14/06 2016

Scienza, tecnica, contraddizione capitale-lavoro: un’analisi marxista, per l’oggi

Intervento di Angelo Baracca* al Convegno Nazionale "Pianeta/Merce" tenutosi sabato il 23 febbraio 2008 a Roma ed organizzato dall'Associazione Marxista "Politica e Classe".  Di seguito alcuni stralci, non esaustivi, dell'intervento. Il testo integrale dell'intervento è in allegato.

Il vero tradimento della sinistra

[...] Voglio partire [...] da quello che mi sembra il problema più serio che affligge oggi le nostre società “avanzate” (a volte si dice “post-industriali”, come fosse un titolo di modernità): la colpa più grave che mi sento di muovere alle “sinistre” – ancor prima dell’adesione alle politiche di guerra, o all’insensibilità verso i problemi ambientali – è di avere letteralmente (s)venduto il lavoro al capitale (ivi compresa l’accettazione della divisione internazionale del lavoro, cioè la nostra posizione privilegiata di sfruttatori dei popoli e delle risorse del Terzo e Quarto Mondo, e la supina alleanza con un vero criminale come Bush).

Il lavoro ritorna ad essere una variabile assolutamente dipendente, adattabile, flessibile, come (mutatis mutandis) nei primordi del capitalismo, quando la classe operaia non aveva ancora potuto riconoscersi come tale: lascia allibiti che chi si rifaceva in qualche modo al marxismo (sia pure ad un’accezione indiscutibilmente dogmatica, e ovviamente superficiale, o formale) possa averlo rinnegato a tal punto! Questa scelta scellerata è l’altra faccia della medaglia dell’accettazione delle logiche del mercato e dei meccanismi economici neoliberisti, e ne costituisce il riflesso più diretto e drammatico per milioni di persone – in particolare giovani, emarginati, extracomunitari, più o meno “illegali” (“legalità” stabilita dal più forte, che ha saccheggiato i paesi coloniali e continua a farlo, a difesa dei propri privilegi) – che subiscono l’esclusione dal lavoro, o lo sfruttamento più selvaggio, privati di qualsiasi forma di difesa o di garanzia (per non parlare poi dell’ecatombe degli “omicidi bianchi”, una vera guerra interna in nome dello sfruttamento selvaggio). Dietro queste posizioni così smaccate e una realtà così drammatica, non pensiamo che i presupposti teorici siano ininfluenti: non vi è, stiamo attenti, un vuoto di teoria, bensì una teoria opposta, ancorché implicita. Vi è la concezione del ruolo trainante delle forze produttive (in tutte le accezioni: mercato, tecnologia, ecc.), concepite come neutrali rispetto ai rapporti di produzione: anzi, tanto più “progressive” quanto più garantiscono l’esclusione del lavoro vivo e lo sfruttamento della forza lavoro impiegata. Vi è la venerazione dello “sviluppo”, inteso come necessario e unico, la monocultura del Pil (e poiché i disastri naturali e artificiali lo fanno aumentare, tanto meglio). Tutta questa concezione si regge, poi, su un’interpretazione della Scienza e della Tecnica (le maiuscole sono intenzionali) come assolutamente oggettive, intrinsecamente progressive, dotate della capacità taumaturgica di risolvere tutti i problemi. Questa interpretazione fornisce la giustificazione ultima di qualsiasi tipo di intervento sulla natura, purché attuato con metodi “scientifici”, quantitativi e “rigorosi”, ma inevitabilmente parziali: l’uomo diviene così l’«apprendista stregone», pretende di sostituirsi alla natura stessa, ai suoi meccanismi ed equilibri, in un delirio di onnipotenza dogmatico e cieco. Salvo poi inventarsi la foglia di fico dello sviluppo sostenibile, altro ossimoro di comodo: si mistificano ormai televisioni o automobili “ecologiche”, come se nascessero sugli alberi, e non ci si vergogna di sparlare di sviluppo sostenibile perfino per un paese come il nostro che importa il 90 % delle risorse energetiche, depredando ovviamente altri paesi con il pagamento di royalties ridicole (ma chi fa più caso allo sfruttamento selvaggio che Eni e Agip perpetrano in Africa e America Latina?); mentre la monocultura, meglio la “religione”, del Pil tramuta in crescita e profitti anche i danni e i disastri ambientali! [...]

