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La crisi dell'imperialismo USA e la presidenza Trump

Le elezioni presidenziali statunitensi del 2016 hanno senza dubbio evidenziato la profonda crisi sociale, economica, politica e ideologica della superpotenza imperialista. Hanno rivelato anche, in modo evidente, l'esistenza di profonde divisioni in seno alla classe dominante degli USA, e con il grande capitale europeo, promotore di un sempre più antidemocratico processo di integrazione capitalista in Europa.

Tutto ciò è espressione della profonda crisi del sistema capitalista e, in particolare, della crisi che investe i due principali pilastri di tale sistema sul piano mondiale: gli USA e l'UE. Indipendentemente dalle molte incertezze e dalla possibilità di eventi sorprendenti, anche nel futuro immediato, è certo che la vittoria di Trump accelererà le contraddizioni e provocherà nuove scosse che acutizzeranno ancora di più la crisi. Non è neppure da escludere la possibilità che ci si trovi di fronte a un processo di grandi sconvolgimenti nel sistema capitalista mondiale.

Il malcontento come espressione della crisi sociale

E' un fatto che tutto il processo delle elezioni presidenziali abbia reso evidente il profondissimo malcontento che regna in seno al popolo statunitense. Malcontento che, per la sua estensione e profondità, ha colto di sorpresa quanti si limitano ad accreditare e a riprodurre i miti e le menzogne della comunicazione sociale dominante. Basti ricordare che un serio pretendente alla candidatura del Partito Democratico (Sanders) si è autoproclamato "socialista" (indipendentemente dalla verità dei fatti) percependo che qualcosa di inedito sta accadendo negli Stati Uniti. E la profonda crisi di legittimità del sistema politico negli USA è resa visibile dal fatto che il vincitore delle elezioni, Trump, nei suoi comizi affermava che Hillary Clinton era corrotta e che si sarebbe dovuto arrestarla, presentandosi come uomo della provvidenza per "prosciugare la palude" dalla corruzione a Washington.

La constatazione della crisi sul piano politico non può essere spiegata da chi la attribuisce solo alla propaganda mediatica del sistema. Tale malcontento profondo e generalizzato riflette una realtà che è stata nascosta per decenni nei titoli e nelle notizie dei telegiornali: la realtà dell'accentuato impoverimento della maggioranza del popolo statunitense, in un paese dove l'oscena ricchezza di una minoranza è sempre più grande; la realtà di molti lavoratori che neppure con un doppio impiego riescono a uscire dalla povertà. Tale impoverimento ha cominciato ad acquisire maggiori caratteristiche di massa alla fine degli anni 70, con l'avanzata dell'offensiva antisociale del capitalismo. Gli Stati Uniti sono il più ricco paese del pianeta, ma insieme a Papua Nuova Guinea, sono l'unico paese in cui non esiste il diritto legale al congedo di maternità e neppure esistono congedi per ragioni di salute garantiti dalla legge (Time, 16.1.15). Non esiste un sistema nazionale universale si assistenza sanitaria pubblico, fatto che si riflette in molteplici indici.

Gli Stati Uniti hanno il 34% dei miliardari del pianeta, ma il più alto tasso di povertà tra i paesi sviluppati: uno su sei statunitensi (46,2 milioni di persone) vive sotto il limite della povertà. Vari studi recenti indicano che la speranza di vita sta diminuendo tra la popolazione nel suo complesso, e in forma più marcata tra la popolazione bianca, una tendenza che è stata "attribuita a quelle che spesso sono chiamate le malattie della disperazione: overdose (di droghe), alcolismo e suicidi". Nel 2015 il numero delle morti per il consumo di oppiacei ha superato, per la prima volta nella storia, il numero delle morti per armi da fuoco. Fatto notevole, quando anche la comunicazione sociale riflette la vera e propria epidemia di massacri e sparatorie che tolgono la vita a molti statunitensi.

