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Rompere l’Unione Europea. 30 novembre 2013 Forum della RdC sulla proposta politica. Relazione introduttiva

La costruzione dell’Unione Europea è ormai un processo, che ha un carattere storico, in continua evoluzione e che va valutato molto attentamente sul piano degli effetti e delle contraddizioni sia interne sia internazionali.
Il ruolo dell’EURO, il rapporto tra questo e le altre monete forti, la capacità competitiva dell’UE sono al centro del dibattito e di un confronto/scontro internazionale ma questa situazione viene misurata sul piano degli effetti finanziari sugli Stati, dell’assetto produttivo continentale etc. cioè si analizza il tutto alla sola luce dei parametri economici.

Questo punto di vista “economicista” è ovviamente naturale per gli economisti borghesi e, purtroppo, è stato acquisito anche nel dibattito a sinistra, anche di quella più radicale, di fatto accettando quei parametri e quel piano di ragionamento.

Mi sembra che questa accettazione rischia di essere un significativo esempio di subalternità politica e culturale certamente non voluta ma introiettata in quanto riflesso della debolezza del conflitto di classe nel nostro paese. In questo senso si confida e ci si concentra sull’analisi delle contraddizioni dell’avversario, magari scommettendo sulla implosione dell’Euro e del progetto europeo, che da sole però non possono automaticamente portare ad aprire nuovi spazi per lo sviluppo del movimento antagonista. Così facendo si rimuove completamente il dato dei rapporti tra le classi oggi, il processo storico e politico e le dinamiche che hanno portato a questo punto; si sottovaluta il ruolo della loro soggettività limitandola alla sola reazione ai processi materiali ed alle contraddizioni dell’avversario.

In realtà la costruzione della Unione Europea e le relazioni tra le grandi potenze stanno procedendo verso una politicizzazione delle contraddizioni che sopravanzano il piano meramente economico e finanziario e si spostano su quello del confronto diretto e indiretto certamente politico ma anche militare. Lampanti sono in questo senso le vicende della Siria che hanno pubblicamente mostrato i limiti concreti dell’imperialismo USA, che questa volta ha dovuto tenere presenti e contrattare con quelle forze e Stati che vorrebbe tenere, come sua naturale attitudine, sotto scacco. Ma anche il conflitto cino-giapponese sulle isole del Pacifico vanno in questo senso ed anche qui con il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti.

Non ci si può più limitare ad analizzare le dinamiche economiche, finanziarie e sociali ma bisogna capire anche quelle politiche e militari che stanno emergendo in modo sempre più evidente a causa della impossibilità di risoluzione delle contraddizioni strutturali e che ci stanno ad indicare, se ce ne fosse ancora bisogno, che il procedere della Storia non si è affatto bloccato.

Naturalmente siamo coscienti che la nostra proposta si inserisce in una situazione caratterizzata da rapporti di forza molto sfavorevoli alle classi subalterne ma nelle condizioni attuali una proposta politica deve avere come obiettivo quello di essere funzionale al processo di sedimentazione delle forze teoriche e pratiche, condizione indispensabile per dare credibilità ad ogni ipotesi politica alternativa. I caratteri della proposta politica, il suo impianto teorico, la sua articolazione in relazione alle contraddizioni generali che si esprimono devono avere, oltre ad una sua organicità interna ed un solido impianto scientifico, l’obiettivo di promuovere i processi di lotta e di organizzazione in tutti gli “anfratti” di una società complessa e sottoposta alla pressione dei processi capitalistici e della competizione globale. E’ questo il senso ed la finalità concreta del nostro sforzo di elaborazione collettivo.

L’UNIONE EUROPEA COME POLO IMPERIALISTA

Da tempo come Rete dei Comunisti abbiamo espresso un giudizio chiaro sulla natura della Unione Europea definendola come un nuovo soggetto a carattere imperialista; temine questo che va inteso nel suo senso classico ovvero non solo come tendenza militarmente aggressiva ma come livello di sviluppo complessivo della società. Sviluppo che per poter ulteriormente crescere e riprodursi nei suoi caratteri capitalistici deve “riversarsi” oltre i propri limiti economici e fisici, dalla dimensione produttiva fino a quella militare. Dunque non un capitalismo “neo liberista e cattivo” ma imperialista come condizione necessaria per la sopravvivenza del proprio capitale.