Specificità e storicità della conoscenza scientifica

[...] In primo luogo la Scienza non è – come impone in modi espliciti o surrettizi (o subdoli, come nel caso della pubblicità) l’ideologia dominante – la forma superiore di conoscenza, per il suo metodo quantitativo rigoroso, sottoposto a verifica sperimentale. Si tratta solo di una fra le tante forme di conoscenza, dotata come tutte di una sua specificità: insostituibile quindi nel suo campo di applicazione, ma addirittura pericolosa se estrapolata al di fuori di esso. Nego recisamente una superiorità della scienza rispetto ad altre forme di conoscenza, alla poesia, o alla filosofia, o alla storia; o una superiorità dell’atteggiamento quantitativo-matematico rispetto ad altri qualitativi, o estetici: ciascun approccio è appropriato, e insostituibile, in determinati ambiti e per determinati scopi. Non so come sarebbe il mondo senza scienza: ma senza poesia sarebbe sicuramente molto cupo, e senza filosofia molto arido e pericoloso. [...] Nella Scienza, e solo in essa, la misurazione e la codificazione assumono aspetti di rigore quantitativo e matematico assolutamente peculiari. Ritengo pericolosissima la pretesa di estendere l’atteggiamento quantitativo a qualsiasi disciplina, per renderla più “rigorosa” (la “qualità della vita” contiene aspetti intrinsecamente qualitativi: e si conoscono i guasti provocati dall’abuso del Quoziente di Intelligenza). [...] La Scienza, inoltre, non è una categoria assoluta, astorica, bensì un prodotto, molto specifico, dell’attività di persone che indubbiamente hanno un ruolo sociale peculiare, ma operano in situazioni storicamente determinate e sono partecipi delle correnti culturali e dei problemi del loro tempo. I contenuti e i metodi della scienza, le sue impostazioni, i suoi paradigmi, si sono profondamente trasformati (non solo approfonditi) nel corso del tempo.[...]

Scienza e logica di sfruttamento

La Scienza moderna, quantitativa e matematica, è un prodotto della società occidentale nella sua fase di sviluppo capitalistico. Altre formazioni sociali, pur avendo prodotto in precedenza conoscenze scientifiche molto avanzate, non ebbero la necessità di sviluppare approcci quantitativi simili. Strutturatasi appunto nel contesto della formazione economico sociale capitalistica, la Scienza ha sussunto nella propria struttura e nei propri metodi la logica di sfruttamento della natura e della forza lavoro umana propria della società capitalistica. Gli scienziati si configurano ed operano socialmente come una “corporazione”, una lobby, forse anche una “casta”, che si proclama depositaria di un sapere superiore, inaccessibile alle persone comuni, e sfrutta l’enorme potere che da tale sapere le deriva. [...] La “casta” degli scienziati si è formata, e si è connotata storicamente (con poche, ma lodevoli eccezioni) come complice del potere. Nel senso che in ogni fase storica dello sviluppo capitalistico si è posta l’obiettivo di:

- aumentare lo sfruttamento della forza lavoro umana e delle forze naturali, secondo le esigenze delle classi imprenditoriali dominanti;

- risolvere i problemi e le contraddizioni dello sviluppo capitalistico, nelle fasi di difficoltà o di crisi, mediante nuove soluzioni scientifiche, tecniche e produttive.

[...] Il capitalismo ha messo in contraddizione la forza lavoro umana con le forze naturali. In questo senso la contraddizione uomo natura, che a mio parere è oggi innegabile, è subordinata alla contraddizione principale, tra capitale e lavoro.