Il sistema risponde a questa situazione sociale esplosiva (che non è stata invertita negli anni di Obama) con la criminalizzazione dei poveri. Gli USA hanno il 4,4% della popolazione mondiale, ma il 22% dei prigionieri (quasi 2,3 milioni di statunitensi sono in carcere). A partire dalla presidenza Reagan (negli anni 80) molte prigioni sono state privatizzate e sono fonte di manodopera a costi ridottissimi, in una sistema di super sfruttamento che ha già ricevuto il nome di "complesso  carcerario-industriale". La popolazione carceraria è, in gran parte, costituita dai settori più poveri e sfruttati del paese. Dentro e fuori le carceri, la violenza caratterizza il sistema. Le vere e proprie esecuzioni da parte della polizia nelle strade del paese (soprattutto di afro-americani) non sono quasi una notizia. La violenza irrazionale che è il segno distintivo del potere planetario dell'imperialismo statunitense è l'altra faccia della medaglia della violenza e della repressione contro la propria popolazione, e in particolare gli strati più poveri.

E' oggi di un'evidenza incontestabile, riconosciuta persino da alcuni candidati alla Casa Bianca, che la tanto vantata "democrazia" statunitense è in realtà il sistema di potere di una piccola minoranza di ultra-ricchi, che cercano di diventare ancora più ricchi. Come i comunisti hanno sempre affermato, non è possibile dimenticare l'aggettivo "borghese" quando si valuta la realtà dei sistemi formalmente democratici nel contesto del capitalismo.

La crisi dell'imperialismo USA

L'esplosione della crisi del 2007-2008 ha avuto il suo epicentro negli Stati Uniti. Nel corso degli ultimi decenni, quello che era il fiorente capitalismo industriale statunitense si è trasformato in un casinò tossicodipendente dai sussidi statali e dalla gigantesca macchina della guerra e della sovversione che si impone sul resto del pianeta saccheggiato su larga scala in nome del "consenso di Washington". Decenni di delocalizzazione della produzione da parte del grande capitale statunitense (che è servita anche per attaccare la condizione sociale della classe operaia degli USA), la speculazione, la frode, i meccanismi finanziari sempre più separati dalla produzione (che la caduta tendenziale del tasso di profitto ha smesso di rendere attraente) hanno creato un sistema fittizio di "ricchezza" senza contropartita materiale. Un sistema che si basa sull'egemonia dell'imperialismo statunitense sul sistema finanziario mondiale; sulla sua grande comunicazione sociale di massa (compresa la sua componente hollywoodiana); e sul suo gigantesco apparato di guerra (inclusi i suoi servizi segreti come la CIA). Il resto del pianeta ha alimentato sempre di più il parassitario e decadente capitalismo degli USA, che stava affondando in un debito insostenibile (come da molti anni affermano le Risoluzioni Politiche dei Congressi del Partito Comunista Portoghese).

Ma, dialetticamente, questa deindustrializzazione e delocalizzazione produttiva fuori dagli Stati Uniti ha contribuito a far crescere nuove potenze emergenti o riemergenti. 25 anni fa il PIL degli USA rappresentava quasi un quarto del PIL mondiale (e quasi il triplo del PIL del Giappone, la seconda maggiore potenza capitalista). Oggi tale percentuale è di circa il 16%, percentuale quasi identica a quella della Cina (e forse anche un poco più piccola).