Oggi, infatti, non è più sufficiente parlare solo dell’imperialismo USA, come siamo stati abituati a fare per molti decenni, ma anche l’U.E. è un soggetto che tenta di affermare il proprio ruolo internazionale riorganizzandosi a livello continentale. Questo per competere con i grandi paesi ed aree economiche e monetarie emerse dopo la fine dell’URSS a cominciare dalla strategica competizione per lo sviluppo delle forze produttive. 

Questo processo iniziato molti decenni fa e concretizzatosi nei primi anni 2000 con la dimensione finanziaria e la nascita dell’Euro, come potenziale moneta di riserva internazionale, si sta sviluppando in tutto il continente sul piano economico, dei sistemi produttivi, di quelli sociali con  il chiaro obiettivo, che Letta ha dichiarato nelle settimane scorse, di costruire gli “Stati Uniti d’Europa”. Insomma l’intento è quello di realizzare un nuovo soggetto statuale che competa nel mondo al massimo delle sue capacità e su tutti i piani, incluso quello politico e militare. 

Anche su questo i segnali che giungono dalla cronaca quotidiana, per quanto attutiti dalla diplomazia internazionale, sono molto evidenti. L’interventismo militare della Francia nel Vicino Oriente, dalla Libia alla Siria fino a tutta l’Africa occidentale, ci dicono che l’Unione Europea non vuole essere seconda a nessuno. Vale la pena di mettere in evidenza un particolare che sfugge o viene sottaciuto nella costruzione dell’Europa Superpotenza ed è quello dell’armamento nucleare.

Nella costruzione in atto non si può pensare di dare vita ad un “competitor” internazionale che non possegga l’arma nucleare, l’importanza della quale viene nuovamente sottolineata dalle vicende dell’Iran. Nella trattativa interna alla UE questa prerogativa francese viene posta come elemento strategico nella definizione della gerarchia del potere continentale che si sta componendo non solo sulla base dei parametri economici.

Una controprova in “tempo reale” ci viene dalla vicenda dello spionaggio statunitense nei confronti dei leader europei, un evento che sta a dimostrare la maturità di questo processo in quanto non è mai accaduto che il controllo degli USA sui suoi alleati, praticato fin dalla seconda guerra mondiale, producesse scandalo.  

Dietro la facciata della “scorrettezza” tra eguali si celano contraddizioni ben più pesanti che dimostrano la durezza della competizione tra potenze imperialiste. Infatti il primo dato che si manifesta è l’avanzamento della tecnologia statunitense che riesce a penetrare le “difese” tecnologiche dei capi di Stato occidentali. Questo avanzamento crea allarme non solo in Europa ma anche presso la Cina e la Russia, altri due soggetti della competizione globale, e crea allarme sia sul fronte dello spionaggio industriale che su quello delle tecnologie militari decisive per il futuro controllo del pianeta. Dobbiamo sapere che oggi è questa la posta in gioco.

IL NOSTRO OBIETTIVO, ROMPERE LA UE

Se è questo il processo in atto - e ci sembra sia così ormai dagli accordi di Maastricht - i comunisti, la sinistra di classe ed i democratici di questo paese devono prendersi la responsabilità di essere chiari nei propri giudizi e nelle indicazioni politiche da dare. In questo senso pensiamo che l’indicazione da dare sia di lavorare per la rottura dell’Unione Europea in quanto obiettivo unificante sul piano politico e sociale, cioè operare per contrastare a tutto tondo una costruzione dannosa e pericolosa per tutti i popoli d’Europa.

Dannosa e pericolosa per le classi subalterne perché intere parti sociali vengono fatte regredire economicamente, socialmente e culturalmente. L’erosione costante del reddito da lavoro, la precarietà elevata a sistema di vita, la distruzione dello stato sociale, la devastazione ambientale e molto altro ancora sono il prodotto diretto, tracciabile nella sua evoluzione, di un sistema economico e sociale teso alla competizione ed alla feroce subordinazione degli interessi sociali e di classe.

Questo tritacarne riguarda molto direttamente i paesi cosiddetti PIIGS in cui è inclusa l’Italia, l’Europa orientale sfruttata dalle multinazionali europee ed anche la sponda sud del Mediterraneo che, allo scopo di riportarla ad uno stato coloniale, viene tribalizzata con l’intervento militare diretto che mira alla distruzione degli Stati di quell’area cosi come si sono configurati dal secondo dopoguerra.