Limiti della conoscenza scientifica

L’ideologia dominante insiste sul potere, sulle potenzialità illimitate della scienza, sulla sua capacità di risolvere tutti i problemi: che si coniuga con la pretesa capacità del mercato di risolvere tutte le contraddizioni. Mi sembra francamente miope oggi non chiedersi se le sfide epocali di fronte alle quali è posta l’umanità non siano state provocate anche dallo sviluppo tecnico scientifico incontrollato, o meglio asservito agli interessi del profitto: credo insomma che sia più che mai fondamentale oggi riconoscere e analizzare i limiti della scienza. Del resto, se si conviene che essa non è la forma superiore di conoscenza, se è una forma di conoscenza specifica, per settori e scopi determinati, ha necessariamente dei limiti. Tra l’altro, riconoscere i limiti della scienza non significa in alcun modo sminuirne il valore di qualsiasi strumento consiste nel sapere fin dove è valido e si può usare con fiducia. [...]

La tecnica: una “seconda natura” artificiale, un diaframma

Anche il rapporto tra scienza e tecnica non è stato sempre lo stesso, ma è cambiato profondamente nelle situazioni e le epoche storiche. Alle origini della rivoluzione industriale la scienza ha giocato un ruolo subalterno rispetto alla tecnica, di interpretazione dei suoi ritrovati (le invenzioni), i quali nascevano negli ambienti delle nuove classi imprenditoriali, e inauguravano nuovi campi di fenomeni, ignoti allora ai ceti più istruiti (la macchina a vapore fu inventata da un fabbro ferraio, qualcosa di simile avvenne per processi chimici e metallurgici), mentre venivano studiati e messi in pratica per le applicazioni della nascente borghesia industriale, ai fini del profitto e dello sfruttamento del lavoro. Solo in una seconda fase dell’industrializzazione, dopo la metà del 19° secolo, varie discipline scientifiche assunsero un livello e un’autonomia metodologica che consentirono loro di diventare una guida per la stessa innovazione e per la scoperta di nuovi ambiti di fenomeni [...].

Da tempo è stato osservato che la tecnica ha costruito una “seconda natura”, artificiale, che ha creato un diaframma rispetto alla natura: le cose con cui ci rapportiamo nella nostra vita quotidiana sono prodotti artificiali, derivati da materiali e processi naturali, ma che di questi conservano un ricordo remoto, e hanno incorporato meccanismi propri, artificiosi, che sembrano a volte eludere le leggi naturali. Questo processo è oggi terribilmente esasperato, questo diaframma diventa una vera barriera, sempre più impermeabile e indecifrabile, che non solo allontana la natura, ma la distorce come una lente deformante, o addirittura la “snatura”. [...].

A questo ruolo esasperato della tecnica si aggiunge una situazione paradossale, un’ulteriore lacerazione: mentre ogni aspetto della nostra vita è trasformato da ritrovati tecnico scientifici sempre più sofisticati, si allarga la voragine tra il crescente specialismo della scienza e della tecnica ed il livello delle conoscenze scientifiche della gente comune. Un giovane usa con naturalezza apparati elettronici sofisticati, ma spesso non ha idea di che cosa siano una corrente elettrica, il calore, la luce. In queste condizioni mi domando quali siano le possibilità che l’uomo possa mantenere un reale controllo su questo sviluppo tecnico scientifico, o se non aumenti il rischio concreto che ne venga piuttosto controllato (o almeno succube dei potenti interessi che lo pilotano)[...].