La consapevolezza dell'insostenibilità sul piano economico della propria egemonia ha condotto la classe dirigente degli Stati Uniti a cercare, all'inizio di questo millennio, l'affermazione unilaterale del suo potere per via militare. L'espressione più visibile di questa scelta è rappresentata dall'invasione dell'Iraq nel 2003 e dagli scontri pubblici con due grandi potenze europee, l'asse franco-tedesco che allora egemonizzava l'UE. La sconfitta di questa iniziativa unilaterale e l'esplosione della crisi mondiale del capitalismo nel 2007-2008, si è tradotta in una rinnovata alleanza USA-UE, egemonizzata dagli USA, che ha caratterizzato le presidenze di Obama. Una alleanza che, pur tra rivalità e contraddizioni sempre presenti, ha cercato di affrontare gli effetti della crisi attraverso il rafforzamento delle politiche di dominazione planetaria imperialista mediante la guerra e la sovversione (Libia, Siria, Ucraina, Yemen, e collaborazione in Afghanistan e Iraq, controffensiva in America Latina e in Africa) e le brutali politiche contro i propri popoli (come quelle della troika) che hanno accompagnato salvataggi e sussidi alle banche e al sistema finanziario.

Quasi un decennio dopo lo scoppio della grande crisi del capitalismo, è evidente che il sistema non è stato capace di risolvere i problemi di fondo. Nuove esplosioni della crisi sono all'orizzonte. La crisi nella, e della, Unione Europea è diventata palese. Tra l'altro, il sistema si è isolato socialmente. E' cresciuta l'opposizione all'egemonia imperialista euro-americana da parte dei paesi che hanno visto messa in discussione la stessa loro esistenza, con particolare attenzione alla Russia. L'aiuto militare della Russia alla Siria e la crescente collaborazione di Russia e Cina – non solo sul piano economico – hanno segnato una nuova fase della crisi e dei suoi tellurici riflessi politici.

L'ascesa di Trump

La vittoria di Trump non è scollegata da questo duplice aspetto – interno ed esterno – della crisi degli USA. Multimilionario, Trump non è un candidato anti-sistema, nonostante tutta la sua retorica. Al contrario, è espressione di questo sistema, anche se cavalca il malcontento che esso genera. Riflette spaccature in seno alla classe dominante in merito a come affrontare meglio la crisi della superpotenza del capitalismo. Sebbene non sia interamente chiara la strategia di questi settori sul piano internazionale. Ma la stessa parola d'ordine "Make America Great Again" e la reazione quasi isterica dei principali dirigenti europei alla vittoria di Trump, permette di prevedere che la strategia degli Stati Uniti di Trump accentuerà la prima componente del binomio rivalità-concertazione, che sempre ha caratterizzato le relazioni tra le principali potenze imperialiste del nostro tempo. La decisione di rompere con il TPP e gli altri trattati commerciali nemici dei popoli e della sovranità degli Stati deve essere vista sotto questa luce.

Meno incertezze esistono circa il significato della presidenza Trump per i lavoratori e il popolo statunitense. Le prime nomine di Trump già hanno fatto prevedere un governo composto da multimilionari reazionari, legati ai settori finanziario (Goldman Sachs) e petrolifero (Exxon), e caratterizzati dall'odio per i diritti dei lavoratori e del popolo. Minacciosa è la presenza di almeno tre generali (il ministro della Difesa, il responsabile del Dipartimento della Sicurezza Interna – Homeland Security – e il Consigliere della Sicurezza Nazionale). Al di là delle inevitabili campagne demagogiche, ciò che si prospetta è un'accentuazione delle politiche antisociali e dell'offensiva di classe, accompagnate da un crescente autoritarismo e militarismo.

Non devono essere sottovalutate le spaccature che sono emerse in seno alla classe dominante degli USA. La violenza della campagna elettorale non è stata solo un fuoco di paglia, né è risultata dal fatto che qualcuno sarebbe stato più progressista di altri. Ciò che è messo in gioco è il futuro della superpotenza imperialista e il suo ruolo planetario. L'appoggio a Hillary Clinton di quasi tutto il sistema mediatico, di buona parte dei servizi segreti e di quasi tutto l'apparato legato alla politica internazionale degli Stati Uniti (compresi molti "neocons" del tempo di Bush e della guerra in Iraq), è un fatto. Nel mese di agosto, in piena campagna elettorale, una cinquantina di repubblicani di primo piano, molti dei quali legati ai precedenti presidenti repubblicani (compresi l'ex capo della CIA e del NSA, il famigerato John Negroponte, ed ex capi dell'apparato di Homeland Security, creato all'indomani dell'11 settembre, come Michael Chernoff e Tom Ridge, hanno reso pubblico un appello per non far eleggere Trump, accusandolo di "mettere a rischio la sicurezza nazionale del nostro paese".