Anche la stessa “Democrazia Borghese” viene sconfessata dalla costruzione della UE generata sulla base degli esclusivi interessi delle classi dominanti. Questa, infatti, non ha alcuna legittimazione in quanto è stata decisa solo dai governi e dai poteri costituiti senza alcuna conferma popolare. Non è certo un caso che ogni volta che i cittadini sono stati chiamati nei diversi paesi ad esprimersi tramite referendum, perfino sulla Costituzione, è emersa la sistematica bocciatura di un  progetto palesemente antipopolare ed antidemocratico.

Infine siamo di fronte ad un problema di civiltà, perché la nascita di un polo imperialista competitivo non porta alla stabilità ma al conflitto, potenzialmente anche armato, come traspare dalla cronaca quotidiana. Forse non è inutile ricordare che siamo ad un secolo dall’esplosione della Prima Guerra Mondiale generata proprio dalla competizione interimperialista dell’epoca ed oggi le dinamiche internazionali sembrano somigliare molto a quegli eventi.

Lavorare, dunque, per rompere l’Unione Europea sapendo che questa è una battaglia difficile non solo per la sproporzione dei rapporti di forza tra le classi ma anche perché significa combattere contro il proprio imperialismo e l’ideologia che questo ha radicato nelle masse popolari, rafforzata dal nefasto ruolo che svolgono oggi i mass media di tutti i tipi. Ma non è certo la prima volta che una tale questione si pone nella Storia e per il movimento operaio del nostro continente.

IL RISCHIO DELL’EUROCENTRISMO

C’è però una sfida ideologica da affrontare che comincia proprio dalle nostre stesse fila della sinistra ed è quella di sfuggire ad una visione eurocentrica del mondo che vede nel vecchio continente il motore della reazione ma anche del cambiamento. 

Mi riferisco in primo luogo a quella sinistra governista oggi ben rappresentata da SEL e da Vendola che vedono l’UE come un processo comunque positivo, che va modificato e corretto ma comunque sostenuto. Ovviamente questo non è il prodotto di una convinzione reale ma dell’opportunismo nostrano che vede la possibilità di sopravvivenza politica e materiale solamente rimanendo attaccati, anche se talvolta rifiutati, al PD.

Ma questo è un confronto che va sviluppato anche al nostro interno per andare a fondo delle ragioni della lotta contro la UE. Infatti se la proposta è quella della rottura dell’Unione Europea questa si rende realisticamente possibile solo operando per allargare le contraddizioni che la sua costruzione genera e presenta. Oggi la contraddizione principale è quella della diseguaglianza che produce lo sviluppo capitalista e che per noi significa dar vita all’opposizione dei PIIGS e di quelle parti del continente economicamente e socialmente penalizzate. Far saltare dunque l’anello debole della costruzione continentale in atto.

Questo aspetto non è però un aspetto meramente tattico, cioè cogliere le contraddizioni dell’avversario di classe. Ha una motivazione strutturale più profonda. La mondializzazione del modo di produzione capitalistico ha infatti portato ad una modifica dei caratteri della produzione trasferendo quella prima centralizzata nelle grandi fabbriche sulle filiere produttive internazionali. Queste non vedono soluzione di continuità dai centri direzionali, dislocati nei paesi imperialisti, fino a quelli addetti alla produzione materiale delle merci in quella che viene definita la periferia produttiva. Parlare, perciò, di classe operaia e di classi lavoratrici in genere significa parlare di una dimensione produttiva che travalica la divisione tra centri e periferie produttive e si “spalma” sulle filiere. In questo senso il rischio dell’eurocentrismo, cioè di considerare i lavoratori europei come una entità predeterminata, va tenuto presente nelle nostre elaborazioni e va contestualizzato rispetto alle evoluzioni tecnologiche, produttive e sociali che il Modo di Produzione Capitalista ha generato a livello mondiale.

Anche perché se le classi lavoratrici e, più in generale, quelle produttive dei PIIGS sono certamente la prima periferia della UE, non lo sono affatto per le aree economiche emergenti rispetto alle quali può esistere una complementarità produttiva in particolare con la sponda sud del Mediterraneo. Tali aree inoltre offrono oggi le vere opportunità di crescita a differenza dei centri imperialisti dove la competizione feroce impedisce alle sue componenti più deboli di affermare i propri interessi; questi divengono  cosi regressivi rispetto alle possibilità potenziali che, ad esempio, i paesi cosiddetti PIIGS possono avere. 