Crisi ambientale o crisi del capitalismo? Ciclo produttivo capitalistico e salute

Il meno che si possa dire è che i problemi ambientali, la violenza che in modo sempre più profondo e irreversibile viene fatta alla natura (comprese, come più sopra abbiamo accennato, quella umana), sono non solo una conseguenza, ma un meccanismo essenziale che alimenta e sostiene la logica del profitto esasperato. Ho già discusso il ruolo determinante degli scienziati nel mettere a punto mezzi sempre più sofisticati di sfruttamento. Dietro il paravento di una Scienza talmente avanzata da rivaleggiare con i meccanismi della natura (la pretesa di “far meglio, e prima”, della natura), la presunzione riduzionista degli apprendisti stregoni, al servizio (diretto o indiretto) delle multinazionali, modifica impunemente i meccanismi naturali più profondi, “giustificando” appunto tali interventi per il metodo “scientifico”, “rigoroso” della Scienza: ma la natura è più complessa di qualsiasi nostra conoscenza, inevitabilmente parziale e limitata, per cui punisce inevitabilmente la presunzione dell’apprendista stregone con reazioni che la scienza riduzionista non aveva saputo, o voluto, prevedere (quando, pur conoscendole, non le aveva occultate per garantire gli interessi capitalistici). Il rumore mediatico sulla gravità della crisi climatica ed energetica è la cortina fumogena dietro la quale operano gli interessi delle lobby, come quella dei “termovalorizzatori” e quella nucleare. [...]

Vi è un punto che collega in modo più diretto la crisi climatica al ciclo produttivo capitalistico, ma che non a caso viene tenuto rigorosamente celato all’opinione pubblica: la nocività del ciclo produttivo capitalistico. Mentre vengono diffusi massivamente gli allarmi climatici dell’IPCC, la gente è tenuta all’oscuro dell’allarme dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) sulla diffusione di una vera “epidemia di tumori”, che potrebbero aumentare del 50% di qui al 2020; mentre si intensifica la campagna per una ripresa dei programmi nucleari “civili”, si occultano non solo i legami con il nucleare “militare”, ma anche le autorevoli denunce sul gravissimo inquinamento radioattivo dell’atmosfera del pianeta.[...]

Classe e coscienza di classe

[...] Il lavoratore riconosceva il proprio rapporto di subordinazione al capitale attraverso la sua collocazione nel ciclo produttivo. L’estrema frammentazione del ciclo ha reso evanescente questa subordinazione, che è invece divenuta ancora più forte. Oggi mi sembra estremamente più difficile portare il giovane – lavoratore precario, saltuario, o disoccupato – a riconoscere la sua collocazione nel ciclo produttivo. Sia chiaro, non sostengo in alcun modo che le classi siano scomparse, anzi, la divisione in classi è divenuta più selvaggia: ma la composizione delle classi è cambiata, è divenuta molto più complessa, meno facilmente definibile (o, vedendo il rovescio della medaglia, scontiamo un ritardo gravissimo nell’analisi della composizione di classe oggi). La scomposizione che dicevo ha disgregato anche le forme di organizzazione spontanee in cui la classe operaia si riconosceva: la sconfitta della prospettiva del sindacato di base e la deriva burocratica sono state a mio avviso riflessi e conseguenze di questo processo; e parallelamente si è sbiadito anche il progetto di società nuova che quelle aggregazioni basate sulla collocazione nel ciclo produttivo portavano con se, rimanendo eredità di frange autonome e libertarie, radicate più nell’ideologia che nella struttura. Il lavoratore precario, il disoccupato, l’extra comunitario, hanno oggettivamente una difficoltà enormemente maggiore a riconoscersi come pedine dello stesso gioco e ad organizzarsi, e trovano più naturale perseguire strade individuali per risolvere i loro problemi, o ritagliarsi altri ambiti di vivibilità. In questa situazione, da un lato la contraddizione capitale-lavoro mi sembra divenuta, in generale, meno percepibile, meno palpabile, mentre altre contraddizioni hanno assunto una maggiore immediatezza: anche per effetto delle campagne mediatiche, che hanno in tal modo anche sviato l’attenzione dai problemi quotidiani e lavorativi. Anche la contraddizione di genere è sempre esistita, da che la nostra società ha una natura patriarcale, ma il crescente inserimento delle donne nel mondo del lavoro l’ha fatta emergere: e non mi sembra un caso che sia esplosa proprio in concomitanza con le lotte degli anni Settanta. Insistere oggi unicamente sulla contraddizione capitale-lavoro – che, ripeto, rimane per me la contraddizione fondamentale – o riconoscere l’esistenza di altre contraddizioni non è a mio parere una questione di ortodossia: perché una cosa corretta venga riconosciuta ed assunta come tale, è necessario spesso seguire un processo faticoso, ricostruire nessi mascherati o perduti. Temo che anche molti “duri e puri” abbiano smarrito, per forza di cose, molti nessi. [...]