La comunicazione sociale che appoggiava Clinton ha quasi definito Trump agente del presidente russo Putin. Alla vigilia della riunione del Collegio Elettorale (che conferma l'elezione del Presidente degli Stati Uniti), il Washington Post (9.12.16) è tornato alla carica con un articolo dal titolo "Uno studio segreto della CIA afferma che la Russia ha tentato di aiutare Trump a conquistare la Casa Bianca", a cui Trump ha replicato dicendo "è la stessa gente che aveva detto che Saddam Hussein aveva le armi di distruzione di massa". Non si può escludere che, fino all'insediamento del nuovo presidente (20 gennaio), possa accadere "qualcosa di pazzesco" per evitare il giuramento, come ha anticipato il cineasta Michael Moore (NBC, 9.12.16). Michel Chossudovsky non ha escluso la possibilità di una crisi istituzionale negli USA. Lo stesso fatto che Trump abbia perso il voto popolare nel confronto con Hillary Clinton, contribuisce ad aumentare questa possibilità, le cui conseguenze sarebbero imprevedibili.

La crisi del capitalismo andrà aggravandosi

C'è ancora molta incertezza sulle linee guida della presidenza Trump sul piano internazionale. Sarebbe sbagliato sopravvalutare dichiarazioni profferite durante la campagna elettorale, anche perché sono state frequentemente contraddittorie. Né il sistema di potere negli USA dipende da un solo uomo, né la natura di classe del sistema e le sue tare possono essere dimenticate. E' stata la consapevolezza di tale elemento che ha impedito che il Partito Comunista Portoghese si abbandonasse alle euforie Obama-maniacali di otto anni fa, mettendo in guardia (correttamente, come il tempo ha dimostrato) sul fatto che Obama era un candidato generato dal sistema in conseguenza della sua grave crisi, per cercare di canalizzare il malcontento già allora presente e non per trasformare. Ci potrà essere una certa distensione nelle relazioni USA-Russia, ma anche questo non è certo, essendo già visibile un ulteriore rafforzamento della fortissima campagna anti-russa (potrebbe anche verificarsi qualche enorme provocazione, che rilanci lo scontro tra le due maggiori potenze nucleari). Con la squadra di Trump si stanno addensando le minacce a Iran, RPD della Corea, Cuba e al popolo palestinese, e si moltiplicano le provocazioni alla Cina. E' quasi certo che le relazioni degli Stati Uniti con le potenze europee conosceranno un nuovo periodo di importanti sconvolgimenti, con conseguenze ancora imprevedibili, ma di enorme impatto mondiale.

L'instabilità e l'incertezza che caratterizzano la crisi sistemica del capitalismo tenderanno a crescere. Le rivalità tra potenze imperialiste tenderanno ad acutizzarsi, nella misura in cui la concertazione sta sempre più cedendo il posto al si salvi chi può e alla rivalità. I pericoli che il sistema ricorra a soluzioni di forza continua a rimanere all'orizzonte, anche se sotto forme diverse. I popoli non possono aspettarsi soluzioni che vengano dal cuore del sistema. E' indispensabile lottare per alternative di pace, progresso e trasformazione sociale, che solo con la loro lotta possono essere realizzate. E' indispensabile non perdere di vista che, come la Storia insegna e la realtà rende sempre più evidente, il capitalismo non ha nulla da offrire ai popoli, tranne lo sfruttamento, la miseria e la guerra.

 

Jorge Cadima | omilitante.pcp.pt
Traduzione da marx21.it

"O Militante" gennaio-febbraio 2017

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