei redditi delle fasce socialmente più deboli, bensì alle necessità strutturali della produzione. In ogni caso, anche il ruolo delle prebende tende ad essere ridimensionato in nome del più preferibile principio delle “lacrime e sangue”: tra il 2013 ed il 2015, secondo lo SVIMEZ, i tagli della spesa pubblica al Sud sono passati dal 4,5% del PIL al 6,2%; nello stesso periodo, al Centro-nord i tagli passavano dal 2,2% al 2,9%.

Quando, parliamo di primato del mercato, non intendiamo dire che lo stato sia assente. Siamo nella presenza di uno stato che regola l’agire degli operatori di mercato, ma lo fa secondo un interesse di classe, come è inevitabile che sia. Il fatto che il mercato sia regolato non è oggetto di scandalo per i liberisti più avveduti, ma è invece condizione di uno sviluppo più equilibrato non solo dal punto di vista economico della produzione, ma anche sul piano politico e del consenso. È per questo che è perfettamente nell’interesse della riproduzione sistemica anche la prebenda ed il reddito di cittadinanza.

Il documento congressuale concentra l’attenzione su un Sud dove sono presenti meno opportunità di lavoro per i giovani e più povertà: tutti i dati confermano questa osservazione. Ai fini del nostro lavoro, però, è interessante osservare come – anche secondo il rapporto dello SVIMEZ – sia la dinamica interna ai settori economici a trasformarsi: nonostante i toni trionfalistici del Jobs Act ed il doping offerto dagli incentivi fiscali, non è l’industria ad essere protagonista della assai modesta ripresa occupazionale, ma agricoltura, commercio e turismo.

Si deve dire che questi dati non tengono in adeguato conto il sommerso che, proprio in agricoltura, commercio e turismo, rappresenta una componente non trascurabile. Gli osservatori sottolineano, inoltre, come: 1. nel Sud l’impatto del programma “Industria 4.0” sia stato assai diverso che rispetto al resto d’Italia; 2. permangano problematiche relative al deficit infrastrutturale nel campo dei trasporti.

Se, dunque, come suggerisce il documento, deve essere sottolineata la regressione dell’industria in Italia, occorre osservare come tali dinamiche ci spingano verso un nuovo quadro della produzione, inscritto in una divisione internazionale del lavoro orientata, nel quadro europeo, verso una «mezzogiornificazione del Sud Europa» (espressione coniata dall’economista keynesiano Paul Krugman e ripresa da Emiliano Brancaccio). Tale «Sud Europa» non deve intendersi in senso geografico, ma in senso economico: si tratta dei cosiddetti paesi PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna).

Il ritorno a forme di caporalato (che potrebbero farci pensare in termini borghesi di “ritardo” e “sottosviluppo) sono strutturalmente integrate in una divisione internazionale del lavoro che orienta la produzione nel Mezzogiorno in tale direzione a un tempo post-industriale e neo-schiavile.

Siamo davanti a tempi nuovi che trasformano le forme della produzione ed individuano nuovi soggetti, nuovi sfruttati, nuove figure sociali da studiare.

Si tratta dei lavoratori agricoli, ma si tratta anche di tante figure della cosiddetta gig economy (da chi svolge “lavoretti” in senso tradizionale a quelli che vivono la realtà di supersfruttamento delle piattaforme).

L’evoluzione nella struttura delle classi ha interessato anche la piccola borghesia, significativamente rappresentata dallo sviluppo del commercio e del settore dei servizi. Tale evoluzione è significativamente rappresentata ideologicamente dal culto della piccola impresa, di per sé portatrice di virtù salvifiche e del cosiddetto “imprenditore di se stesso”. Una rappresentazione ideologica apologetica dello stato presente, che offrendo l’illusione di vivere «senza padrone» (quando in realtà lo sfruttamento permane ed è – per così dire – velato) in realtà un autocontrollo volto alla più alta produttività individuale possibile.

Un dibattito sulle nuove figure della produzione, anche nell’area comunista è a riguardo molto indietro e segnato in gran parte da un’impostazione riformistica volta al riconoscimento ed all’inquadramento (contrattuale e sindacale) di tali figure.

Il rischio proveniente da questa logica riformistica è che ci sia piena integrazione tra la destrutturazione e ristrutturazione della produzione e la distribuzione di prebende.

È in questo discorso che si iscrive – ci pare – la proposta di istituzione di un reddito di cittadinanza, subordinato ad una riforma dei centri per l’impiego ed all’erogazione di otto ore settimanali di lavoro gratuito: da un lato la desertificazione industriale, il lavoro che raggiunge livelli di precarietà mai visti prima, i lavoretti e lo sfruttamento nei campi; dall’altro, una prebenda di stato che ottiene anche l’effetto di livellare i salari.