Forze produttive e rapporti di produzione

La frammentazione del ciclo produttivo e del processo e del mercato del lavoro contribuisce ad occultare anche il carattere di classe delle forze produttive, proprio quando esso è più forte e determinante che mai. L’ideologia scientista e tecnologica danno a questo occultamento un contributo fondamentale, osannando paradossalmente il carattere liberatorio dal lavoro e dalla necessità delle innovazioni, ed inducendone la necessità. L’accettazione di questa ideologia da parte delle forze sindacali e politiche, a partire dagli anni Settanta è stato uno dei principali fattori di resa al neocapitalismo e al mercato. Questo aspetto mi appare invece tanto più fondamentale oggi, quando le forze produttive sembrano smaterializzarsi, insieme al prodotto del lavoro, rendendo evanescente, appunto, lo stesso rapporto di produzione e di subordinazione, e l’identificazione di classe. Il precario, penalizzato dalla negazione di un lavoro continuativo e soddisfacente, è indotto a sublimare sotto forma di una conquista di “libertà” il peso della sua frustrazione.

Valore d’uso e valore di scambio

A conclusione di questa riflessione vorrei avanzare una modesta proposta, in contrapposizione all’approccio dilagante del neoliberismo e per ricomporre i nessi tra la contrapposizione (capitalistica) uomo-natura e la contraddizione capitale-lavoro. Di fronte alle esasperate manifestazioni che ho cercato di analizzare ritengo fondamentale riprendere la distinzione marxiana tra valore d’uso e valore di scambio.

Scrive Marx nella Critica al Programma di Gotha: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consiste la ricchezza reale!) come il lavoro.» Marx, premettendo appunto che la vera ricchezza è costituita dai valori d’uso, contesta quindi che il lavoro sia sempre la sola fonte della ricchezza: è necessario cioè definire le condizioni e i rapporti in cui il lavoro si esplica. Infatti, se l’uomo entra in rapporto con la natura come proprietario (sia dei mezzi di produzione che del prodotto) ciò è vero. «Solo in quanto l’uomo si ritiene, fin da principio, proprietario della natura, fonte principale di tutti i mezzi e oggetti di lavoro e li tratta come cosa che gli appartiene, il suo lavoro diventa fonte dei valori d’uso, dunque anche di ricchezza.» Se invece l’uomo è proprietario solo della propria naturale forza-lavoro mentre il resto appartiene ai capitalisti, allora il lavoro produce povertà per gli uni e ricchezza per gli altri. Il rapporto con la natura, e l’impatto su di essa, sono quindi strettamente legati, in ultima analisi, al modo di produzione.

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*Angelo Baracca

"Dal 1968 Professore Incaricato, e dal 1980 Professore Associato di Fisica all’Università di Firenze. Ha tenuto corsi di Meccanica Statistica, Particelle Elementari, Storia della Fisica, Fisica per Corsi di Laurea in Farmacia, Scienze Geologiche, Scienze Biologiche e Biotecnologie. Ha svolto ricerche in Fisica delle Alte Energie, Meccanica Statistica, Fondamenti della Meccanica Quantistica, Storia della Fisica e della Scienza, Storia della Tecnologia Nucleare, Didattica della Fisica, Armamenti nucleari e relazioni internazionali. Ha pubblicato più di 100 articoli su questi temi in riviste internazionali e nazionali, e ha pubblicato vari manuali didattici e saggi. Ha collaborato con Università e Centri di Ricerca in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Cuba, Argentina."