 

LA PROSPETTIVA DELL’AREA EUROMEDITERRANEA

E’ esattamente in direzione dello sviluppo di queste potenzialità che riteniamo che sia possibile ipotizzare e lavorare per diffondere l’idea di una alternativa euromediterranea all’Unione Europea. La sacralità con cui si sta rappresentando questa costruzione dei poteri forti va smantellata per poter far emergere la sua natura tendenzialmente reazionaria ed oppressiva per i popoli europei nel suo complesso per i motivi che abbiamo cercato di esplicitare.

E’ su questa divaricazione di interessi, in questa faglia sociale generata dalle borghesie continentali, che matura la contraddizione ed il malessere popolare sui quali crediamo sia possibile mettere politicamente in crisi il progetto della UE. Ed è in questo senso che abbiamo elaborato una proposta concreta di organizzazione, di area economica, di moneta alternativa che è stata esposta nel documento di convocazione di questo forum e che intende misurarsi e sfidare la vulgata ideologica e terroristica delle classi dominanti del continente.

Ma se non vogliamo cadere anche noi nel limite economicista che abbiamo sopra enunciato va tenuta ben presente un’altra chiave di lettura dei processi in atto: quella che riguarda le classi sociali in lotta, il processo storico e la politica cosi come oggi si manifestano.  

BLOCCO STORICO E CRISI DELLA POLITICA

La chiave di lettura che a nostro avviso va adottata e approfondita è quella relativa alla concezione del blocco storico e dei processi di egemonia. La costruzione della UE ha una sua base materiale ed economica che sta tutta dentro le classiche dinamiche capitalistiche, seppure in forme moderne, ovvero quelle della competizione e dello sviluppo delle forze produttive. Ma queste non possono procedere se non attraverso l’evoluzione delle classi sociali e delle loro relazioni reciproche. Nel caso della Unione Europea significa la costruzione di un nuovo blocco storico che integri i diversi interessi e che possa portare a termine il percorso di unificazione intrapreso da tempo ma non ancora concluso.

Questo vuol dire in termini storici il superamento e la trasformazione delle attuali borghesie nazionali e quello delle loro relative alleanze sociali che hanno caratterizzato i decenni del dopoguerra. Questo processo non è certamente un “pranzo di gala” ma vede uno scontro feroce tra classi dominanti in cui convivono contrattazione - naturalmente sulla pelle delle classi subalterne - e conflitto e dal quale usciranno i settori borghesi vincenti. Una gran parte dei quali sarà certamente tedesca ma la Germania in quanto nazione non potrà rappresentare l’intera classe dirigente continentale.

Quella che si va configurando è la costruzione conflittuale e “dialettica” di una borghesia europea della quale Letta ci parla direttamente quando affronta il nodo del ruolo del nostro paese. Questa costituzione contempla inevitabilmente modifiche delle alleanze sociali e una nuova forma di egemonia che già scompagina anche i settori non salariati della società come sta accadendo per una gran parte delle nostre piccole e medie imprese e per altri settori della borghesia nazionale. La crescita, l’apogeo e la decadenza della ventennale alleanza elettorale berlusconiana ne sono la manifestazione più evidente: i settori superati economicamente dalla nuova dimensione europea hanno cercato di resistere e contrattaccare, nonostante la loro sconfitta certa nella lotta per l’egemonia.

Va compreso molto bene, nelle conseguenze politiche e pratiche, che siamo dentro un processo ma non alla sua conclusione che non è affatto scontata ed in una condizione dove il “vecchio sta morendo ma il nuovo non nasce ancora”; ed è in questo stallo che emerge la crisi della politica italiana così come di quella europea. E’ un errore leggere la crisi della politica come inadeguatezza degli attuali partiti; il processo è molto più profondo e va individuato bene per poter fare le giuste scelte. Abbiamo visto come in questi mesi si è data per scontata la rottura del PD considerando invece il PDL come il vaso di ferro.

La realtà invece ci ha detto esattamente il contrario; leggere i processi politici attraverso i mass media e non andare a fondo nell’analisi dei processi sociali che producono quegli effetti politici ha reso la sinistra cieca di fronte alle effettive evoluzioni della situazione e subalterna al pensiero dominante. Il giudizio protratto per anni sul “Berlusconi fascista” oggi mostra l’inconsistenza di uno schema di pensiero che viene gettato alle ortiche.

Berlusconi ed il suo blocco sociale-elettorale sono stati, invece, il sintomo di questa crisi che non è affatto conclusa e che oggi si ripresenta sotto le sembianze del M5S e nella figura di Beppe Grillo. Certamente la sinistra è in crisi, i comunisti ancora di più ma non possiamo rimuovere il fatto che anche le rappresentanze politiche delle classi dominanti sono in profonda crisi di prospettive. In altre parole siamo di fronte ad una crisi di egemonia. Questa constatazione non sarà certo consolatoria ma ci aiuta ad uscire dal limbo della frustrazione permanente e dell’impotenza utile solo ad un centrosinistra che si candida a gestire la macelleria sociale prossima ventura.