In particolare, quest’ultima posizione si pone sul livello borghese della redistribuzione del reddito lasciando inalterati i rapporti di produzione capitalistici. Le posizioni che chiedono elemosine di stato non sono diverse, ma convergenti, con quelle che chiedono uno sviluppo capitalistico agitando la necessità di “attrarre gli investimenti” (né si vede come ciò sia possibile seguendo i criteri del passato, dal momento che il sud non è più – né può essere – un serbatoio di manodopera a basso costo più di quanto possa esserlo qualunque altro paese dell’Est Europa). Solo ponendo in discussione l’intervento pubblico com’è stato finora e mettendo al centro del dibattito una socializzazione degli investimenti che non si esaurisca nell’intervento di stato, ma ponga sotto il controllo popolare tale intervento, si spinge in una direzione progressiva, ossia verso il superamento dello sviluppo capitalistico, verso il socialismo.

 

Linee programmatiche di una nuova politica meridionalista.

Nessuno sviluppo è possibile nelle catene del profitto capitalistico, che sottomette alle sue logiche la dignità umana e la tutela del territorio. Una nuova politica meridionalista non può che basarsi sulla socializzazione degli investimenti, secondo le seguenti linee guida:

  1. La bonifica del territorio è condizione indispensabile alla sua riqualificazione ed al rilancio di due settori produttivi fondamentali per il Meridione, l’Agricoltura ed il Turismo. Nel campo dell’Agricoltura pensiamo sia fondamentale lo sviluppo della sovranità alimentare, assieme alla capacità di “fare sistema” (sviluppo di un grande e competitivo polo agroalimentare che superi l’eccessivo frazionamento della produzione). Nel campo del Turismo, fattore preliminare è la bonifica delle acque. Infatti troppi Km dei nostri litorali sono non balneabili. Ed inoltre è indispensabile salvaguardare il tratto costiero attraverso piani territoriali intelligenti, che impediscano la distruzione del patrimonio naturale. Infine bisogna mettere in campo una intelligente pianificazione che intrecci il vasto patrimonio naturalistico e culturale del Sud, in modo da distribuire al meglio nel corso di tutto l’anno l’accesso turistico alle nostre regioni e al Mezzogiorno in toto..

  2. Sviluppo sostenibile è da noi considerato quale processo integrativo che tenga conto delle vocazioni naturali del territorio. È ad esempio indispensabile per il meridione dare una spinta forte allo sviluppo delle energie alternative e pianificare un ciclo integrato dei rifiuti che si basi su: riduzione a monte della produzione di rifiuti; implementazione spinta della raccolta differenziata con il metodo del porta a porta; realizzare impianti di compostaggio/biofermentazione; trattare a freddo la frazione residuale (TMB ad es.); rigettare la politica dell’incenerimento e delle discariche; sviluppare l’autonomia locale del sistema. Sviluppo sostenibile è anche, per noi, l’adeguamento del sistema produttivo che garantisca la sicurezza sociale ed economica (a partire dall’introduzione di un salario minimo garantito) e la sicurezza in termini di impatto ambientale sul territorio. Ciò deve essere ottenuto anche attraverso lo sviluppo della Cultura e della Ricerca, istituendo centri di ricerca in un’ottica di pianificazione e sviluppo di progetti produttivi avanzati, tenendo conto dell’alta scolarizzazione del Sud e secondo una visione sistemica che preservi ed integri le aree di eccellenza già esistenti.

  3. È strategico un inventario delle risorse (umane, tecnologiche, culturali) disponibili, anche se in crisi, promuovendo un utilizzo collettivo, sotto la direzione dei soggetti territoriali sotto controllo popolare e promuovendo delle forme – sia pure elementari – di autogoverno dei produttori.

  4. Lo sviluppo della Sicurezza sociale deve porre al centro la dignità della persona (lavoro, sanità, politiche sociali) e deve esser fondato sulla partecipazione ed il controllo popolare sull’organizzazione della produzione.

  5. Si intende proporre la creazione di distretti basati sulle vocazioni naturali dei territori nei quali sia importante l’impegno di risorse pubbliche, non erogate “a pioggia”, così come successo nel passato con grossi sprechi di risorse pubbliche (ciò è vero anche nel settore della Sanità) senza benefici per la popolazione, ma orientate verso lo sviluppo di buona produzione e buoni e duraturi posti di lavoro, anche utilizzando al meglio i fondi europei (a qualcosa deve pur servire questa UE) fondi che nel passato sono stati sottoutilizzati e/o dirottati verso le regioni del Nord.

  6. Tra i distretti da proporre, assume importanza di principio quello della Integrazione e Multiculturalità, considerato che il carico maggiore dei processi migratori avviene per le regioni del mezzogiorno d’Italia. A nostro parere, fermo il principio discriminante della “sacralità” dell’accoglienza, da una parte vanno rispettati gli accordi di redistribuzione tra i paesi dell’UE (di questi giorni la contrarietà dei c. d. paesi di Visegard, con i quali il razzista Salvini va a braccetto) in quanto è impensabile che il carico dell’accoglienza pesi quasi esclusivamente sull’Italia e sul meridione. E d’altra parte, creare percorsi di integrazione e opportunità (partendo dall’abolizione del reato di clandestinità), tenedo presenti chiari e precisi piani programmatici, in un percorso di interscambio culturale e valorizzazione delle risorse umane, forieri di un arricchimento reciproco e di reclutamento di forze proletarie per il percorso verso il socialismo.

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