La crisi, però, non riguarda solo l’Italia ed i paesi mediterranei ma anche la dimensione europea che non è in grado ancora di concludere un processo di unità politica e istituzionale effettiva. Questa condizione di stallo trova una sua cartina al tornasole sul ruolo sovradimensionato che svolgono gli apparati burocratici. Stiamo parlando della magistratura che da noi svolge un ruolo di supplenza della politica nello scontro finalizzato all’eliminazione di Berlusconi, ma anche dell’Eurocrazia di Bruxelles e della BCE che ora sono gli effettivi agenti nel processo di unificazione europea anche qui facendo i sostituti delle istituzioni politiche e parlamentari.

Darsi un obiettivo alternativo quale l’Area euromediterranea non significa solo cogliere le contraddizioni materiali della costruzione della UE ma lavorare su una debolezza politica e di egemonia per impedire quello che abbiamo definito un nuovo soggetto imperialista.

LA PROSPETTIVA DELLA TRANSIZIONE

Avanzare un’ipotesi di rottura nei confronti dell’Unione Europea vuol dire mettersi su un terreno di carattere rivoluzionario, ovvero ipotizzare una prospettiva che possa portare al superamento dello stato presente delle cose. Questo esito potenziale e auspicabile ci costringe inevitabilmente a rifare i conti con quella che possiamo definire una fase di transizione, di passaggio verso un modello diverso di società che nasce dalla crisi sistemica in atto e che per noi non può che essere il Socialismo nel XXI° secolo.

L’ipotesi di un insieme di paesi che prende le distanze dal proprio imperialismo non è certo una novità ed oggi ha il suo riferimento più avanzato nell’esperienza dell’ALBA latinoamericana che ha scelto una strada indipendente dagli USA, nonostante la guerra economica, politica e diplomatica di questi ultimi nei confronti del processo di integrazione alternativa. I motivi della divaricazione stanno nella storia di quel continente e delle sue relazioni con il proprio Nord il quale ha considerato quei paesi il proprio cortile di casa sfruttandoli e reprimendoli brutalmente.

Pezzi importanti dell’Europa ora vivono questa stessa condizione di sfruttamento che peggiorerà con l’avanzare della crisi e dunque si affaccia anche da noi l’esigenza obiettiva di separare i destini di chi viene subordinato dalle esigenze del capitale che vuole distruggere tutte le conquiste sociali, politiche e di civiltà fatte dalle generazioni precedenti. Reclamare la propria indipendenza dal progetto della Unione Europea non solo è una affermazione dei diritti dei popoli ma è anche una possibilità di crescita economica e sociale; non è vero che non c’è alternativa al capitalismo, infatti un cambiamento come quello proposto permette un rapporto diretto e più libero con le uniche aree che oggi crescono sul piano internazionale, i cosiddetti paesi emergenti. Ma anche con le potenzialità che possiede la sponda sud del Mediterraneo compressa dall’intervento neocoloniale della UE. Rompere questo progetto di dominio eurocentrico significa candidarsi ad un rapporto nuovo e più avanzato con quelle aree economiche e paesi che possono effettivamente crescere nei prossimi decenni. Inoltre costruire un diverso ruolo internazionale fuori dalla gabbia del capitale europeo è anche per i comunisti una opportunità internazionalista in quanto la sconfitta dei paesi imperialisti dominanti non può che passare attraverso l’individuazione di un modello sociale e produttivo alternativo.   

 

 

 

Su questo punto bisogna essere molto chiari: questa ripresa della marcia verso il Socialismo e la transizione, per il superamento del capitalismo, forse non è quello che ci saremmo aspettati o che avremmo voluto; questa ripresa vede l’intreccio tra elementi di socialismo e meccanismi economici intrisi ancora da una logica capitalista. La garanzia del superamento di questa non può essere meccanicamente garantita da nessuno e dunque sarà decisivo l’impegno, la lotta e la soggettività delle classi subalterne. Ma aver individuato una ripresa del movimento di classe a livello internazionale e una ipotesi di sviluppo del socialismo possibile è indubbiamente una opportunità che la situazione ci offre e che va colta inserendosi dentro questo, per ora lento, fiume della Storia.

 

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